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Ogni volta che si dice “se l’è andata a cercare”, la storia di noi tutte e tutti fa un passo indietro

Ogni volta che una violenza sulle donne viene accompagnata dal commento “se l’è andata a cercare” veniamo colte da un improvviso gelo dentro. Chi mai può “cercare” violenza sul proprio corpo? Sollecitarla, chiederla? Come si può ancora pensare di accusare una donna o una ragazzina che è stata oggetto di violenza? Che società siamo, ancora, se vi è tra noi chi presta il fianco e giustifica il violentatore, perché di “buona famiglia”, perché è stato provocato dall’abbigliamento di lei, dalle sue movenze, dalla sua troppa libertà (…aveva bevuto; tornava a casa da sola, di notte, per una via poco frequentata, ballava in un certo modo…).

“Se l’è andata a cercare”, nel senso che, diciamolo, ha meritato che avvenisse, perché lei per prima lo voleva. Lei, donna tentatrice di violenza sul proprio corpo, che provoca sapendo di provocare per un’unica e sola ragione di fondo: è femmina.

Ed è per questo che la violenza sul suo corpo, sul nostro corpo, non conosce confine geografico, avviene a ogni latitudine. E poco importa se sia davvero lei, se siamo davvero noi, a provocare, mentre torniamo a casa da sole per le strade di Milano o dal prendere l’acqua in un villaggio sperduto in chissà quale paese africano. Il suo/nostro corpo è di per sé provocazione.

E non conosce limiti di età che lo proteggano da questo e non conosce relazione sentimentale che lo salvaguardi dalla violenza, perché spesso è proprio il suo essere poco più che bambino e intatto a renderlo provocante, perché spesso è proprio l’alcova intima del sentimento a diventare luogo violento. Da cui magari un giorno tenti di scappare e allora… e allora “te la sei andata a cercare”.

Tu, io, noi, donne tutte, da tempo infinito, sappiamo che “il problema siamo noi”.

Da ancor prima che lo stupro passasse dall’essere reato contro la morale a reato contro la persona (nel 1996, sì avete letto bene solo vent’anni fa…), da quando abbiamo ascoltato le arringhe della avvocata Tina Lagostena Bassi, che rivendicava il nostro diritto a essere sentite nei processi di stupro (correva l’anno 1979, quando la Rai trasmise Processo per stupro, con 9milioni di telespettatori).

Ogni volta che la donna viene trasformata in imputata, ogni volta che si trova a doversi difendere, a dover dimostrare di non essere lei “una poco di buono”, ogni volta che si cerca di ribaltare quel che accade, di attribuire o sottrarre morale, ogni volta che si dice “se l’è andata a cercare”, la storia di noi tutte e tutti fa un passo indietro.

E quando la storia dei diritti delle donne fa un passo indietro, indietreggia la società intera.

Fonte: ComboniFem - Newsletter Suore Comboniane del 15/09/2016