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Ravensbrük - Il campo di concentramento nazista femminile: presentazione del libro di Maria Massariello Arata " Il Ponte dei Corvi - Diario di una deportata di Ravensbrük"

Il 26 gennaio 2018, a Palazzo Ducale in Massa, nell’ambito degli eventi programmati per il Giorno della Memoria, l’ANPI di Massa e l’Istituto della Resistenza Apuana (ISRA), in collaborazione con Comune e la Provincia, hanno organizzato la presentazione del volume di Maria Massariello Arata, Il Ponte dei Corvi - Diario di una deportata di Ravensbrük, Mursia, Milano, cui è dovuta anche la prima edizione nel 1979. Era presente Lucia Massariello Perelli figlia dell’autrice, ormai scomparsa da anni.

Maria era nata a Massa nel 1912 e vi visse la sua infanzia. Suo padre, Emilio Arata, nacque a La Spezia il 7 luglio 1883 e nel 1911 si trasferì a Massa, avendo vinto il concorso per Ragioniere in Provincia. Era socialista e in città ricoprì cariche politiche nel partito ed amministrative, nel luglio 1914 fu eletto Consigliere Comunale, nel 1915 fu assessore alle Finanze.

Con l’avvento del fascismo Arata fino al 1926 fu controllato dalle autorità di PS e preso di mira dallo squadrismo, tanto che il questore espresse il timore di non poter garantire la sua sicurezza.

Lucia Massariello, nipote di Emilio, alla presentazione ha ricordato la delibera della Deputazione Provinciale di MS, del 7 dicembre 1926, nella quale si annotava che il Ragioniere Capo Emilio Arata, che aveva assunto anche il ruolo interinale di Segretario Capo, per i suoi precedenti politici non poteva “dare affidamento di saper uniformare la sua attività di pubblico funzionario alle direttive del governo nazionale” e che, pur dimostrando zelo nel lavoro, di fronte al movimento fascista aveva assunto un atteggiamento passivo, mentre “avrebbe dovuto incondizionatamente associarsi al movimento valorizzatore delle energie nazionali al fine supremo della ognor crescente grandezza della patria”.

Così fu collocato a riposo nel febbraio 1927, e costretto ad abbandonare il suo lavoro e Massa. Si trasferì a Milano nel maggio, dove poi lo seguì la moglie Teresa Baratelli e 5 figli tutti nati a Massa dei quali Maria era la più anziana (1912). Le condizioni economiche furono molto difficili (perché di fatto senza lavoro) ma lui le affrontò sempre con dignità.

Lo studioso Giancarlo Bertuccelli ha rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Massa documenti che attestano come ancora nel 1936 fosse sorvegliato, e sottoposto alla revisione della corrispondenza, nella quale furono trovati numeri del “Nuovo Avanti” e volantini sovversivi. Nel 1938 la Questura annotava che l’Arata era venuto a Massa, segno che il suo legame con la città e i compagni di fede non era cessato.

La sua è un’altra storia esemplare a dimostrazione di cosa significò essere antifascisti.

La figlia Maria a Milano si laureò, a 21 anni, e divenne Assistente universitaria di Botanica e poi insegnò Scienze Naturali al Liceo Classico Carducci. Come il padre anche lei fu attiva militante antifascista, tanto che nel luglio 1944 fu arrestata, e finì a San Vittore, poi a nel campo di Bolzano e da lì deportata in Germania, dove visse la tragica esperienza dei lager nazisti. Lei finì nel Campo di concentramento di Ravensbrük, 80 km a nord-est di Berlino, tristemente famoso perché destinato solo alle donne. Ve ne passarono 130 mila delle quali 90 mila non si salvarono, e vi erano prigioniere politiche, delinquenti comuni, asociali, ebree, etc., e di tutte le nazionalità, tanto che fu definito come l’esempio dell’universo concentrazionario nazista “declinato al femminile”. Comprendeva anche un forno crematorio dove le prigioniere venivano eliminate. Grazie anche al lavoro di Giovanna Massariello, un’altra figlia dell’autrice, si è ricostruito che circa mille italiane finirono a Ravensbrük, dove oggi sono ricordate nel museo che vi è stato realizzato e che ospita anche un pannello dedicato specificatamente a Maria Arata. Il suo libro è stato anche tradotto e pubblicato in Germania.

Il libro “Il ponte dei Corvi” (traduzione della parola tedesca) narra l’odissea disperata di Maria che durò sette mesi fino alla liberazione da parte dei russi, che avvenne il 1 maggio 1945, ma che ebbe poi anche l’appendice della fuga e del pericoloso rientro in Italia, che si concluse solo ai primi di agosto di quell’anno. Nel 1946 Maria si sposò nel con Augusto Massariello, anche lui insegnate al Carducci e antifascista.

Il racconto è allucinante e ben chiarisce gli estremi della tragedia dei campi di concentramento attraverso ricordi dettagliati e molto crudi che danno forza tremenda agli elementi della tragedia ormai conosciuti e diffusi attraverso fotografie e video documentari, nonché anche attraverso numerose ricostruzioni filmiche di grande impatto emotivo dedicate ai campi di concentramento nazisti ed alla shoah.

Di tali ricordi ne citerò alcuni che mi hanno compito in modo particolare.

Il primo è l’odore nauseante di carne umana bruciata che scaturiva dal camino del forno crematorio e che permeava tutto il campo. Maria usciva fuori dal campo per lavoro, oppure quando veniva temporaneamente trasferita altrove, ed il non sentirlo era una liberazione, il risentirlo nel riavvicinarsi anche solo nelle sue prossimità significava rientrare nell’inferno.

Poi non certo in un qualche ordine di importanza: l’umiliante ispezione vaginale che subì all’arrivo; il triangolo rosso identificativo della sua qualità di prigioniera politica, che si scuci e ricucì in diversi abiti, per poi definitivamente toglierselo di dosso per portarlo a casa come ricordo; il vagone con 40 prigioniere assiepate ed il bidone dei rifiuti nell’angolo. Ed ancora: la crudeltà del lungo appello al gelo al rientro da 8-10 ore di lavoro all’esterno; le latrine fatte di tronchi sui quali in malsano equilibrio le detenute si appollaiavano in fila come piccioni; la diarrea che la perseguì inesorabile, lei e le altre, per 7 mesi; la fame assoluta affrontata con una insufficiente e schifosa brodaglia; i pidocchi invincibili che dilaniarono il loro corpo; il freddo assoluto fuori e dentro le baracche, prive di anche solo una piccola stufa, dal quale si sollevavano solo un poco perché erano costrette a dormire in due per ogni un letto, oppure accostandosi alle sporche e puzzolenti cisterne dei gabinetti dalle quali esalava comunque un po’ di calore. L’indimenticabile grido, vera e propria locuzione liberatoria, Krieg Fertig = guerra finita, che udì con l’arrivo dell’Armata Rossa. Al quale seguì poi la paura di finire in Russia, magari deportata di nuovo da chi l’aveva liberata. L’assurdo di alcune compagne che da liberate morirono perché mangiarono forse troppo ed il fisico ne fu scosso, cosa che avvenne per numerosi altri prigionieri dei lager. Infine il dramma che non terminò subito perché le fu necessario progettare una fuga e ritornarsene in Italia con solo due amici, con grandi pericoli.

Questi sono inequevocabilmente i fatti, ma dal libro non emergono solo essi, che già sarebbero sufficienti a rendere consapevoli del quadro narrato. Emerge anche in effetti, ed è la cosa che più cattura, una straordinaria capacità di analisi che dimostra una riflessione profonda sull’universo della prigionia di sterminio, sui suoi metodi, sulla sua progettualità psicologica tesa all’annientamento delle persone.

Maria, infatti, riflette come la conduzione del campo da parte degli aguzzini sia progettata per rendere le prigioniere sepolte vive, annullando la possibilità della consolazione della transitorietà del tempo, che è il meccanismo con il quale la persona poteva riuscire a superare la disperazione, pensando appunto che tutto quello che subivano sarebbe stato prima e poi superato. Invece il dopo non era ammesso, la sua possibilità esclusa ed annientata.

Poi scopre che le identiche condizioni di vita non portano ad un livellamento di comportamento, cioè ad una uguaglianza degli esseri umani, come spesso si teorizza, a sviluppare in tutte un atteggiamento improntato per esempio alla bontà. Perché annota che tra le sue compagne esistono sì le violentate nell’animo e nel fisico, ma anche quelle che diventano loro stesse violente. Riflettendo che il traguardo dell’uguaglianza può forse essere raggiunto solo con l’educazione e la cultura.

Rileva poi come il sistema sia governato da veri e propri strumenti psicologici, che riconosce come definiti, quali il mescolare prigioniere di diversa qualità: politiche, asociali, delinquenti, etc., o la spoliazione di tutti gli oggetti personali, che furono immediatamente requisiti all’arrivo nel campo, tutte le detenute sono accomunate unicamente dall’indifferenziazione. Si pone alfine anche la fatidica e universale domanda del perché tanta crudeltà, confessando di non essere riuscita mai a darne una qualsiasi possibile spiegazione.

Impregnata di fede, con tristezza riflette anche sul dolore e sulla sua valenza purificatrice che come afferma il cristianesimo dovrebbe nobilitare l’uomo. Ma di fronte a quanto ha vissuto afferma, con cognizione di causa, che ciò può avvenire se il dolore è contenuto in dei limiti, che non sono certo quelli dei lager, dove l’eccesso di dolore invece rende cattivi, cioè abbruttisce, e lei vede donne che non conoscono più la pietà verso le loro compagne di martirio.

Si può dire quindi che per merito dell’autrice dal libro si traggono insegnamenti profondi che costituiscono davvero strumenti per capire la negatività del male che si produsse allora e che purtroppo può sempre dunque ripetersi.

Si può definire un lascito davvero esemplare la considerazione sulla mancanza di libertà, che conduce all’annientamento della persona, progettata nei lager fino alla eliminazione fisica.

Maria insegna infatti che anche in tremende situazioni come quelle che lei ha vissuto, nelle quali alla persona niente, assolutamente niente è consentito, nessuno potrà mai però riuscire a impedire di: a) pensare; b) contemplare la natura (e lei botanica mai smise di guardare con gioia i paesaggi, le piante, i fiori); e c) pregare.

Anche in quell’inferno un barlume di luce, forse anche di speranza, fu quindi comunque possibile.

Un libro da leggere!