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Articolo 11, ripudiamo o non ripudiamo?

L'Italia ripudia la guerra (art. 11).

Termine fortissimo, scelto dai costituenti, per dire che non si riconosce più come proprio qualcosa che fino a quel momento era pur nostro. Ripudiare significa respingere una persona che abbia avuto con noi un legame sociale o affettivo, non volendo più accettare come giuridicamente o sentimentalmente valido tale legame. Dunque è una rottura definitiva con la guerra. Buttata fuori di casa, cacciata dalla famiglia italiana con ignominia e vergogna.

Da poco era caduta la dittatura fascista con il regime nazista, e da poco erano terminati gli orrori della seconda guerra mondiale, il popolo era stanco di sangue e forte si levava il grido "mai più Auschwitz".

Ma la costituzione va oltre, ed utilizza un altro termine forte e unico per definire la necessità di difesa: "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino" (art. 52). Parola che evoca dogmi di fede. Se ti attaccano difenderti è legittimo, ma la Costituzione non ci dice come dobbiamo difenderci. Dice solo che il cittadino deve difendere la comunità, e lascia aperta la questione dei metodi: con le armi o con la nonviolenza? Questa è una scelta politica che spetta al popolo.

Per noi nonviolenti resta la contraddizione, irrisolta, di ripudiare la guerra per principio, ma di mantenere le strutture belliche che la guerra rendono possibile: l'esercito e le armi.

Per uscire dall'apparente contraddizione fra chi è sempre, e comunque, contro la guerra e chi è favorevole, a volte, ad azioni di forza, bisogna saper vedere la differenza che c'è tra la guerra e un intervento armato; tra un esercito e una polizia internazionale.

I nonviolenti sono sempre stati favorevoli alla legge e alla polizia, due istituzioni che servono a garantire i deboli dai soprusi dei violenti. È per questo che da anni sono impegnati, a partire dalle iniziative europee di Alexander Langer, sia sul fronte del Diritto e dei Tribunali Internazionali, sia per l'istituzione di Corpi Civili di Pace.

Da sempre i nonviolenti chiedono la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione di una polizia internazionale che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l'aggressore e ristabilire il diritto.

Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, i nonviolenti sono contro la preparazione della guerra (qualsiasi guerra: di attacco, di difesa, umanitaria, chirurgica o preventiva), contro il commercio delle armi, contro gli eserciti nazionali, contro i bilanci militari e lo facciamo anche con le varie forme di obiezione di coscienza.

La proposta politica dei nonviolenti non è l'utopia del disarmo mondiale, bensì il realismo del disarmo unilaterale. Vogliamo uno stato che rinunci al proprio esercito militare, e si impegni a fornire mezzi, soldi e personale per la polizia internazionale sotto egida delle Nazioni Unite.

Dire no alla guerra quando questa è scoppiata, non serve a nulla; bisogna lavorare prima per prevenire il conflitto armato. Innanzitutto abolendo gli eserciti e dotandosi invece degli strumenti efficaci per fermare chi la guerra la vuole fare comunque. Questa strategia nonviolenta si chiama disarmo unilaterale. La storia, anche recente, ha dimostrato che gesti concreti di disarmo unilaterale ottengono risultati decisivi.

Di fronte all'installazione nei paesi della Nato dei missili nucleari Cruise, la risposta di Gorbaciov fu il ritiro dei missili nucleari SS 20 dai paesi del Patto di Varsavia. Fu un gesto clamoroso, che diede l'avvio al processo di distensione e contribuì al declino (senza spargimento di sangue) di tanti regimi dittatoriali e al crollo del Muro di Berlino.

La facile obiezione al disarmo unilaterale è che si rimarrebbe senza difesa. Ci accusano di esporci, in questo modo, ai capricci dei tanti dittatori che potrebbero colpire indisturbati i nostri "interessi vitali" nel mondo (leggi, fonti di energia).

Sappiamo ben vedere la differenza fra una democrazia e un totalitarismo. E non abbiamo dubbi da quale parte schierarci. Per quanto imperfetta e calpestata, la democrazia in cui viviamo è un dono prezioso, mentre un regime dittatoriale è una tragedia storica.

Ma la guerra non ha aggettivi, non è nè democratica, nè dittatoriale. È guerra e basta. I bombardamenti di Assad non sono diversi da quelli di Obama. Sappiamo che non si può sconfiggere il terrorismo (quello dei gas chimici) con altro terrorismo (quello dei bombardamenti aerei). Ha detto bene Papa Francesco: "guerra chiama guerra".

Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento, era un "oppositore integrale alla guerra" ma non si è mai posto l'obiettivo velleitario di fermare una guerra in corso (nemmeno quelle scellerate volute dal fascismo), ben sapendo che le radici delle guerre sono forti e profonde e possono essere debellate solo con un ampio movimento di resistenza e non collaborazione nonviolenta. Alla costruzione di un Movimento Nonviolento, Capitini ha dedicato gli ultimi anni intensi della sua vita, proprio per avere a disposizione uno strumento di "opposizione integrale alla guerra".

L'errore madornale in cui spesso cade il movimento per la pace, è quello di chiedere ad altri (all'Onu, all'Europa, ai governi - cioè ai responsabili primi) di fermare la guerra, di ritirare le truppe. È una dichiarazione di impotenza.

Il compito del movimento pacifista, invece, dovrebbe essere quello di mettere in atto campagne di reale dissociazione dalla guerra (obiezione alle spese militari, obiezione di coscienza, boicottaggi, ecc.) e nel contempo avviare le alternative ai conflitti armati.

Partiti, movimenti, sindacati, intellettuali, chiesa cattolica, cittadini comuni: di tutti è la quotidiana affermazione del proprio aborrimento della guerra e delle propria determinazione ad opporvisi.

Ma di fatto, in una contraddizione flagrante, viene mantenuto ed ingrassato il suo essenziale strumento portante, l'esercito, alla cui sempre maggiore efficienza distruttiva siamo proni a destinare ogni possibile risorsa (come i cacciabombarideri a capacità nucleare F35). Dal che la guerra, come sempre è stato, continua e continuerà ad essere.

Se vogliamo davvero evitare la prossima guerra dobbiamo da oggi combattere il militarismo in casa nostra, tagliare le spese militari, non pagare per le missioni belliche all'estero, fare obiezione di coscienza ad ogni manifestazione militare, contestare l'esercito.

Il lavoro della nonviolenza è soprattutto preventivo.

 

Fonte: Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo