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Nell'Afghanistan in guerra (Giuliana Sgrena)


Tratto dal n. 1330 del 18 giugno di “La nonviolenza è in cammino”, pubblicato sul quotidiano "Il manifesto" del 15 giugno 2006.

L'Afghanistan non è l'Iraq ma gli scenari di guerra si stanno sempre più sovrapponendo. Tanto da cominciare a preoccupare persino D'Alema, che pure conferma una nostra presenza militare sul territorio afghano. A ricordarcelo, oltre alle battaglie sono stati anche i rapimenti, che, per fortuna, a Kabul hanno avuto esiti meno drammatici. Ma la situazione non era ancora così degenerata.
È apprezzabile che il ministro degli esteri alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti abbia ricordato l'ostruzionismo statunitense sul caso Calipari: "Ci saremmo aspettati la collaborazione americana con la giustizia italiana nella ricerca della verità e nell'accertamento delle responsabilità", annunciando che lo farà presente alla Rice. La coincidenza con l'imminente richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano da parte dei magistrati italiani rende importanti le affermazioni di D'Alema. Soprattutto se paragonate a quelle dell'ex ministro della giustizia Castelli che si era accontentato, ringraziando, della risposta negativa da parte Usa.
Tuttavia non si capisce quale coerenza ci sia tra questa denuncia del ministro degli esteri e la sua promessa di rimanere a supporto degli americani in Afghanistan. L'uccisione di Calipari è stata giustificata dal comando militare americano con il fatto che in Iraq di guerra si tratta e quando c'è la guerra si spara, poco importa dove vanno a finire i proiettili. E anche al "fuoco amico" si è ormai avvezzi. Per di più a quei tempi all'ambasciata Usa di Baghdad c'era John Negroponte già sperimentato fautore di squadroni della morte sudamericani. A sostituirlo è arrivato da Kabul "l'afghano" Zalmay Khalilzad. Sarà pura coincidenza? Sicuramente i legami tra i due scenari sono molti e non solo per la presenza di al Qaeda.
Per questo l'ampliamento della missione Nato-Isaf nel sud dell'Afghanistan voluta soprattutto dagli Usa per sganciare gli uomini impegnati in Enduring freedom per utilizzarli in Iraq, non può essere assunta e appoggiata come normale avvicendamento.
Anche chi è stato sempre contrario a una missione militare in Afghanistan non può ingnorare i cambiamenti intervenuti dall'istituzione dell'Isaf con mandato Onu che non prevedeva nessun coinvolgimento della Nato. Quindi il primo snaturamento della missione avviene nell'agosto del 2003 quando la Nato assume il comando e il ruolo di leadership dell'Isaf. Dopo lo scippo Isaf della Nato ora si passa dal ruolo di peace-keeping (che doveva assistere l'autorità afghana ad interim a mantenere il controllo a Kabul e nei dintorni, poi esteso al nord del paese) a quello aggressivo di peace-enforcing.
Quindi restando in Afghanistan, e a maggior ragione accettando la richiesta Nato di aumentare il contingente o peggio ancora mandando i caccia, l'Italia entra in guerra, quella guerra che nelle regioni tribali pashtun è già realtà di ogni giorno. L'offensiva dei taleban non sembra destinata ad esaurirsi. Anzi potrebbe persino arrivare alle porte di Kabul. Cosa farà la Nato investita di Enduring freedom (la lotta al terrorismo)? Si alleerà con una gruppo tribale contro l'altro come hanno fatto gli Usa entrando direttamente nella guerra afghana? Il gioco è pericoloso e l'arrivo in massa delle truppe britanniche ripropone lo spettro del "grande gioco" che dovrebbe far riflettere gli occidentali. E anche l'Italia. D'Alema andrà a Washington con i ricordi del precedente viaggio del 1999 e del "successo" dell'intervento euro-americano in Kosovo. Anche i pacifisti si ricordano quei "successi", sarebbe bene che li ricordassero ogni giorno al ministro degli esteri.