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Sud Sudan: come si fa a parlare di conflitto etnico?

Dal 15 dicembre 2013 la Repubblica del Sud Sudan, la più giovane nazione del mondo, nata il 9 luglio 2011 dopo anni di guerra civile, è pericolosamente in bilico. Lo spettro della “guerra civile” è riapparso dopo anni di relativa calma e faticosa ricostruzione: dal 9 gennaio 2005, con il trattato di pace firmato dal governo del Sudan e dall’Splm (Sudan people liberation movement), la gente del Sud Sudan aveva potuto finalmente sperimentare “assenza di bombardamenti aerei e di fuoco d’artiglieria pesante”. Le strade erano state progressivamente sminate, e qualcuno aveva addirittura iniziato a seminare e piantare. I “giovani” (il 70% della popolazione ha meno di 30 anni) non avevano mai vissuto la “pace”, perché la guerra civile, iniziata nel 1955, temporaneamente sospesa dal ’72 all’83, aveva fatto oltre 2 milioni di morti tra l’83 e il 2005. Non vogliamo entrare nel merito del conflitto – originato dall’emarginazione sofferta dal popolo sud sudanese durante il condominio egiziano-britannico ed esacerbato dallo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, anzitutto del petrolio – ci preme soltanto sfatare un luogo comune: che la guerra in Sud Sudan sia “tribale”.
Certamente l’isolamento sofferto dalla popolazione, che ha sopravvissuto per troppi anni con servizi sanitari ed educativi essenziali, garantiti dalle chiese, dai missionari/e, e da alcune ong, non ha aiutato l’incontro e la convivialità delle differenze etniche. Nel 2011 l’analfabetismo affliggeva ancora 85% della popolazione, con picchi oltre 90% per le donne, eppure la popolazione ha vissuto un sessennio di relativa pace, perché non ne poteva più della guerra. Le provocazioni del governo di Khartoum per presentare il Sud Sudan come uno Stato “fallito alla nascita” sono ben note a chi ha operato in alcuni Stati del Sud Sudan, in particolare in quelli ricchi di pozzi petroliferi. Signori della guerra come George Athor, Peter Gadet Yaak e lo stesso Riak Machar Teny hanno una storia di conflitto e alleanza con il governo del Sudan, altalene dettate da questioni di potere.
La violenza scoppiata a fine 2013 è stata provocata da mire presidenziali e conflitti personali di capi militari che hanno vestito panni da “politici” senza smettere di essere capi di milizie. Ognuno di loro aveva ancora le proprie truppe nell’esercito nazionale, un esercito frammentato e totalmente privo di coesione.
Le suore missionarie, che dalle 6.00 del 24 dicembre 2013 hanno vissuto le alterne razzie nella città di Malakal, sono testimoni che la cattedrale ha ospitato fino a 7mila persone in cerca di protezione, ora Dinka, ora Nuer e di tante altre etnie. I feriti, che hanno beneficiato delle medicazioni da parte di suor Cecilia e suor Mary Mumbi, in un dispensario improvvisato nei locali del convento, erano di varie provenienze. Suor Elena e il personale della Diocesi di Malakal hanno aperto le porte della cattedrale a chiunque ne avesse bisogno. Le atrocità commesse dall’armata bianca (convocata da Riek Machar) e dai soldati che sostengono i contendenti hanno ridotto Malakal a una città fantasma, con migliaia di morti, e mentre stiamo scrivendo la città è nuovamente minacciata dall’avanzata dei sostenitori di Riek Machar Teny, nato “Nuer”. Eppure, il capo dell’esercito governativo che sostiene Salva Kiir Mayardit, di origine Dinka, è James Hoth Mai… anche lui nato “Nuer”. Lo scorso dicembre a Juba, mentre le armi uccidevano, molti giovani di origine Dinka hanno protetto e salvato giovani di origine Nuer. E allora, perché i media parlano ancora di conflitto etnico?

Fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane n. 6/2014 del 13/02/2014