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Volontariato e cultura di pace

Pubblichiamo la sintesi dell'intervento fatto da Gino Buratti in occasione dell'incontro, tenutosi il 4 marzo 2013, nell'ambito del Corso di Formazione annuale rivolto ai volontari del coordinamento carcere di Massa.

Prima di provare a sviluppare il tema che mi è stato richiesto di approfondire con voi, ritengo indispensabile fare una premessa ed una precisazione.

Parzialità

Innanzi tutto la riflessione che provo a fare con voi è essenzialmente "parziale", cogliendo questo termine nei due significati: parziale, perché limitata alla prospettiva con la quale io guardo alcune problematiche, e parziale perché di parte, nel senso che non è per nulla neutrale.

Sono considerazioni in tal senso non oggettive e assolute, ma legate al tipo di interpretazione che io ho scelto per sviluppare il ragionameno e al tempo stesso anche alle scelte che a suo tempo ho fatto e che di volta in volta, come oggi, sono chiamato a rivisitare, rileggere, ridefinire.

Vocabolario condiviso

Parlare di pace, di solidarietà e di volontariato non è semplice e, sopratutto, non necessariamente è neutrale.

Il primo passo da fare è acquisire un vocabolario condiviso, in modo da collocare il ragionamento all'interno di un recinto definito, che non necessariamente è l'unico, ma che, tuttavia può aiutare.

Dico questo perché spesso le parole pace, solidarietà e volontariato vengono proposte in declinazioni profondamente differenti, con il rischio, spesso, di svuotarle completamente di un significato di trasformazione.

In tal senso ricorre quell'idea di parzialità, di cui parlavo all'inizio... perché il mio punto di osservazione nasce dall'esigenza di svolgere un ruolo di trasformazione dell'esistente, processo nel quale, dal mio punto di vista, l'orizzonte della pace (per me unito alla nonviolenza, ma non per tutti), della solidarietà e del volontariato posso essere elementi fondamentali della trasformazione.

Prima di procedere permettetemi una precisazione: userò spesso il termine volontariato, per rendere esplicito l’oggetto di queste riflessioni, ciò tuttavia confesso che non mi piace questo termine, così troppo legato alla “buona volontà” e a un “buonismo” che ne limita tutte le potenzialità ad incidere sulla costruzione di “città altre”. Preferirei i termini “cittadini / gruppi attivi” - “cittadini volontari” - “cittadini consapevoli” protagonisti cioè della propria vita e del proprio ruolo come soggetti della trasformazione.

Riconoscendo che ciò appesantirebbe la sintassi, vi invito perciò a leggere la parola volontariato con questo significato, forse poco scientifico, ma politicamente e socialmente molto pertinente.

Anche il concetto di pace spesso viene proposto in maniera diversa, talvolta ambigua. Dal mio punto l'orizzonte di una cultura di pace non può essere ridotto a una semplice icona o ad una aspirazione. La pace è qualcosa di concreto, non è assenza di conflitto, anzi essa stessa è pratica del conflitto per trasformare la società, per affermare valori di giustizia, di lotta alle disuguaglieanze...

Pace come azione e impegno di trasformazione

Declinare la pace per me, ma la cosa non è necessaria, significa affermare i valori di una cultura nonviolenta, che vuole saldati insieme strettamente i fini e i mezzi, gli obiettivi e gli strumenti, i valori e le pratiche quotidiane.

In tale ottica risulta evidente come la cultura della solidarietà, che sottende al volontariato, e la cultura di pace abbiano come elementi comuni la trasformazione della società nella direzione di un sistema più equo, solidale, nonviolento...

Ovviamente per fare questo è necessario che il volontariato acquisisca la consapevolezza di essere un soggetto del cambiamento, e non semplicemente un erogatore di servizi.

Un soggetto capace cioè di leggere le contraddizioni nel quale opera, ed offrire questa lettura al contesto sociale e cittadino nel quale viviamo.

Analogamente è necessario avere la consapevolezza che praticare una cultura di pace significa proprio sporcarsi le mani all'interno delle contraddizioni del sistema sociale e in quel contesto, spesso carico di violenza, cercare una strada altra per costruire un sistema sociale più giusto, più equo, con meno disuguaglianze.

Questa idea del volontariato non come erogatore di servizi, ma come luogo anche di costruzione di una cultura altra, come luogo di osservazione delle contraddizioni e delle marginalità, è una punto di vista particolare, che carica il volontariato, ma anche i movimenti che operano per una cultura di pace, di un ruolo "Politico" (con la P maiuscola), del quale spesso abbiamo timore.

Essere protagonisti della costruzione di un sistema solidale, richiede la capacità di andare oltre l'erogazione di servizio, di essere il momento di pratiche altre, di essere il luogo in cui si osserva il sistema sociale da una diversa prospettiva.

Ripensare la solidarietà (parte del titolo di un libro di Caritas Italiana e Gruppo Abele del 1995) ci chiede veramente di praticarla e al tempo stesso costruire il sistema sociale, le sue relazioni (economiche, culturali, sociali, personali), nell'ottica di una solidarietà diffusa e pratica, che aiuti a fare esperienze, non a chiudersi nel fortino delle nostre certezze e paure.

Ripensare la cultura di pace, significa non solo fare le marce della pace, non solo firmare petizioni contro gli F35, ma lottare costantemente, suscitando sempre nuovi conflitti, per un superamento altro delle ingiustizie e delle contraddizioni sociali, nelle quali lasciamo crescere disuguaglianza ed emarginazione.

Alcune elementi dell'esperienza della Casa di Accoglienza

Mi piace sottolineare alcuni percorsi che alla Casa di Accoglienza cerchiamo di sperimentare, all'interno delle nostre contraddizioni culturali e politiche:

  • Sperimentare e conoscere: incontro con l'alterità

  • Sospendere il giudizio

  • Le regole e il rispetto reciproco, come queste si declinano all'interno delle disuguaglianze strutturali, delle quali non possiamo non tenerne conto e che vanno riconosciute e nominate.

  • Il pregiudizio: accoglimento e riconoscimento del pregiudizio, non come colpevolizzazione moralistica, ma come percorso per riuscire ad andare oltre, in un processo di conoscenza, sospensione del giudizio e consapevolezza delle disuguaglianze strutturali esistenti.