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Vita negra. La morte tra i binari

O sul marciapiede per il freddo o bruciati sotto un tunnel o…Chi sono?

di  Mario Pancera 

Tre ragazzi si incontrano presso la Stazione Centrale di Milano, al limite del viavai di passeggeri e non lontano dall’intrico delle rotaie. Sono tre extracomunitari, di diversa nazionalità, qui, in Italia. È già un segnale del mondo in cui viviamo. Uno ha 14 anni, un altro 15, il terzo venticinque. I due più piccoli maneggiano un cellulare. Il maggiore lo afferra e scappa sul labirinto delle rotaie per passare dall’altra parte della massicciata. Case grigie, gru semoventi e grattacieli. I piccoli lo inseguono. Arriva un treno dell’alta velocità. Lussuoso. Modernissimo. Su quale binario corre la morte? Il ladruncolo non ha scampo. Ucciso per un telefonino scippato a un ragazzo povero come lui. Straniero come lui. È cronaca del 2013. Chi sono questi ragazzi?

Ecco l’Ottocento: «Fu una lega di malviventi nati. Tutti giovani. Le femmine fra i quindici e i venti anni. I maschi fra i sedici e i trenta. Tutti sfaccendati. Tutti decorati di nomignoli. La loro associazione di furteggiare e di meretriciare durava fino alla ripartizione dei proventi che dava loro l’operazione. Di consueto si trovavano nelle basse osterie, nelle gargottes, dove riposavano mangiando e bevendo quando avevano fatto buone nottate […] ». È la cronaca del giornalista e scrittore Paolo Valera (Como 1850 – Milano 1926) raccolta in «Milano sconosciuta» nel 1879.

«Vita negra. Dormivano come dormivano: nella cantine, sui fienili, nei sottoscala suburbani o con la testa sulle braccia piegate nei luoghi dove si riposava male. Sovente nelle caverne degli edifici disabitati, dove magari mangiavano e si sdraiavano a complottare sui furti, sulle invasioni negli ambienti domestici, sugli scassi dell’indomani».

Vita negra: sette operaie muoiono bruciate nell’incendio dell’edificio in cui lavoravano a fare indumenti vari. Quelli che arrivano in Occidente made in Bangladesh o Tunisia o Cina o India. I proprietari le avevano chiuse dentro. Non è la prima volta che ascoltiamo notizie del genere. Non timbravano il cartellino e poi uscivano a fare lo shopping invece di lavorare. Non contavano nulla. Povere, schiave e straniere nel loro stesso paese.

«Malgrado la vita rude», continua Valera, «gli scopolisti aumentavano. Nome vernacolo che voleva significare furteggiare, penetrare, dare la Scopola in qualunque luogo senza pagare, a scopo di appropriazioni, di truffe e di ammazzamenti. Il nome serviva d’ombrello a tutti i delitti della malavita. Gli affiliati erano ragazzotti e ragazzotte sbucati dal limaccio sociale. Vivevano nelle pozzanghere della delinquenza cittadina. I primi davano sovente delle coltellate alle ragazze che disubbidivano […]».

A Napoli, un mendicante muore per strada, davanti a un teatro, e i passanti vanno e vengono, entrano al bar per prendersi il caffè. A Roma, due sventurati vengono bruciati sotto un tunnel mentre stanno dormendo. A Milano, un ragazzino muore nell’incendio della sua casa popolare, illuminata solo da qualche candela e senza riscaldamento. Siamo in pieno inverno. Non c’è da meravigliarsi né di chi viene ammazzato né di chi ammazza, né dei derubati né dei ladri. Questa società di sottoproletari sembra dimenticata anche da Dio.

Una voce dal cortile: « E basta con questi poveri. Ma perché non pensi all’altra?»

Mario Pancera