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Troppi nodi irrisolti dietro all'inferno turco

L’autoritarismo crescente di Erdogan. Le tensioni con i curdi. L’affronto delle violazioni da parte dei russi, le incomprensioni con la Nato, l’isolamento internazionale. Tutte le ragioni di una situazione che, alla vigilia delle nuove presidenziali, si fa sempre più drammatica

Fra tre settimane la Turchia andrà a votare perché è stato impossibile, dopo le elezioni del 7 giugno, formare un governo. Ma a questo punto è necessario porsi una cinica domanda: quanti attentati mancano al prossimo 1°novembre? Il timore che la situazione degeneri è altissimo, dopo il sanguinoso attentato alla stazione ferroviaria di Ankara, proprio mentre si riunivano i partecipanti alla marcia della pace per protestare contro le violenze che avvengono nel Sud-Est del Paese, tra esercito turco e guerriglieri curdi del Pkk (seguendo il link nell’icona blu, un grafico interattivo dell’area dell’esplosione). Marcia della pace promossa e sostenuta dall’Hdp, cioè da un partito chiaramente curdo, ma che alle ultime elezioni ha calamitato consensi da forze non appartenenti al proprio tradizionale elettorato. Ha in pratica raccolto, seppur in prestito, i voti di chi si oppone all’arroganza del «presidente-sultano» Recep Tayyip Erdogan, ormai orientato verso derive dittatoriali.

I curdi moderati, per Erdogan «origine di tutti i mali»

In realtà l’affermazione dell’Hdp, che ha raggiunto quasi il 14 per cento dei voti ed è riuscito a entrare in Parlamento, ha impedito agli islamici moderati dell’Akp (il partito di Erdogan) di avere non soltanto la schiacciante maggioranza per trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, ma neppure la maggioranza assoluta dei seggi. Quindi, agli occhi dei mandarini del regime, il partito curdo Hdp è all’origine di tutti i mali, ed è probabile che il sanguinoso attentato alla stazione sia un segnale di intollerabile fastidio.

Le tensioni «importate» dall’esterno

È chiaro che quanto sta accadendo nel Paese sembra il deformato quadro di troppe incongruenze, violenze politiche, sopraffazioni, minacce, errori clamorosi avvenuti negli ultimi mesi. Anche perché le tensioni interne si stanno moltiplicando per quelle esterne: con il raffreddamento dei rapporti con la Russia, che difende il presidente siriano Bashar al Assad, mentre Ankara lo considera il suo peggior nemico; con l’irritazione della Nato, di cui la Turchia fa parte, perché Erdogan ha approfittato della partecipazione alla campagna bellica contro il terrorismo internazionale non tanto per colpire l’Isis (lo Stato islamico che inquieta e spaventa l’universo mondo), ma per bombardare i curdi; con il fastidio di Teheran ma soprattutto di Bagdad, in quanto il sultano teme appunto che si creino le condizioni per un irredentismo curdo che potrebbe coinvolgere quattro Paesi (oltre alla Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq), e marginalmente persino l’Armenia.

In aggiunta a tutto questo, Erdogan e i suoi hanno un pessimo rapporto (anzi un non rapporto) con Israele, gelida indifferenza con l’Egitto (Ankara sostiene i Fratelli musulmani, nemici del presidente-generale Al Sisi), e troppo calore per i ribelli jihadisti libici, che finora hanno impedito la creazione del consenso e la fine della devastante crisi di fronte alle coste italiane. La vicenda della nave turca, carica di «aiuti» destinati ai rivoltosi contrari alla pacificazione, colpita al largo delle coste orientali libiche, ne è un esempio lampante.

Il presidente turco, in sostanza, se da una parte non vanta buona salute (intervento chirurgico per un tumore all’intestino, tre anni fa), pare invece godere all’idea di essere solo contro tutti. Ha intensificato la campagna militare contro i turco-curdi del Pkk, sperando di ottenere voti per l’Akp, e in subordine il sostegno degli ultranazionalisti di destra, a cominciare dall’Mhp, erede dei «Lupi grigi» — sì, proprio quelli da cui proveniva Mehmet Alì Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II. Calcolo ardito, perché la diffidenza nei confronti del presidente turco, invece di attenuarsi, cresce un po’ dappertutto. Erdogan, convinto che tanti nemici vogliano dire tanto onore, ha scatenato una guerra ad alzo zero contro la stampa, le televisioni, i blogger, e ovviamente la complessa rete dei social media, quasi impossibile da imprigionare e silenziare totalmente. Ha scatenato i suoi magistrati contro lo storico giornale di sinistra Cumhuriyet, colpevole di aver postato, sul suo sito, un video (non smentibile) dove si vedono camion scortati da agenti dei servizi segreti turchi che vengono controllati alla frontiera con la Siria dai doganieri. Le bolle di accompagnamento documentavano coperte e medicinali per la popolazione afflitta dal conflitto civile. In realtà le guardie di confine, in fondo alle casse, hanno trovato armi e munizioni in gran quantità, dirette ai jihadisti, e forse anche ai terroristi dell’Isis. L’altro giorno è finito in prigione il direttore del quotidiano Zaman, legato al gruppo islamico moderato di Fetullah Gulen, il teologo sunnita che vive in esilio negli Stati Uniti. Gulen e Erdogan erano amicissimi. Ora il sultano odia il suo ex sodale, che non gli risparmia feroci critiche.

l Paese, sfibrato da scandali, con i media pesantemente condizionati o violentemente intimiditi, si avvia ad un voto che potrebbe persino cancellare quel poco che resta di quella che un tempo veniva definita orgogliosamente «stabilità». L’altro giorno c’è chi ha ventilato pesanti sospetti sul figlio prediletto di Erdogan, il 35enne Bilal, che è arrivato a Bologna per completare un master alla Johns Hopkins University. Il fatto che abbia portato con sé la famiglia ha diffuso la convinzione che intenda stabilirsi nel capoluogo emiliano. Ma i sospetti di ambienti giornalistici turchi, in pratica quelli che osano sfidare il sultano, sono ben altri. La voce di Bilal infatti compariva in alcune intercettazioni assieme alla voce del padre, il presidente della Repubblica, che suggeriva al figlio di nascondere (o far sparire) una forte quantità di denaro. Maldicenze? Accuse ingiustificate? Oppure siamo di fronte a un’orgia del potere, inaccettabile in una democrazia? Frequento la Turchia da quasi 35 anni e ho incontrato e intervistato più volte Recep Tayyip Erdogan. Uomo di indubbio carisma, ma spesso incapace di controllarsi. Una volta, dopo gli attentati dei terroristi islamici ad Istanbul, si irritò con me (durante l’intervista), sostenendo che avevo accostato Islam e terrorismo. «È un ossimoro! Ha capito?». Risposi: «Come devo chiamarlo, allora?». E lui: «Al massimo le concedo terrorismo religioso». Ringraziai per il consiglio, non riuscendo a trattenere il cenno di un malizioso sorriso.

Fonte: Corriere della Sera 11.10.2014
Segnalato da Tavola della Pace e della Cooperazione