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Quando finisce la pena?

Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio editore, Palermo 2015, pp. 215, euro 14,00

Questa non è ancora una recensione, ma solo qualche impressione seguita alla presentazione da parte di Camillo Losana e dell'Autore, avvenuta il 17 febbraio a Torino (Bardotto, via Mazzini 23). Un'altra presentazione si avrà al Circolo dei Lettori il 14 marzo, con Gustavo Zagrebelsky.

Fassone è stato magistrato e parlamentare. In questo libro di seria umanità riferisce sulla sua corrispondenza, durata 26 anni, con un ergastolano (“fine pena: mai”), condannato da lui stesso per gravi delitti di mafia, quando era presidente di corte d'assise.

Tra gli interventi seguiti alla presentazione, ho chiesto: la legge “penale”, anche nelle forme più civili e miti finora raggiunte e cercate (art. 27 Costituzione), non è forse ancora una legge della vendetta (sottratta al privato, gestita dallo stato), del male per male, una legge della sofferenza replicata? Ovviamente la società organizzata deve fermare la mano di chi è attualmente pericoloso, deve indurre il delinquente a prendere coscienza dell'offesa che ha compiuto, deve riguadagnarlo alla convivenza civile. Ma il sistema delle “pene”, cioè dei dolori – tanto male fatto, tanto male inflitto – è accettabile così, senza un intenso impegno culturale, legislativo, operativo, per superarlo? Il tema del superamento del carcere si sta ponendo, ma temo che nel grosso della società non sia sentito, e semmai avversato. Voglia di vendetta corre in vene infette della società: chiudere e buttare la chiave, se non peggio. Fassone ha accolto il problema, al quale è ben sensibile, del movimento verso una giustizia riparativa più che retributiva, per esempio impegnando il condannato in servizi di pubblica utilità: ciò sarebbe possibile per la metà dell'attuale popolazione carceraria, con evidente beneficio anche per chi rimane ristretto. Ma la legge non procede.

Oggi le chiese sono impegnate sul grande tema della misericordia. Segnalo il libro di Roberto Mancini, filosofo a Macerata, La nonviolenza della fede. Umanità del cristianesimo e misericordia di Dio (Queriniana 2015, pp. 198, euro 13,50). Mancini tratta profondamente il tema dal punto di vista di un umanesimo evangelico: per esempio indica come il mito dell'inferno non appartenga davvero al messaggio di Gesù (p. 169-172). Mostra come il fondamento altissimo è il Bene, un Bene che risana tutto il Male (p. 145). Le riflessioni evangeliche, filosofiche, morali, non dettano immediatamente soluzioni alla legge civile, ma orientano profondamente l'umanità ad umanizzarsi.  Così, si può ricordare la sconcertante parola di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov: siamo tutti in relazione, dunque ognuno di noi è colpevole per tutti, di tutto il male che si commette, perché il mistero della colpa è indecifrabile. Questo è ciò che Aleša impara dallo starec Zosima: solo prendendo la colpa su di sé e soffrendo per essa, solo allora si potrà giudicare. Solo quando un uomo avrà afferrato questa idea, allora potrà anche essere giudice.

L'ergastolano di Fassone tentò il suicidio e fu salvato. Allora scrisse che il suo “fine pena” poteva essere quel momento, quello del suicidio: “fine pena: ora”. Nel libro c'è un uomo che ha fatto soffrire, che soffre, che ridiventa uomo. E c'è un giudice che si è fatto umanamente carico di quella colpa, perciò può giudicare, senza tagliare ed anzi intensificando il rapporto umano col colpevole, che è la vera medicina sociale per curare la delinquenza.

Enrico Peyretti, 18 febbraio 2016