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Tra riforma costituzionale e referendum: appunti per il discernimento

Premessa

Fin dalla fondazione (1985), «Città dell'uomo» ha assunto in modo convinto e fermo l'impegno per una custodia attiva dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana, pur nella consapevolezza di una necessaria riforma di alcuni suoi istituti rivelatisi non più adeguati rispetto ai cambiamenti socio-culturali e alle nuove esigenze politico-istituzionali via via intervenuti.

Ciò premesso, non è affatto agevole esprimere, come Associazione, un giudizio sintetico sulla revisione costituzionale approvata dalle Camere, che verrà sottoposta a referendum confermativo nel prossimo ottobre. Anche l'acceso dibattito degli ultimi tempi finisce con l'attestare la difficoltà di una simile impresa. Da una parte, v'è chi sottolinea con insistenza che, dopo troppi tentativi andati a vuoto, la presente occasione di riforma vada colta senza indugio, se si vuole ammodernare la struttura istituzionale del Paese, rifuggendo dai «conservatorismi nostalgici» a difesa di una Costituzione ormai invecchiata in più punti. Dalla parte opposta, si segnala invece che la revisione in atto, condotta senza la necessaria solemnité dibattimentale rispetto all'oggetto e approvata dalla sola maggioranza governativa, rischia di modificare, con gli istituti, anche alcuni architravi del nostro sistema costituzionale, fra i quali le nozioni di pluralismo istituzionale e di autonomia regionale, i modi della rappresentanza, la funzione del Governo, gli equilibri dei ruoli di garanzia.

Tenuto conto delle obiettive difficoltà, ci accingiamo, comunque, a offrire il nostro contributo, con la speranza che possa essere utile alla comune riflessione e al personale discernimento.

1) Come si è giunti ad oggi

Il tema delle riforme istituzionali è da tempo al centro del dibattito politico e parlamentare. L'attuale revisione costituisce l'esito di un percorso le cui radici affondano nei primi anni '80, con le Commissioni Bozzi, poi De Mita-Iotti, quindi D'Alema-Berlusconi. Si è avuta, successivamente, l'affrettata riforma federalista del Titolo V (Legge cost. n. 3/2001). Ad essa hanno fatto seguito la richiesta di «premierato assoluto» e il progetto di separatismo leghista, voluti, rispettivamente, da Berlusconi e Bossi nel 2005. Da ultimo, vanno menzionate la Commissione dei cosiddetti «Saggi» introdotta da Napolitano (marzo 2013) e quella nominata da Letta (giugno 2013), che hanno concluso i loro lavori con la pubblicazione di ampi documenti. Il caotico processo è stato accompagnato, fra l'altro, dall'avvicendarsi di diversi sistemi elettorali, effettivi e "potenziali", di fantasiosa denominazione: «Mattarellum», «Porcellum», «Consultellum», «Italicum».

Da questa rapidissima cronistoria si può trarre una prima considerazione: ci troviamo davanti ad una questione - la revisione costituzionale, appunto - oltremodo complessa, di difficile trattazione nel lacerato clima politico degli ultimi due/tre decenni e, in ogni caso, densa di ricadute sull'assetto democratico-istituzionale del nostro Paese. Fra le forze politiche, gli esperti di diritto e nella stessa opinione pubblica, resta tuttavia acquisito il convincimento circa la necessità di alcune modifiche della seconda parte della Costituzione, in modo da fluidificare i processi decisionali, rendere più efficienti le istituzioni e garantire effettivamente agli Enti territoriali, quali soggetti giuridici, la rappresentanza dei propri interessi in Parlamento (esigenza - ricordiamo - presente anche ai deputati dell'Assemblea costituente, i quali, data la difficoltà di accordarsi sulla natura della rappresentatività della seconda Camera, adottarono una formulazione dell'art. 57 piuttosto aperta, confidando in futuri adattamenti).

Tale convincimento si è particolarmente rafforzato a partire dagli anni '90 per una serie di ragioni: a) la progressiva frammentazione del tessuto sociale del Paese, accompagnata dall'emergere di una cultura neo­liberista e di un'impostazione utilitaristica, difformi dalla visione personalistico-comunitaria che permea la nostra Carta e ne innerva i principi fondamentali; b) il processo d'integrazione europea, destinato a incidere in modo sempre più deciso sullo stesso impianto costituzionale; e) la crisi di legittimità e di consenso del tradizionale quadro politico, derivante dalla stagione costituente, con l'affermazione dei partiti personali e di leadership estranei alla logica propria della Costituzione; d) il passaggio da una forma di governo basata sulla centralità della rappresentanza partitica (e sulla mediazione tra i partiti) a una democrazia cosiddetta «governante», fondata sul primato dell'Esecutivo e del suo presidente.


Queste profonde trasformazioni rendono obiettivamente difficile rifiutare oggi, a priori, una prospettiva di revisione costituzionale. Ma la comprensibile esigenza di alcuni ritocchi alla seconda parte della Costituzione non giustifica affatto la diffusa retorica secondo cui una riforma sarebbe comunque preferibile al mantenimento dello status quo. Del resto, va anche detto che molte criticità odierne della politica e delle istituzioni sono da imputare non alla Carta del 1948, bensì ad un preoccupante calo di cultura civile e politico-istituzionale tanto nei partiti quanto in vasti settori dell'apparato statuale, delle autonomie locali, della pubblica amministrazione.

A questo punto, ci domandiamo: il testo oggetto del referendum di ottobre fornisce risposte adeguate alle nuove istanze istituzionali e socio-politiche nel pieno rispetto dello spirito democratico della Costituzione? Esso, in un'ottica (com'è quella propria di «Città dell'uomo») dei «valori da preservare» e degli «istituti da riformare», mantiene fede all'idea di una Carta costituzionale «amica», «compagna di strada» per ogni soggetto politico sia che si trovi, in un dato momento storico, in maggioranza o all'opposizione?

2) // metodo adottato

Prima di entrare nel merito dei quesiti posti, vale la pena considerare intanto il metodo seguito nell’iter di approvazione del testo di riforma.

La legge di revisione costituzionale è stata approvata nel rispetto del procedimento fissato dall'art. 138 della Costituzione: un dato da salutare positivamente. Criticabile, però, almeno sul piano politico, è il fatto che l'iniziativa legislativa sia stata presa dal Governo. Ne sono derivati, infatti, incoercibili elementi di personalizzazione, spinte di tipo "particolaristico" e forme non velate di "ricatto", che dalla sede parlamentare hanno finito con l'interferire anche sul pubblico dibattito relativo alla consultazione referendaria.

Per quanto concerne il referendum, occorre muovere subito un rilievo critico, accogliendo una puntuale osservazione già enunciata da Giuseppe Dossetti e ripresa nel 2006 da Leopoldo Elia, così sintetizzabile: in un processo di riforma costituzionale l'eventuale protagonismo assunto dal Governo fa sì che il «quesito implicito» (la fiducia all'Esecutivo) prevalga su quello «esplicito» (il merito della riforma). È quanto si sta verificando nel caso nostro, con il rischio, tutt'altro che secondario, d'interpretare l'appello referendario come una sorta di plebiscito nei confronti della compagine governativa e, più precisamente, del presidente del Consiglio dei Ministri. Del resto, proprio Renzi, nonostante il recente e condivisibile tentativo di smorzare un po' i toni, ha conferito questo significato alla consultazione di ottobre. Né si può dimenticare che la stretta maggioranza con cui si è approvata la revisione della Costituzione rappresenta il frutto di una "distorsione" prodotta dalla legge elettorale vigente nel 2013 (il cosiddetto «Porcellum»), che ha attribuito al Partito Democratico, vincitore, seppur di strettissima misura, delle elezioni del febbraio di quell'anno, un numero di seggi ben superiore rispetto al consenso ottenuto. Questa circostanza, ancorché spesso sottaciuta, getta un'ombra problematica sull'intera manovra. Nemmeno è pensabile che tale limite possa essere sanato dal referendum costituzionale, perché la maggioranza, senza quel premio eccessivamente elevato, non avrebbe potuto nemmeno concludere la fase parlamentare della revisione. Si tratta di un dato formale non facilmente superabile, dal momento che un vulnus all'esigenza di un'equa ripartizione quantitativa della rappresentanza del reale consenso acquisito in sede elettorale intacca la natura stessa della Costituzione.

3) I contenuti

L'eliminazione del bicameralismo perfetto o paritario è senz'altro una buona cosa, come lo è la fiducia al Governo affidata solo alla Camera dei deputati. Del resto, la trasformazione del Senato in luogo di rappresentanza delle Autonomie territoriali era da tempo tra i desideri e le speranze di larga parte degli esperti e dei politici.

Positivo è anche il fatto che non siano stati toccati gli articoli della Carta riguardanti la Magistratura e la Corte costituzionale, i poteri del presidente del Consiglio dei Ministri e del Governo. Per quanto concerne questi ultimi, è tuttavia prevista l'introduzione di un procedimento legislativo con votazione a «data certa» e ravvicinata sui ddl d'iniziativa governativa, che dovrebbe favorire una diminuzione delle decretazioni d'urgenza, di cui all'art. 77 della Costituzione.

Sono poi da salutare favorevolmente alcune delle nuove potestà del Senato, chiamato a: esercitare funzioni di raccordo fra Stato, Autonomie locali e Unione Europea; valutare le politiche pubbliche, ossia, verificare razionalità, efficacia, impatto dell'indirizzo politico e delle scelte degli organi governativi; vagliare la ricaduta delle politiche dell'UÈ sui tenitori nazionali; vigilare sulle principali nomine di competenza del


Governo (per esempio, capo di Stato maggiore delle Forze armate, presidente della Cassa depositi e prestiti, presidenza Rai).

Nel complesso, risulta pure accettabile l'abolizione del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL), che non ha dato gran prova di sé. Il discorso, almeno in parte, può valere anche per le Province, al cui posto, ma con ben diversa rilevanza istituzionale, subentrerebbe un «ente di area vasta» (sulla falsariga delle unioni o delle forme di aggregazione consortile fra i Comuni). Si osserva, ad ogni modo, che l'eliminazione (o la radicale trasformazione di tali organismi) non può non indurre a interrogarsi intorno agli effetti concreti in merito alla mediazione sociale e territoriale.

Giudizio nell'insieme favorevole va espresso, inoltre, a proposito delle più ampie maggioranze richieste per l'elezione del presidente della Repubblica e dei nuovi quorum referendari, nonché del vaglio preventivo delle leggi elettorali da parte della Corte costituzionale. Non bisogna, per altro, sottacere il pericolo insito nel combinato disposto fra la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale, a vocazione maggioritaria, per la Camera dei deputati (il cosiddetto «Italicum»). Il sistema si articola, infatti, in due turni, dei quali il primo è sempre necessario, mentre l'altro (il ballottaggio) ricorre solo nell'ipotesi in cui, alla prima tornata, nessuna lista (cioè, nessun partito) ottenga una percentuale di voti pari o superiore, su scala nazionale, al 40% del totale.

Qualora al primo turno un partito abbia raggiunto un numero di voti coincidente o superiore a tale soglia, si vedrà attribuire, per effetto del cospicuo premio di maggioranza previsto, un numero di seggi pari al 54% del totale. Al contrario, ove al primo turno nessuna lista pervenga al 40%, accederanno al ballottaggio le due più votate: l'esito della seconda tornata decreterà il vincitore finale, al quale, in ogni caso, sempre in applicazione del premio di maggioranza, sarà attribuito il 54% dei seggi della Camera dei deputati. È, dunque, possibile che un partito, pur avendo conseguito al primo turno un numero non particolarmente elevato di voti, in caso di vittoria al ballottaggio ottenga una netta maggioranza (54%, appunto) di seggi. In questo modo, vi è anche il rischio che tale partito, con una così forte maggioranza alla Camera dei deputati, "governi", di fatto, la stessa elezione degli organi di garanzia costituzionale (in primis, quella del Capo dello Stato), chiamati a tutelare soprattutto le minoranze.

Sulla composizione del Senato, che prevede 74 senatori-consiglieri regionali, 21 senatori-sindaci e 5 senatori settennali per alti meriti, si possono avanzare robuste critiche, essendo essa frutto di diversi compromessi al ribasso. Così configurata, la Camera alta assume un tono pressoché "dopolavoristico", non mitigato in maniera convincente dall'asserito - invero, futuribile e modesto - alleggerimento dei costi della politica. Il tutto fa temere una sua possibile subalternità rispetto alla Camera dei deputati, sancita da una sorta di cooptazione "minimalistica" del personale politico, che finirebbe con l'essere inevitabilmente "gregario". Tale debolezza di fondo potrebbe ripercuotersi sulla reale efficacia del nuovo Senato. È certo, d'altra parte, che, sia rispetto al procedimento di nomina (pertinente alle Regioni) dei senatori/consiglieri regionali e dei senatori/sindaci sia per il funzionamento e l'organizzazione interna dello stesso Senato, molto dipenderà, in termini di funzionalità ed efficacia, dalla disciplina affidata, rispettivamente, alla legge elettorale per la designazione dei senatori e, soprattutto, al regolamento della seconda Camera.

Quantunque in linea, per molti aspetti, con l'interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, non sembra condivisibile nemmeno l'impianto complessivo dato alla riforma del Titolo V in materia di competenze legislative delle Regioni, sebbene siano concrete le istanze cui si cerca di rispondere (eccessiva conflittualità nell'odierno rapporto tra Stato ed Enti regionali sulle rispettive competenze, rilevante crescita della spesa pubblica e dei fenomeni di corruzione a livello locale). Simili risposte, infatti, non risultano del tutto appropriate. Basti dire che la riduzione delle attribuzioni regionali e l'introduzione della clausola di supremazia, cioè la prevalenza formale della legge dello Stato su quella delle Regioni, legata alla presenza di un troppo vago «interesse nazionale», rappresentano un passo indietro in termini di valore dell'autonomia. È discutibile, infine, che non sia stato fatto nulla per conferire un nuovo assetto alle Regioni a statuto speciale, le quali mantengono privilegi oggi non più giustificati.

4) Valutazioni conclusive

Al di là di più dettagliate considerazioni giuridiche riguardanti il merito della legge di revisione, che lasciamo ad altra sede, un giudizio complessivo sulla riforma non può non tener conto anche della scarsa qualità del testo con cui è formulata, farcito di diversi errori di grammatica e di sintassi costituzionale. Si tratta di limiti dovuti sia alle troppe compromissioni resesi necessarie nel corso dell’iter parlamentare per ottenere i dovuti consensi intorno all'elaborato in fieri sia alla già denunciata mancanza di solemnité, che una così cospicua impresa riformistico-costituzionale avrebbe richiesto e a una cultura del «fare purchessia», incarnata dal Governo in carica.


Lo stesso discorso secondo cui la riforma potrebbe essere perfezionata in futuro dichiara, da subito, che l'impostazione riformatrice avrebbe potuto e dovuto essere sviluppata meglio, evitando così il pericolo di sminuire il ruolo di legame duraturo e intergenerazionale proprio della Carta costituzionale. È, quest'ultimo, un punto decisivo per una valutazione sintetica del testo.

A tale proposito, non ci si può esimere dal sottolineare che una riforma così corposa, votata solo dalla maggioranza governativa, rischia di pregiudicare il senso della Costituzione come insieme di regole condivise, contravvenendo alle quali, potrebbe ingenerarsi una pericolosa spirale di "ritorsioni", con grave nocumento per la stessa stabilità costituzionale. Questa pregiudiziale di metodo non va accantonata con generici (e, verosimilmente, non ingenui) riferimenti all'eccezionalità del momento.

Come sappiamo, in sede di consultazione referendaria il giudizio "politico" e di merito del testo di riforma si esprime con una pronuncia secca: Sì - No, bisognoso, in ogni caso, di ponderazione adeguatamente informata e sottratta a impulsi emotivi. Sappiamo altresì che nell'eventualità di una bocciatura del testo in oggetto la tenuta della compagine governativa e la posizione dello stesso presidente del Consiglio andrebbero, con ogni probabilità, in frantumi.

La nostra Associazione ha piena consapevolezza della gravita della posta in gioco, considerata anche in rapporto alla difficile situazione socio-economica del Paese e ai tutt'altro che rassicuranti scenari internazionali. Ma, tutto questo non può essere agitato come una sorta di "ricatto" per almeno due buoni ragioni: intanto, non è detto che, anche nell'eventualità di una disapprovazione popolare della riforma, non possano prevalere rapide soluzioni in grado di garantire, seppur con inevitabili cambiamenti, una linea di continuità dell'Esecutivo sino alla naturale scadenza della legislatura; secondariamente, ci preme sottolineare che, nel rispetto dello Statuto e della tradizione trentennale maturata da «Città dell'uomo», la giusta preoccupazione riguardo al destino di un Governo, per quanto importante possa essere, non va anteposta al bene più grande della tutela dei princìpi/valori e degli equilibri democratici garantiti dalla Carta costituzionale.

In questa prospettiva si colloca il presente documento, steso con animo libero e responsabile. Ci auguriamo che lo sforzo compiuto per evidenziare luci e ombre della complessa riforma costituzionale 2016 possa positivamente concorrere al dibattito in corso ed essere di aiuto al doveroso discernimento personale in vista della consultazione referendaria.

Milano, 2 giugno 2016

70° anniversario della Repubblica

«Città dell'uomo». Associazione fondata da Giuseppe Lazzari