• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

La zona grigia

Dal libro di Anna Bravo, Raccontare per la storia / Narratives for History, Einaudi, Torino 2014, riportiamo il capitolo secondo "La zona grigia" nel solo testo italiano (pp. 29-85), pubblicato dal Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo, su “Telegrammi della nonviolenza” n. 2049 (del 19 luglio 2015) e n. 20150 (del 20 luglio 2015). testo quanto mai attuale proprio alla luce dei recenti fatti di Roma e Treviso.

"Zona grigia" è una delle espressioni più fortunate di questi decenni, e una delle più distorte. Non casualmente. Che il male possa contagiare chi lo subisce è una verità semplice, addirittura ovvia. Ma non indolore. Amiamo profondamente l'idea che gli oppressi sappiano resistere, che siano solidali fra loro. Ci rassicura pensare che la contaminazione diminuisca quanto più è dura la violenza inflitta, fino a sparire in situazioni estreme. Nel Lager non ci sono colpevoli, recita il titolo del fondamentale libro di Varlam Salamov (17).

Con benefico coraggio, Levi scrive invece che "È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale" (18). E documenta questo contagio con un'analisi al cui centro sta, insieme alla responsabilità verso i propri simili, il rapporto con il potere: non un potere genericamente inteso che a Levi, credo, non sarebbe interessato, ma con il dominio totalitario nella forma compiuta che si realizza in Lager (19).

Fra i tratti che lo caratterizzano, ne spiccano due: l'ambiguità "che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio" (20); l'uso di una parte dei prigionieri nella manutenzione e amministrazione dei campi. Il che consente di ridurre al minimo il personale tedesco, e di istituire una gerarchia interna ai deportati, compromettendo chi svolge quelle funzioni e ne riceve in cambio vantaggi a volte minimi, a volte impensabilmente grandi. Simile in questo alle "istituzioni totali" studiate dal grande sociologo Erving Goffman (21), l'ordine concentrazionario si regge infatti su un sistema di punizioni e privilegi che presuppone l'assenso, la tolleranza o la protezione di una guardia, o di un altro prigioniero collocato più in alto nella gerarchia dei deportati, in qualche caso di un comandante - il termine, yiddish e polacco, per indicare il privilegio era protekcja. Un meccanismo simile vige nel Gulag ed è stato descritto, fra gli altri, da Varlam Salamov e Aleksandr Solzenicyn (22).

Nella definizione di Levi, la zona grigia è una realtà ambigua, "dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi", abitata dalla "classe ibrida dei prigionieri-funzionari" (23). Eppure ambiguità, ibridismo, confini incerti, non vogliono affatto dire vaghezza.

Levi precisa e distingue. Non applica però le categorie della ricerca sociale e psicologica - classe, ceto, cultura, pulsioni, legame con la politica e le credenze religiose - che pure considera significative e che altri autori hanno impiegato. Le fa piuttosto interagire con la distinzione primaria fra i privilegiati e i non privilegiati, che coglie partendo dall'interno, dall'analisi minuziosa della vita e morte in Lager. Da qui prende forma il concetto di zona grigia.

Il discrimine fondamentale è il rapporto con il sistema concentrazionario: l'importanza della funzione svolta, il potere sugli altri prigionieri che ne deriva. Una cosa sono i funzionari di basso rango - scopini, lavamarmitte, guardie notturne, controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti: "una fauna pittoresca" fatta di "poveri diavoli [...] che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni 'terziariè" (24). O addirittura, come gli stiratori di cuccette, inventavano una mansione facendo leva sulla passione maniacale per l'ordine diffusa fra le guardie. Si tratta di lavori "innocui, talvolta utili", che non causano danni ai compagni.

Altra cosa sono i detentori di posizioni di comando, una sorta di élite: i Kapos alla testa "delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali", fino agli addetti a varie attività "talvolta delicatissime, presso gli uffici del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), gli archivi, il Servizio del Lavoro, le celle di punizione" (25). I prigionieri "funzionari", che garantiscono la continuità amministrativa, possono manipolare disposizioni e documenti, per esempio spostando un prigioniero da un Kommando di lavoro all'altro, o ottenendo dalle guardie un trattamento meno duro per qualcuno. I Kapos delle squadre di lavoro, che assicurano la produzione per il Terzo Reich e l'ordine nel campo, hanno tutti, anche quelli di basso grado, un potere "sostanzialmente illimitato" sulla vita degli altri prigionieri; possono "commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno": fino a tutto il 1943, l'anno in cui il bisogno di mano d'opera si sarebbe fatto più acuto, "non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione" (26).

Altra cosa ancora gli uomini inquadrati nei Sonderkommando, cui era affidata la gestione materiale dei crematori (e dei prigionieri destinati alle camere a gas). Sempre così parco di toni estremi, Levi definisce la creazione di queste Squadre "il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo" (27), e ne fa un vettore dell'analisi.

Zona grigia e memoria

In un sistema fondato sul meccanismo punizioni/privilegi resistere non è da tutti, solo dei martiri e dei "filosofi stoici" (28) (pochi e presto scomparsi), perché la speranza di un piccolo, spesso effimero vantaggio non può non dominare i comportamenti.

Con una chiarezza fino ad allora mai raggiunta negli studi sulla Shoah, Levi introduce una doppia connessione: fra privilegio e memoria, fra privilegio e sopravvivenza. Lo fa chiamando in causa se stesso e i suoi compagni, e in un orizzonte culturale più complesso e variegato rispetto ai primi anni del dopoguerra.

Da un lato, il lungo disimpegno diffuso fra gli storici, specie italiani, aveva fatto ricadere sulla memoria dei testimoni un ruolo di supplenza. Dall'altro, testimoniare non significava più riempire un vuoto, significava fare i conti con un pieno di immagini che venivano da libri, da film, da serie tv, da vecchi e nuovi "automatismi mentali" e da nuove o similnuove teorie filosofico-storiografiche.

Mentre - sulla scia del famoso sceneggiato televisivo Holocaust (1978) - si diffondono versioni semplificatrici o melodrammatiche, continuano a circolare le tesi negazioniste, secondo cui non esisterebbe prova alcuna dell'uso omicida delle camere a gas - il che equivale a irridere i morti che non possono testimoniare la propria morte (29). Nel frattempo si avviano nuove forme di revisionismo storico, che con argomentazioni meno drastiche (e più insinuanti) puntano a "relativizzare" lo sterminio fino a farne una variante - di spicco, ma una fra le altre - dell'imbarbarimento europeo nella prima metà del Novecento (30). Si aggiunge, e non è affatto innocuo, un nuovo corso soggettivista, che fa leva sul rapporto sempre problematico fra la realtà e le sue rappresentazioni per negare ogni autonomia al documento, ridotto a materiale inerte utilizzabile indifferentemente per l'una o l'altra costruzione storica. Con il risultato che vero e falso perdono il loro senso proprio, per trasformarsi in opzioni inconfrontabili, come se la realtà non esistesse. E che, di fronte a posizioni alla Faurisson (31), si esprime sì un rifiuto morale e intellettuale, ma si esita a definirle per quel che sono: semplicemente menzogne (32). Sconsolante esempio di come, in omaggio alla libertà di espressione altrui, la si nega a se stessi rinunciando a chiamare le cose con il loro nome.

Verrebbe spontaneo reagire con una difesa di principio della memoria. Levi la vuole invece più solida e più forte - il che rende vitale dedicarle uno sguardo solidale ma critico.

Il suo primo interrogativo in quegli anni è se la parola dei salvati sia in grado di rappresentare l'universo della prigionia (33). Per lui come per Elie Wiesel, il testimone "vero", "integrale", è il sommerso, il musulmano, l'unico soggetto che ha conosciuto il campo dal punto più basso. "La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale" (34). La testimonianza dei sommersi è il non poter testimoniare, il salvato lo fa per loro, "per conto terzi".

Ma la gran parte dei sopravvissuti (grazie alla buona sorte, o a un minimo privilegio imparagonabile a quelli dei deportati/funzionari) è composta da prigionieri anonimi, che guardano il campo da un angolo visuale ristretto, parziale, frammentario - vale in particolare per gli italiani, collocati agli ultimi posti nella gerarchia concentrazionaria. Non rischia, un osservatorio così limitato, di risultare poco utile come strumento conoscitivo? Sì, secondo Levi. Tanto sarebbe vero, che a farsi storici sono stati finora i privilegiati prigionieri/funzionari, e fra questi i politici, i soli che avessero la possibilità di arrivare a una rappresentazione più ampia e più attendibile.

Non è richiesto concordare. Il fascino del pensiero di Levi sta nel suo presentarsi come una segnaletica dei problemi, non come spartiacque fra giusto e sbagliato, o come formulario di quel che si deve sapere per non apparire "retrodatati" - timore che corre sottotraccia nella nostra ansiosa cultura periferica.

Alla fiducia di Levi nella lucidità degli internati politici si può rispondere con il giudizio di Bruno Bettelheim, ex deportato, grande psicoanalista, scrittore: "l'elite dei prigionieri (fatta eccezione per alcuni criminali) era raramente immune da un senso di colpa per i vantaggi di cui godeva. Ma [...] il massimo al quale di solito essi arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. Ed essi si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioè sottolineando la propria importanza per la società (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realtà circostante, la propria istruzione e la propria cultura". Eugen Kogon, che aveva il ruolo di segretario personale del medico capo di Buchenwald, racconta "con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentre nella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l'aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che [...] poteva leggere perché non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall'esaurimento" (35).

Ai dubbi di Levi sulle testimonianze dei prigionieri anonimi si potrebbe rispondere così: se la frammentazione propria di qualsiasi esperienza è spinta in Lager al suo estremo, è attraverso questo estremo che bisogna passare per avvicinarsi alla comprensione. Se si capovolge il punto di osservazione, lo spiraglio attraverso cui i deportati hanno visto il campo aiuta a immaginare lo spaesamento, l'impoverimento mentale e sensoriale.

Aiuta anche quando l'attenzione si sposta alla ricerca dei dati "oggettivi". Levi riflette sulle derive e sui rischi della memoria, sul sovrapporsi di esperienze e racconti altrui, sull'impoverirsi del linguaggio esposto all'invadenza delle formule celebrative. Sullo scorrere del tempo che di per sé appannerebbe il ricordo. Sugli irrigidimenti favoriti dalla ripetizione: le testimonianze dei deportati non sfuggono al meccanismo principe del registro narrativo, secondo cui l'atto del raccontare modifica quel che si sta raccontando (36).

Levi e i suoi compagni

Sebbene il tempo non sia necessariamente la variabile principale, lo scarto fra la testimonianza per così dire coeva e quella resa a distanza di anni, a volte di decenni, può essere vistoso. Chi lavora con fonti orali sa che incertezze, errori, sovrapposizioni sono indizi preziosi per capire le culture, le ideologie, i sogni di chi racconta, la vita che poteva essere, la vita che ancora si spera per sé e per gli altri. Comunicare a chi racconta questo interesse verso i "vizi di forma" della memoria è il modo più diretto per sdrammatizzare lo scoglio della cosiddetta verità oggettiva.

Ma come applicare il medesimo criterio a una memoria che si forma contro il progetto nazista di cancellare ogni traccia, che fin dagli esordi si è data l'obiettivo di contribuire alla storia - e che teme, a ragione, l'incredulità? Per quale via fronteggiare quello scoglio, se la volontà di chi parla o scrive è precisamente documentare "come sono andate le cose"?L'invito di Levi ad astenersi dall'uso di categorie nate nella e per la normalità qui si prolunga in un ammonimento contro l'assolutismo metodologico. Compreso il suo lessico: da tempo nella storia orale si è sostituito il concetto di "testimone" con quello di "narratore" - per segnalare che la memoria non è la fotocopia del passato, è una sua interpretazione. Ma che senso avrebbe applicare il nuovo termine se chi parla lo fa proprio in quanto testimone?Agli ex deportati Levi vuol suggerire come usare al meglio quel che ciascuno ha visto o intravisto dal suo spiraglio. Li invita a distinguere fra quel che hanno vissuto e quel che hanno sentito dire all'epoca o in seguito, insiste sulla necessità di sottoporre il ricordo al vaglio delicato (e all'apparenza impietoso) che la certificazione della verità, sia pure circoscritta, impone al testimone. Li sollecita, in breve, a prendersi cura della memoria, come lui stesso (37) ha scrupolosamente fatto. I sommersi e i salvati è, anche, lo sforzo di costruire un'etica e una grammatica della testimonianza.

Se denunciando la stilizzazione retorica dei discorsi celebrativi Levi dà voce all'insofferenza di molti compagni, altra cosa è chiedere loro quell'impegno faticoso - e difficile. Ad alcuni suonerà come un attentato alla propria credibilità, il preludio di una gerarchia delle memorie che escluderebbe le più fragili. È comprensibile. Levi garantisce solo per sé e per i propri standard critici - così farebbe chiunque.

Il punto è che Levi non è chiunque, né lo è la sua memoria, elaborata da subito con il sostegno di una cultura aperta al dubbio e fiduciosa nella razionalità, accolta da un ambiente solidale anche se circoscritto, poi riconosciuta a larghissimo raggio (38). Il rischio è allora che il suo percorso finisca per apparire un modello obbligato, e irraggiungibile.

Per esporsi così al giudizio dei compagni ci vuole uno straordinario attaccamento alla verità e un rifiuto radicale del paternalismo. Che suggerirebbe una lettura compiacente, se non addirittura un'astensione programmatica dalla critica. Come prescrive, a partire dal dopoguerra, il modello progressista del rapporto fra intellettuali e operai, contadini, proletari - il mondo in cui molti ex deportati rientrano di diritto.

Ma Levi è lontanissimo sia dalle mitizzazioni ingenue del popolo, sia dalla sua elezione strumentale a guida etico-politica. Sa che a una testimonianza resa sotto dolore e sotto sforzo non si addicono sconti storiografici e palpiti sentimentali, solo il rispetto. Per questo, credo, chiede alla memoria di uscire da se stessa, di misurarsi con i criteri di precisione, consapevolezza della parzialità, discernimento che dovrebbero essere propri della costruzione storica.

Resteranno testimonianze parziali, certo, come lo è del resto la sua. Ma agli occhi di Levi, anche del Levi più sfiduciato de I sommersi e i salvati, un discorso parziale è meglio che nessun discorso.

Zona grigia e sopravvivenza

Sebbene il rapporto fra privilegio e sopravvivenza non sia nuovo nel dibattito sul sistema concentrazionario, Levi lo oltrepassa: "I prigionieri privilegiati", scrive, "erano in minoranza dentro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti" (39). I salvati, continua, devono la vita in primo luogo alla fortuna e ad abilità personali, ma anche a una forma magari minima di privilegio: in un mondo dove la morte per fame, o per malattie da fame, era normale destino, la sola speranza stava nel conquistare "un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva [...] un modo, octroyè o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma" (40). Se in altri testi Levi distingueva soltanto fra i più vulnerati e i più resistenti, ora - in I sommersi e i salvati - scrive che a sopravvivere non sono stati i migliori. Nessuno aveva osato tanto.

Il discorso semina sconcerto e dolore fra gli ex deportati. Qualcuno risponde con un argomento avanzato da molti, enunciato esemplarmente da Bettelheim: non c'è niente che un prigioniero possa fare o evitare di fare per garantirsi la salvezza (41). Si vive e si muore per caso, e sapendolo.

Ma questo è il medesimo giudizio di Levi, che lo ancora a una verità elementare: se la fortuna è capricciosa, il privilegio è volatile. In un mondo dove non c'è nessun perché, può succedere che il protetto (o il suo protettore) cadano in disgrazia, che il "buon" lavoro conquistato sia soppresso, che la gerarchia del campo si rimodelli con l'arrivo di gruppi agguerriti. Può succedere di vedere o ascoltare qualcosa di proibito, di finire tra i prescelti per una decimazione; e naturalmente di ammalarsi a morte. Il privilegio senza la buona sorte non basta, la buona sorte da sola a volte sì.

Da dove origina allora la reazione sofferta di molti ex deportati? Forse, dall'enunciazione che "a sopravvivere non sono stati i migliori". Forse, dall'impressione che Levi li abbia collocati nella zona dell'ambiguità per il solo fatto di aver avuto salva la vita. È decisivo, credo, questo passaggio: "È solo una supposizione, anzi, l'ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico "noi" in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride" (42).

Anche se Levi allarga l'orizzonte dal Lager alla condizione umana, Caino resta il simbolo dell'odio fratricida verso il quale i nazisti spingono i prigionieri, a volte riuscendoci. E resta il fulcro della sua interpretazione della prigionia: il Lager di Caino è il luogo di una guerra di tutti contro tutti, dove i sodalizi si trasformano fatalmente in complicità, i gruppi amicali in clan impegnati a scalzarsi reciprocamente, e non c'è rapporto se non all'interno dei gruppi etnici e nazionali.

È una visione condivisa da alcuni deportati, che parlano di solidarietà immaginaria. Ma si scontra con la tendenza di altri a valorizzare gli aspetti di fraternità e di resistenza, a certificare che il progetto nazista di controllo totale dei comportamenti non è passato, che Hitler ha fallito. Impegno pedagogico forse troppo generoso, valutazione controversa: se il Terzo Reich ha perso la guerra, ha fatto in tempo a distruggere milioni di vite e gran parte della cultura yiddish.

Per alcuni autori, e in altri testi di Levi, il Lager non è sempre quello di Caino. Secondo Tzvetan Todorov, anche nell'asprezza della competizione per la vita i prigionieri si sforzavano di preservare un abbozzo di contratto sociale "morale", che sapevano necessario per non distruggere livelli minimi di convivenza. Ne fa parte il galateo del Lager di cui parla Levi in un'intervista, "un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione". Come una certa "proprietà nel vestirsi, [...] aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette [...]. Allo stesso modo era considerato un... uno sgarbo, come dire una... un atto di maleducazione parlare di crematorio, nel mio campo, o di camera a gas..." (43).

È una forma di tutela reciproca che non esclude la violenza, e neppure certe esplosioni di aggressività gratuita, come i riti iniziatici in qualche caso pericolosissimi ai danni dei nuovi arrivati. Compiuti, spiega Levi, "con la crudeltà tipica delle scuole e delle caserme" (44) - il Lager è anche una grande concentrazione di maschi; all'epoca pochissimi autori uomini nominavano questo aspetto, pochi lo nominano ancora oggi.

Levi prepara il terreno alla domanda su cosa sia stata la zona grigia delle prigioniere. Nel campo femminile di Ravensbrueck le Kapos non erano meno feroci dei loro omologhi di Buchenwald o Mauthausen, la lotta per sopravvivere poteva essere violentissima, ma non c'era l'equivalente dell'"iniziazione" maschile, e tra le comuniste francesi l'atteggiamento verso l'organizzazione politica non era paragonabile a quello degli uomini (45). Forse perché le donne non avevano ruoli di altrettanto rilievo, forse perché in genere erano militanti e non dirigenti. O perché la loro scala di priorità era più duttile, più aperta alla valutazione caso per caso. Certo è che l'esperienza maschile e quella femminile divergono, confermando la pluralità delle situazioni, e suggerendo un nuovo terreno di ricerca alla storia di genere. Che da allora ha accumulato un patrimonio di studi imponente. Vale la pena rileggere in questa prospettiva la preziosa memorialistica femminile e i saggi spesso bellissimi usciti negli ultimi decenni (46).

 

Contro l'eccezionalismo

L'analisi della zona grigia si contrappone, anche, agli stereotipi costruiti sulla figura del superstite. Assiduo frequentatore di scuole, Levi si sente chiedere da qualche alunno perché non sia fuggito, e dubita di essere riuscito a spiegargli perché, tanto è diffusa l'abitudine a proiettare sul Lager le categorie del presente. Il sopravvissuto rischia di trasformarsi in colui che non ha saputo abbattere i guardiani, superare i reticolati, correre incontro alla libertà. Effetto del cortocircuito prigionia/fuga stimolato dai media, e di una storiografia poco attenta a divulgare nella scuola la realtà dei campi.

Ma c'è uno stereotipo peggiore degli schematismi di un ragazzino, una deformazione all'apparenza lusinghiera, in realtà oltraggiosa - quella dell'eccezionalismo.

Per Terrence Des Pres, il superstite è l'eroe moderno capace di attraversare il male per immergersi nella vita "senza riserve, svincolato da coazioni e mediazioni culturali sotto l'urgenza degli imperativi primordiali del corpo" (47). Per molta opinione comune, è un essere sopravvissuto perché eccezionale, ed eccezionale perché sopravvissuto - il che rischia di trasformarlo in testimone coatto della propria eccellenza. La critica durissima a queste o simili "mostruose" ideologie (48) non ha impedito il loro riemergere periodico. Troppo radicata è la convinzione che soffrire sia un merito e sopravvivere un premio.

Poi c'è la variante mistica dell'angelismo: come denuncia Alain Finkielkraut, il sopravvissuto è precettato a testimoniare del Bene, vale a dire della presenza di Dio nella storia, così da apparire doppiamente salvato, sul piano materiale, terrestre, e su quello "celeste" o metafisico, come colui che ha beneficiato del favore divino (49). Bettelheim riferisce un dialogo-simbolo fra una donna sfuggita all'arresto e alla deportazione e un'interlocutrice che aveva pagato con diversi anni di prigionia l'aiuto offerto a famiglie ebree. "Perché proprio io mi sono salvata?" si chiede la prima; e la seconda: "Perché lei possa dimostrare per il resto della sua vita che era stato giusto salvarla" (50). Per Levi che parla di "salvati", non di "scelti", e che in Lager ha visto ulteriormente indebolirsi "le sue convinzioni religiose, che erano già molto scarse" (51), questo obbligo a dimostrarsi "degni della grazia" è un insulto.

Del resto, il favore divino costa caro. Un amico credente - ricorda ancora Levi - gli aveva detto che era stato salvato perché scrivesse, e scrivendo portasse testimonianza (52). È altra cosa dal dovere di testimoniare sentito dagli ex deportati, è la condanna a giustificare la propria esistenza con la scrittura, una condanna che non prevede il "fine pena", ma il suo reiterarsi - come se tacendo il superstite perdesse il diritto alla vita. Collocando i sopravvissuti (e se stesso) fra i "peggiori", forse Levi cercava di contrastare quelle idealizzazioni, comprese le molte costruite sulla sua persona: in Italia, il testimone per conto di terzi era diventato anche il Giusto per conto di terzi (53).

Ricordo che di fronte alla morte di Primo Levi il dolore e lo stordimento per la perdita di un padre simbolico (di un santo laico, dicevano alcuni) si mischiavano alla sensazione di essere stati doppiamente abbandonati. Per la sua fine, come se i santi non avessero diritto di morire. Per il modo, come se il suicidio gettasse retrospettivamente un'ombra sulla vita. Nell'opinione comune, Levi era l'uomo che aveva vinto Auschwitz - definizione infelice per una persona così libera dal vizio della belligeranza. Il suicidio rompeva quell'immagine. Di qui la pulsione, comprensibile in chi lo amava ma violenta, a "spiegarlo" per farsene una ragione. Di qui la non innocente ostinazione di alcuni aspiranti biografi a rovistare nella sua vita alla caccia del minimo dettaglio personale.

Forse l'intero capitolo sulla zona grigia si può leggere, anche, come difesa/diffida dalle idealizzazioni.

Dentro e fuori dai reticolati

Sebbene non sia universalmente condiviso, in tutto il mondo il termine "zona grigia" è entrato negli studi filosofici, femministi, di diritto, storia, teologia, cultura popolare. Ed è diventato presto un riferimento e un terreno di confronto per moltissimi autori, da Wiesel a Todorov, da Giorgio Agamben a Dalia Hofer, da Claudia Card a Finkielkraut a Stefano Levi Della Torre, da Alberto Cavaglion a Claudio Pavone a Lawrence Langer - troppi anche solo per nominarli. Al centro, spiccano alcune domande della contemporaneità e di sempre. Perché vertono sulla narrazione del dolore e della morte di massa, sui soggetti che hanno la titolarità per raccontarli. Sul giudizio morale applicabile o meno ai comportamenti delle vittime. Sulla possibilità di usare le parole del Lager per descrivere altre realtà.

Cosa può dirci I sommersi e i salvati su quest'ultimo crocevia storico-teorico?Innanzitutto, Levi mostra che comparare non significa fare il conto delle somiglianze e differenze fra due fenomeni; si tratta di "smontare" i concetti applicati al primo fenomeno nelle loro componenti di base, per distinguere quelle che gettano nuova luce sul secondo, e quelle che al contrario li falsificano entrambi. Nel capitolo sulla zona grigia, si legge che il Lager "(anche nella sua versione sovietica) può ben servire da 'laboratorio" (54). Per il Gulag, che Levi considera uno dei rari terreni accettabili di comparazione fra nazismo e comunismo, poche parole, ma immerse in un'analisi del Lager così minuziosa e dettagliata da offrire a chiunque la possibilità di impostare una propria riflessione.

Oggi lo stato della ricerca è molto cambiato, e così il clima; la comparazione fra nazismo, comunismo e altri sistemi totalitari è auspicata e praticata. Ma proprio grazie a questa maggiore libertà, si può scoprire che resta ancora molto da esplorare all'interno stesso del mondo concentrazionario nazista. Per la zona grigia, un esercizio necessario e ancora da completare è capire se abbia le stesse caratteristiche e si realizzi allo stesso modo in tutti i Lager e per ogni categoria di prigionieri - a cominciare dalla differenza fra donne e uomini, che molti citano in modo commosso e sommario, e Levi con loro.

A maggior ragione, se si guarda a una realtà esterna, a un "fuori", bisogna chiedersi quali tratti siano almeno parzialmente associabili alla zona grigia, e se bastino a reggere l'analogia.

Levi scrive che è necessario conoscere le figure turpi o patetiche della zona grigia "se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale" (55).

Ma Levi diceva anche di non capire chi si ostinava a definire un Lager la Fiat, e - lo ricorda Lawrence Langer - dubitava dell'estensibilità del concetto. Avrebbe respinto "any effort to identify such camp behavior with the collaboration of free men and women in the Vichy or Quisling regimes in France and Norway" - il giudizio cambia a seconda che la collaborazione avvenga all'interno o all'esterno dei reticolati (56). Si sarebbe stupito di fronte all'uso del termine "zona grigia" per definire una pratica diffusa nella Grande guerra, la "pulizia delle trincee", vale a dire le operazioni di sgombero e messa in sicurezza del territorio guadagnato in uno scontro; una cosa sono le azioni dirette a rendere inoffensivo il nemico, un'altra quelle messe in atto per sterminarlo (57).

Un esempio di buona analogia è invece il lavoro di Claudia Card sulle mogli di proprietari di schiavi. Per quanto oppresse dal potere maritale, queste donne sono in condizione di opprimere a loro volta altri più vulnerabili come appunto i neri che lavorano in casa loro; e un discorso simile vale per le madri sorelle mogli di membri di organizzazioni criminali: vittime del primato maschile, da un lato, complici dall'altro (58). Card definisce queste situazioni area grigia (a suo avviso, "zona" alluderebbe troppo all'istituzione totale chiusa al mondo); ma anche al di là di questa precisazione, il suo è un prestito rispettoso, e utile a mettere in luce la coabitazione fra responsabilità e irresponsabilità, la differenza fra non avere alcun potere e averne uno, sia pure circoscritto.

Non sempre è così. Può succedere invece che, come si può cogliere in vari studi e nel senso comune, ci si aggrappi al tema dell'ambiguità e dell'incertezza dei confini. Con effetti che Levi certo non avrebbe immaginato.

 

Da concetto a metafora

Quantomeno in Italia, la risposta all'analisi della zona grigia è stata una tendenza istantanea, e ancora prevalente nei media e nel linguaggio quotidiano, a mutilare il concetto della sua carica innovativa.

Oggi si usa il termine come un attrezzo psico-antropo-sociologico buono per leggere ogni realtà che appaia opaca, nascosta, mal definita. Dalla struttura per lo spionaggio telefonico nella più grande azienda italiana (59) alla presunta trattativa stato/mafia, non esiste settore che non abbia diritto alla sua zona grigia; ce l'hanno la politica, la cultura, la società, i servizi di informazione, le polizie, lo spettacolo, lo sport, e naturalmente la mafia, l'etica e la bioetica. È stata, per usare le parole di Alberto Cavaglion, una marcia trionfale. Ma lungo la strada si è perso molto del suo significato originario: sono sparite le distinzioni fra gli abitatori della zona grigia, il suo rapporto con il potere, l'abnormità della pressione sull'individuo, alla cui luce - ammonisce Levi - vanno considerati i temi della "complicità" e della responsabilità. Cancellati i suoi caratteri fondanti, alla zona grigia mediatizzata non sono rimasti che l'oscurità e l'incertezza dei confini - terreni ideali sia per gli psicologismi sia per le mentalità complottiste. Dalla precisione del concetto si è passati alla vaghezza della metafora.

La zona grigia addomesticata

A ridosso dell'uscita de I sommersi e i salvati, uno scrittore e giornalista, ex partigiano con una storia giovanile di adesione a fascismo e razzismo, scrive sul quotidiano "la Repubblica" un articolo dove, "partendo da un elogio della zona grigia, [...] si approdava, con non piccola forzatura, a un invito all'assoluzione da ogni colpa individuale e collettiva" (60). Molti che, come l'articolista, potrebbero riflettere in chiave autobiografica sul potere di corruzione del fascismo, preferiscono cercare riparo in una abusiva ma provvidenziale terra di mezzo. Levi ne rimane stupefatto e ferito (61). Sotto i suoi occhi, l'espressione zona grigia diventa una sorta di "liberi tutti" dalle responsabilità del passato.

Di lì a poco diventerà anche una scorciatoia storiografica, raggiungendo il suo estremo in Italia, dove negli anni Ottanta gli ormai laicizzati studi sulla resistenza stavano vivendo una fase di passaggio.

Ad alcuni (soprattutto ad alcune studiose) sembrava sterile la rigida distinzione instaurata da sempre fra una minoranza attiva e l'area vastissima di quanti non "avevano saputo fare una scelta" (62) - intendendo per scelta, riduttivamente, l'atto di salire in montagna (in subordine, di appoggiare i partigiani) o all'opposto di arruolarsi nelle milizie fasciste (in subordine, di sostenere la repubblica di Salò). E sembrava improduttivo, oltre che moralistico, spiegare la parzialità e l'instabilità del radicamento partigiano fra le popolazioni con il ricorso a stereotipi annosi come l'arretratezza italiana o il particolarismo contadino: il disamore popolare poteva avere le sue ragioni.

Questione delicata, perché riconoscere che l'appoggio (o l'ostilità) erano dipesi, anche, dalle diverse strategie politico/militari dei partigiani, non era indolore. Sebbene aperta al bisogno di dedicare uno sguardo più libero ai fatti del 1943-'45, una non piccola parte degli studiosi esitava a metterlo in pratica - ma non rinunciava a usare metaforicamente il nuovo concetto.

Sostituire "zona grigia" a espressioni datate e colpevolizzanti come ritardo, attendismo, inerzia, è stata almeno in parte un'operazione di maquillage - il che contribuisce a spiegare la rapidità con cui la nuova formulazione è entrata nel linguaggio storiografico. In apparenza, si apre la strada a una visione non manichea degli orientamenti popolari; in realtà, spesso si sottintende che non c'è molto da capire. Grigiore, opacità, ambiguità, il quadro è già lì - un quadro monco, in cui la popolazione per lo più compare come la cassa di risonanza della lotta armata, quasi una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani.

Il fatto è che la nuova zona grigia ha poco a che fare con quella di Levi: la sua nasceva per sottrazione dai due blocchi dei "buoni" e dei "cattivi", revocando ad alcuni la definizione impiegata fino ad allora, per spostarli nel nuovo territorio - il che implicava un ripensamento delle due partizioni originarie.

La zona grigia addomesticata, al contrario, non ridisegna affatto quei recinti, semplicemente aggiunge loro un'appendice pronta per tutti gli usi, compresi alcuni assolutamente impropri. Infatti al suo interno si fanno rientrare soggetti diversissimi fra loro, dagli indifferenti di cui è giusto dire che non avevano "fatto una scelta", a quanti si erano schierati in forme invisibili alle categorie della politica. Per esempio le e i resistenti senza armi, e quanti agivano fuori dai circuiti di partito e dentro reticoli parentali, di vicinato, di paese.

Che con questo uso dilagante della categoria "zona grigia" si faccia a qualcuno uno sconto, a qualcun altro un'ingiustizia, non sembra importare molto. Qui il concetto non nasce dall'analisi storica, al contrario la sostituisce e la fa apparire futile. In tempi brevi, zona grigia diventa il nuovo modo di nominare una realtà poco o niente studiata, e che non si ritiene decisivo studiare - nell'ortodossia storiografica e intellettuale degli anni Ottanta domina ancora l'aspetto armato/militante, e sottoporre a un vaglio critico il rapporto fra combattenti e popolazioni metterebbe in luce i chiaroscuri degli uni e delle altre. Espulsi dalla resistenza, quei chiaroscuri vengono spostati al suo esterno, e la zona grigia entra nell'"autobiografia" del paese come nuovo tassello di un fantasmatico carattere nazionale.

Un'eredità raccolta

Novità di sostanza sul nodo storico del rapporto partigiani/popolazione cominciano a manifestarsi nei primi anni Novanta. Se è decisiva l'aria di libertà che spira dopo il crollo del muro di Berlino, in Italia a determinare la direzione del cambiamento contribuisce il pensiero di Levi. Assimilata per decenni a una palude opportunista (63), la parte maggioritaria della popolazione ha cominciato proprio allora a essere guardata con più sensibilità, per esempio sottolineando la fatica di sopravvivere e la sofferenza comune, o rifiutando di stigmatizzare esitazioni e sentimenti di estraneità rispetto allo scontro in corso (64).

Ma c'è un risultato più sorprendente, favorito in buona misura dal concetto di resistenza civile, messo a punto nell'89 da uno storico francese di formazione nonviolenta, Jacques Semelin (65). È il debutto di un filone di ricerche locali e no - storie di singoli o di microgruppi, di exploit e di lunghe routine, di salvataggi (o di complicità) - in cui la popolazione è narrata come soggetto portatore di motivazioni e obiettivi propri, non sempre integrabili all'interno dello schieramento resistenziale.

In alcuni casi - è una novità assoluta - si sceglie di lavorare intorno alle memorie di comunità vittime di stragi naziste. Memorie "estreme", perché si sono cristallizzate intorno a quell'evento traendone materia per una ostilità duratura verso i partigiani locali, a volte verso la resistenza in blocco. Estreme, anche, perché esacerbate dalle false accuse di profascismo e di subordinazione ai parroci, che risuonano nell'autodifesa dei resistenti e nei discorsi pubblici. A queste memorie, fino ad allora lasciate in esclusiva alla pubblicistica antipartigiana o assegnate alla zona grigia addomesticata, si dedicano opere che rappresentano un evento per il solo fatto di essere state scritte (66). E che portano quelle vicende nella storia nazionale, come chiedevano da tempo alcune comunità (67). A volte l'idea di una ricerca mirata parte dal loro interno, e diventa operativa con la "convocazione" di un gruppo di docenti universitari cui si chiede di appurare l'accaduto.

Qui la lezione di Levi si sente. Come lui, gli autori "smontano" i due blocchi di "buoni" e di "cattivi" - i partigiani della zona, la popolazione che ne condanna l'operato. Come lui, conducono un'analisi serrata e accurata dei conflitti, paure, rancori innescati o esasperati dalla strage, dei poteri locali - quelli, negoziabili, delle vacillanti istituzioni, dei partigiani, dei notabili, della comunità, degli stessi fascisti del luogo. Su tutti, il potere di vita e di morte dei responsabili della strage.

Ne escono straordinari spaccati di memorie ancora ferite, di situazioni (e di soggetti) i più diversi, di un lungo compianto che può affratellare o dividere. Storie vive, e veridiche.

Oggi non si può che partire da questo patrimonio di ricerche se si vuole affrontare con franchezza il processo che porta alcune comunità a trasferire la responsabilità degli eccidi dai tedeschi ai partigiani. E se si vuole esaminare laicamente le difficoltà della resistenza a porsi come matrice dell'identità collettiva. È quel che fa anche Tzvetan Todorov in un libro del '94 (68), dove racconta l'andirivieni spasmodico fra comandi partigiani, tedeschi, fascisti, con cui il sindaco di una cittadina francese cerca di scongiurare un cortocircuito di rappresaglie e controrappresaglie, e la disperazione del fallimento.

Che gli autori rivendichino o meno la lezione de I sommersi e i salvati, poco importa. Importa molto quel che il loro lavoro testimonia: che a dispetto delle distorsioni, l'appartato Levi è stato determinante nella costruzione di un nuovo spirito del tempo.

Note

17. È apparso presso Theoria, Roma-Napoli 1992. In seguito sarà pubblicato da altri editori con titoli diversi.

18. Primo Levi, I sommersi e i salvati [1986], in Opere cit., vol. II, p. 1020.

19. "Finché tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui - il che finora è avvenuto solo nei campi di concentramento - l'ideale del dominio totale non è raggiunto", scrive Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo [The Origins of Totalitarianism, 1951], Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. 626.

20. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1034.

21. Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza [Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, 1961], Einaudi, Torino 1968.

22. Cfr. fra gli altri testi, di Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa [Arkipelag GULAG, 1973], 2 voll., Mondadori, Milano 1974-'75, che a questa sua prima apparizione ebbe poche recensioni e poca eco, e di Varlam Salamov, I racconti di Kolyma [Kolymskie rasskazy, 1973], edizione integrale a cura di Irina P. Sirotinskaja, Einaudi, Torino 1999. Di Salamov era già uscito nel 1976, accolto anch'esso con scarso interesse, Kolyma: trenta racconti dai Lager staliniani (Savelli, Roma, a cura di Piero Sinatti), e nel 1992 Nel Lager non ci sono colpevoli: gli ultimi racconti della Kolyma (Theoria, Roma-Napoli, a cura di Laura Salmon); I racconti di Kolyma (Sellerio, Palermo 1992); I racconti della Kolyma (Adelphi, Milano 1995).

23. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1022.

24. Ibid., pp. 1023-24.

25. Ibid., p. 1024.

26. Ibid., p. 1025.

27. Ibid., p. 1031.

28. Ibid., p. 1028.

29. Lyotard aveva paragonato la Shoah a un terremoto così forte da distruggere, insieme a persone e cose, gli stessi strumenti per misurare la sua intensità: cfr. Jean-Francois Lyotard, Il dissidio [Le Differend, 1983], Feltrinelli, Milano 1985, pp. 81-82.

30. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah [Les Assassins de la memoire. "Un Eichmann de papier" et autres essais sur le revisionnisme, 1987], Viella, Roma 2008.

31. Robert Faurisson, già docente di letteratura all'Università di Lione, è considerato un capostipite del negazionismo.

32. Carlo Ginzburg, "Unus testis". Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, in "Quaderni storici", n.s., XXVII (agosto 1992), n. 80, pp. 529-48, ora in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 205-224. Il saggio è dedicato a Primo Levi. Vale la pena ricordare che il linguista americano di estrema sinistra Noam Chomsky difenderà Faurisson in nome della libertà di espressione e firmerà la prefazione alla sua Memoire en defense. Contre ceux qui m'accusent de falsifier l'histoire. La question des chambres a gaz (La Vieille Taupe, Paris 1980).

33. Non posso non ricordare qui la critica ferma (ma affettuosa) di Bruno Vasari, amico di Levi e vicepresidente dell'Associazione nazionale ex deportati, che rivendica l'autorevolezza del testimone, riprendendola in vari testi, vedi per es.: Enrico Mattioda (a cura di), La prevalenza della ragione sul sentimento nella testimonianza di Primo Levi, in Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi, Atti del convegno internazionale, Torino 15-16 dicembre 1999, Angeli, Milano 2000, pp. 195-201.

34. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1056. Il brano fa parte del capitolo "La vergogna".

35. B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit. L'opera ha ora, anche in italiano, un titolo corrispondente a quello originale: Il cuore vigile (Adelphi, Milano 1988). Le due citazioni provengono dal capitolo 5, "Comportamento in situazioni estreme: le difese", pp. 213-14. Grazie al suo ruolo, Eugen Kogon potrà testimoniare a Norimberga contro i medici nazisti; ma nel suo saggio Der SS-Staat: das System der deutschen Konzentrationslager [1946], arriva a scrivere che "Complicazioni psicologiche significative si avevano soltanto negli individui di una certa levatura o in coloro che erano appartenuti a gruppi o classi superiori"; il brano è riportato da Bettelheim a p. 214; il volume di Kogon non è mai stato tradotto in italiano. Secondo Kogon (è sempre Bettelheim a riferirlo), "Le classi colte [...] non erano, dopo tutto, preparate per la vita nei campi di concentramento". Dalle sue parole, scrive Bettelheim, "sembrerebbe di poter inferire che i prigionieri comuni, invece, erano adatti a vivere in un campo di concentramento, oppure che essi non soffrivano di alcuna complicazione psicologica" (ibid.).

36. Cfr. Lawrence L. Langer, Interpreting Survivor Testimony, in Berel Lang (a cura di), Writing and the Holocaust, Holmes & Meier, New York - London 1988, p. 26.

37. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., in particolare il capitolo "La memoria dell'offesa", pp. 1006-16. Levi crea, scrive David Bidussa, una lingua capace di esprimere "qualcosa che non è solo vicenda, ma ventaglio di strumenti"; cfr. Marco Neirotti, "Ma adesso noi storici dobbiamo uscire dall'atteggiamento etico", intervista a David Bidussa, in "La Stampa", 26 gennaio 2010, p. 35. Di Bidussa vedi l'introduzione a I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2003. Sul ruolo crescente della testimonianza nella trasmissione dell'esperienza e sull'"americanizzazione" della Shoah, vedi Annette Wieviorka, L'Ere du temoin, Plon, Paris 1998; trad. it. L'era del testimone, Cortina, Milano 1999.

38. L'ambiente è quello di Giustizia e Libertà. Ma parlando di posizione pubblica, va detto che Levi non è una voce dominante nell'establishment culturale, e non fa molto per diventarlo: non è, a differenza di molti altri intellettuali, un "compagno di strada" del partito comunista, tanto meno un iscritto; non è un sodale dei maggiori autori di Einaudi: le sue prime amicizie in campo letterario sono Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern, che non sono a loro volta figure centrali nel dibattito culturale italiano. Cfr. Robert S.C. Gordon, The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2012, pp. 67-68; trad. it. Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 99-101.

39. P. Levi, I sommersi e i salvati cit., p. 1020.

40. Ivi, p. 1021.

41. Bruno Bettelheim, Sopravvivere [Surviving and Other Essays, 1979], Feltrinelli, Milano 1981, pp. 197-231.

42. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1054, dal capitolo "La vergogna". Il tema di Caino è ampiamente commentato da Tzvetan Todorov, "Il secolo di Primo Levi", in Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico [Memoire du mal Tentation du bien, 2000] Garzanti, Milano 2001, pp. 213-23.

43. Vedi l'intervista resa ad Anna Bravo e Federico Cereja, a Torino il 27 gennaio 1983, ora col titolo Intervista a Primo Levi, ex deportato, a cura dei medesimi, Einaudi, Torino 2011, pp. 4-5, 11.

44. Ibid., p. 21.

45 Claire Andrieu, Reflexions sur la Resistance à travers l'exemple des Francaises de Ravensbrueck, in "Histoire@Politique. Politique, culture, societè", II (maggio-agosto 2008), n. 5, dossier Femmes en resistance à Ravensbrueck, online: http://www.cairn.info/revue-histoire-politique-2008-2.htm.

46. Cfr. fra gli altri, Dalia Ofer e Lenore J. Weitzman (a cura di), Donne nell'Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001; Sara R. Horowitz, The Gender and Good and Evil: Women and Holocaust Memory, in Jonathan Petropoulos e John K. Roth (a cura di), Gray Zones. Ambiguity and Compromise in the Holocaust and its Aftermath, Berghahn Books, New York 2005, pp. 165-78. Un esempio chiarissimo (non un modello!) della differenza si coglie confrontando l'esperienza del corpo affamato narrata da Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz [Jenseits von Schuld und Suhne. Bewaltigungsversuche eines Uberwaltigten, 1966], Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 39, 37, 35, 54-55, 40, e da Margareta Glas-Larsson, Survivre dans un camp de concentration. Entretien avec Margareta Glas-Larsson, commentè par G. Botz e M. Pollak, in "Actes de la recherche en sciences sociales", VIII (1982), n. 41, pp. 4-28. Mi permetto di rimandare anche all'Introduzione di Anna Bravo a Donne nell'Olocausto, cit.

47. Terrence Des Pres, The Survivor. An Anatomy of Life in the Death Camps, Oxford University Press, New York 1976; ora in traduzione italiana: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golish, Mimesis, Milano-Udine 2013.

48. Si vedano B. Bettelheim, Sopravvivere, cit., pp. 197-231; P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1020, capitolo "La zona grigia".

49. Alain Finkielkraut, Le combat avec l'Ange, in "Le messager europeen", IV (1990), n. 4, pp. 229-40.

50. B. Bettelheim, Sopravvivere, cit., pp. 36-37.

51. Intervista a Primo Levi, ex deportato, cit., p. 26.

52. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati. cit., pp. 1054-55, capitolo "La vergogna".

53. "Per una sorta di transfert collettivo, il Giusto tra i Giusti, il campione dell'umano si è visto attribuire una delega che lo chiamava a pensare e garantire per tutti. Ma a lui chi pensava?" Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007, p. 127. Di Ferrero vedi anche Primo Levi in Italia, intervento al convegno La manutenzione della memoria. Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei paesi europei, Torino, 9-10-11 ottobre 2003, a cura di Giovanni Tesio, Centro Studi Piemontesi - Regione Piemonte, Torino 2005, pp. 23-31, ora anche (col titolo La solitudine di Primo Levi) in www.ernestoferrero.it54. P. Levi, I sommersi e i salvati cit., p. 1022.

55. Ivi, p. 1020.

56. Lawrence L. Langer, Legacy in Gray, in Memory and Mastery: Primo Levi as Writer and Witness, a cura di Roberta S. Kremer, State University of New York Press, Albany (N.Y.) 2001, pp. 208-9.

57. Frederic Rousseau, Aux marges de la guerre: le nettoyage des tranchees. Exploration d'une "zone grise" durant la Grande Guerre, in Philippe Mesnard e Yannis Thanassekos (a cura di), La zone grise: entre accommodement et collaboration, Kimè, Paris 2010, p. 235. Il saggio, interessante, tratta della "pulizia delle trincee", vale a dire delle operazioni di sgombero e messa in sicurezza del territorio guadagnato. Nella IV parte (pp. 293-390) del citato Gray Zones, a cura di Petropoulos e Roth, il concetto di zona grigia viene fatto interagire con i limiti giuridici ed economici della denazificazione, e con l'autodifesa di una istituzione come la Chiesa protestante.

58. Claudia Card, Women, Evil, and Gray Zones, in "Metaphilosophy", XXXI (ottobre 2000), n. 5, pp. 509-28. Di Card, vedi anche The Atrocity Paradigm. A Theory of Evil, Oxford University Press, New York 2002, specie il capitolo "Gray Zones", pp. 211-34, 260-64.

59. Marco Belpoliti, La "zona grigia", introdotta vent'anni fa da Primo Levi, in "La Stampa", 27 settembre 2006.

60. Alberto Cavaglion, Attualità (e inattualità) della zona grigia, in Primo Levi. Scrittura e testimonianza, Atti del convegno omonimo (Roma, Sala del Refettorio del Senato della Repubblica, 10 giugno 2004), a cura di David Meghnagi, Libri Liberi, Firenze 2006, p. 45. Il giornalista citato è Giorgio Bocca.

61. Ibid.

62. Il mito di un'unanime mobilitazione antifascista e antinazista costruito nel dopoguerra era ormai alle spalle, anche se ha una tendenza a riemergere in circostanze politicamente delicate come elemento dell'uso pubblico della storia.

63. Vedi la critica a queste posizioni di Gian Enrico Rusconi, Resistenza e postfascismo, il Mulino, Bologna 1995, cap. I.

64. Pietro Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, pp. 47-54.

65. Jacques Semelin, Sans armes face à Hitler. La resistance civile en Europe, 1939-1943, Payot, Paris 1989.

66. Storia e memoria di un massacro ordinario, a cura di Leonardo Paggi, Manifestolibri, Roma 1996; Michele Battini e Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997; Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, il Mulino, Bologna 1997; Id., Storie di guerra civile. L'eccidio di Niccioleta, ivi 2001; Id., Sant'Anna di Stazzema: storia di una strage, ivi 2008; Alessandro Portelli, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999; Leonardo Paggi (a cura di), Stragi tedesche e bombardamenti alleati. L'esperienza della guerra e la nuova democrazia a San Miniato (Pisa): la memoria e la ricerca storica, Carocci, Roma 2005; Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole, il Mulino, Bologna 2009 (questo volume riguarda Marzabotto).

67. Nel caso di Civitella, paese toscano in cui il contrasto fra la memoria prevalente nella comunità e quella della resistenza era particolarmente acceso, lo Stato si era ridotto a cassare il paese dalle commemorazioni ufficiali.

68. Tzvetan Todorov, Une tragedie francaise. Etè 1944: scenes de guerre civile, Seuil, Paris 1994.