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La lezione pedagogica di Franco Fornari (Novara Daniele)

Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza in cammino", n. 168 del 1 agosto 2007, tratto dal sito del "Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti" riprendiamo questa relazione di Daniele Novara su "La lezione pedagogica di Franco Fornari. L'educazione al vivere senza il bisogno della violenza", in Conflitti, affetti, cultura: Franco Fornari, Atti del convegno svoltosi a Milano dal 20 al 22 maggio 2005, editi dal Centro milanese di psicoanalisi "Franco Fornari", Milano 2007. Segnaliamo che alcune scelte linguistiche e alcune proposte interpretative di questo saggio possono dar luogo a degli equivoci, lettrici e lettori sapranno contestualizzare e decodificare - leggere è un'attività cooperativa.



1. Volersi bene a tutti i costi o imparare i conflitti?


Perché il Centro psicopedagogico per la pace considera Franco Fornari un maestro? Negli ultimi tempi ci siamo orientati su una metafora educativa che include il conflitto nell'area delle esperienze di crescita, mentre nella pedagogia tradizionale il conflitto è incluso nelle esperienze da evitare, come nel caso dei litigi fra i bambini dove la maestra è sempre preoccupata, anche in funzione dei genitori, di impedire che i bambini bisticcino. Non si capisce ad esempio perché i bambini di un anno e mezzo messi assieme non debbano morsicarsi, mi sembra una pretesa francamente contro natura. In questa logica dell'evitare ad ogni costo ci sta anche denunciare i nidi dove ci sono i morsicatori. Qualche genitore lo ha realmente fatto.
Nell'opera di Franco Fornari, vorrei evidenziare un concetto centrale e cioè quello di guerra come amore alienato, espresso molto bene in uno dei suoi ultimi libri, Carmen Adorata, che racconta proprio attraverso la metafora dell'opera lirica Carmen, l'amore alienato, cioè la distruttività in nome dell'amore (1). È questo sostanzialmente il tema dell'analisi della violenza da parte di Fornari.
Lo chiarisce molto bene ne La malattia dell'Europa: "una vera epopea pacifista non può fondare il suo potere su un supplemento di bontà dell'uomo, per cui l'uomo si sente buono anche quando fa la guerra sacrificandosi per il suo paese" (2). Si tratta di un Fornari profetico come al solito. Basti pensare a cosa direbbe oggi dei kamikaze. Questi non solo fanno la guerra, ma si immolano. È un problema abbastanza serio dal punto di vista esplicativo: dove si collocano i kamikaze? Non è semplicissimo, c'è un senso di ansia e di paura reale. Proviamo a metterci nei panni degli spagnoli che sono stati così umiliati dai guerrafondai, per vedere un attimo come ci si sente all'idea di essere su un treno e a un certo punto non esserci più perché qualcuno ha deciso di immolarsi tirandovi dentro al suo delirio. Non è semplice. Io mi metto nei loro panni e dico che hanno fatto benissimo a ritirarsi. Un bellissimo slogan fornariano è "Not in my name", proprio perché se è vero che la guerra è un delitto individuale è anche legittimo il suo contrario.
Questo vale anche per la mafia. C'è un bellissimo libro di una psicanalista junghiana cha ha utilizzato Fornari per analizzare la mafia (3), molto interessante perché analizza come l'appartenenza mafiosa legittima l'omicidio in nome della famiglia o di Cosa nostra, nomi legati ad un'affettività di carattere simbiotico, regressivo e totalizzante. Questo meccanismo dell'appartenenza omicida lo si riscontra in tanti fenomeni sociali, politici e in tante guerre.
Fornari con la sua analisi precisa e meticolosa, ci ha dato una chiave di lettura, che ci apre questa finestra sull'inconscio come depositario di proiezioni assassine e omicide per evitare di incontrarsi con la propria aggressività e con la propria distruttività e poterla così esportare esternamente in modo da creare una sorta di bonifica interna che è a totale carico distruttivo e luttuoso degli altri.
Occorre ovviamente venir fuori da questo delirio distruttivo. Fornari dà anche una sua ricetta ed è esattamente quella che abbiamo cercato di seguire. È contenuta nell'introduzione al libro di un grande psicanalista tedesco: L'Idea di pace e l'aggressività umana (4); Fornari dice: "La pace porta alla reimportazione del conflitto", cioè il conflitto va reimpostato internamente, questa è la pace.
La pace è conseguenza del conflitto, non dell'assenza dei conflitti, l'assenza dei conflitti è pericolosa. Chiunque abbia lavorato nelle grandi guerre civili dei nostri tempi si accorge che la guerra civile nasce proprio dalla volontà sistematica di eliminare il conflitto, come tensione reciproca, come scontro, come divergenza, come difficoltà ad assumere l'altro come limite alle proprie compulsioni e alle proprie proiezioni.
Da questo punto di vista un altro merito dell'analisi di Fornari è di averci rivelato i vantaggi psichici della guerra, ossia l'elemento di semplificazione. In fondo la guerra e la violenza cosa ci dicono a livello relazionale? Ci dicono che non bisogna fare fatica, che l'importante è eliminare chi ci porta il conflitto. La guerra è questo. Basta con la fatica! Eliminiamo chi ci mette alla prova e ci crea stress e quindi troviamo una pace che è un vero proprio appiattimento relazionale.
Si tratta allora di capire di quale pace stiamo parlando. È molto angosciante questo volersi bene a tutti i costi, perché annulla il confronto necessario che implica il conflitto e quindi implica una crescita e un'evoluzione.
Come Centro psicopedagogico pr la pace abbiamo cercato di strutturare una differenza molto secca tra conflitto e guerra, tra conflitto e violenza: il conflitto da rubricare nell'area delle relazioni e la guerra e la violenza nell'area delle distruzioni, il contrario di quello che si fa adesso, il conflitto viene visto come una perturbazione, una rottura, una fatica.

2. Il pericolo delle culture educative a-conflittuali e simbiotiche


Nel mondo sono proprio le culture educative a-conflittuali e rigide che sono alla base delle guerre.
Sono educazioni che tendono ad eliminare il valore della differenza e del conflitto ed il conflitto è il vero bonificatore delle proiezioni persecutorie. È l'accettazione del conflitto e lo stare nel conflitto che permette di evitare di spostare in maniera paranoica sull'altro o sugli altri quelle che sono in realtà le proprie pulsioni interne. Il caso del Kossovo è incredibilmente paradigmatico. In Kossovo vi sono i villaggi serbi, con dentro 30 serbi, blindati da 80 militari perché se non vengono blindati li ammazzano. Quindi si evince che non c'è stato nessun processo rielaborativo e quindi come sempre succede in questi casi le vittime diventano aguzzini, diventano a loro volta dei persecutori, non c'è un passaggio trasformativo, un passaggio che per esempio è stato fatto in Sud Africa, dove si è realizzato un processo rielaborativo.
È questo il problema: assumere il conflitto. Tutto questo rischia di essere accentuato da una vocazione non tanto verso la democrazia degli affetti, cioè dell'integrazione dei codici affettivi, quanto verso un forte squilibrio dove le ragioni dell'appartenenza simbiotica si stanno accentuando, sia da un punto di vista socio-politico in un delirio etnico che non trova mai fine, sia in una logica educativa, anche di rapporto educativo primario, che non prevede la separazione e tende a non prevederla, tende a porre il bambino e la bambina in una condizione per cui non ci sia un termine a questa sorta di fusionalità assoluta. Il genitore sembra promettere a suo figlio e sua figlia una simbiosi eterna, senza rendersi conto che in questo modo si crea una situazione in cui il codice materno diventa assolutamente tirannico.
Oggi in Italia il fenomeno educativo più rivelatore è quello di una forte maternalizzazione della figura paterna a cui però non corrisponde una genesi di codice paterno almeno dal punto di vista familiare, quindi tutti fanno a gara nel complimentarsi coi nuovi padri che cambiano i pannolini e quant'altro, però non c'è altrettanta attenzione a riconoscere nel contesto della crescita educativa il bisogno dei figlioli e delle figliole di avere la possibilità di un imprinting regolativo, normativo, responsabilizzante ed esplorativo che consenta loro di assumere il conflitto con i genitori come strumento di crescita.
Dai genitori in genere ci si allontana perché si capisce che il rapporto coi genitori ha esaurito le sue funzioni, ma questo oggi, in un contesto di forte maternalizzazione di codice, rischia di non avvenire più. I dati sono sconcertanti, come quello recente citato da Chiara Saraceno: secondo un'indagine recentissima su 28 paesi europei il 67% degli uomini italiani sotto i 35 anni vive ancora con i genitori, rispetto al 21% di tedeschi e al 12% di svedesi (5).

3. La cultura educativa del conflitto come bonifica relazionale e spinta verso l'autonomia

Se la fatica è un valore paterno, oggi possiamo dire che questo valore - che poi è il valore dentro cui si colloca la cultura del conflitto, come cultura della ricerca della relazione che non sia solo una relazione volta all'omologazione, volta al rispecchiamento narcisistico - è un valore deficitario. In una maternalizzazione talmente accentuata come quella che stiamo registrando dove il conflitto genera una vera e propria sensazione di minaccia, dove le regole non vengono messe perché creano conflitti e quindi bisogna stare dentro una simbiosi assoluta in cui il volersi bene ha sostituito il concetto di benessere, si intuisce che c'è qualcosa che non funziona.
Anche un'educazione che crea questa dipendenza è foriera di un atteggiamento che può provocare una forte de-sensibilizzazione rispetto alla guerra e rispetto alla violenza.
Io penso che la pace sia un problema di democrazia degli affetti, ma oggi come oggi ritengo che la pace sia da cercare maggiormente in una accentuazione del paterno, come capacità di stare nei conflitti, di reintegrare il conflitto nella propria esperienza. Non mi pare possa stare in un'enfasi di maternage che sta avvolgendo in una melassa assorbente un pò tutti, sia genitori che istituzioni educative, senza restituire niente, senza dare la possibilità di quella autonomia e di quella crescita che permette di diventare grandi.
Occorre lavorare su un concetto di educazione che sappia rispettare la distanza. In Fornari mi ha sempre colpito la distinzione tra cultura della confidenza e cultura della diffidenza e come l'educazione debba porsi questo problema nella costruzione di una distanza che diventi formativa, perché senza distanza è difficile pensare ad un approccio che sia educativo.
Educare vuol dire prendere delle decisioni; è chiaro che queste decisioni possono avere una natura di un tipo o dell'altro, ma se non ci diamo neanche lo spazio temporale per creare una decantazione emotiva che ci permetta di vedere quello che succede nella relazione e quindi di trovare anche la decisione più pertinente, diventa tutto molto confuso. Allora l'emotività prevale sull'educazione e non c'è più un dialogo emotivo ma una sorta di compulsione che poi impedisce di capire e di creare educazione.
Mi sembra importante riproporre la dialettica degli affetti così come l'ha proposta Franco Fornari, con un'attenzione però: oggi in un discorso pedagogico, se vogliamo sviluppare la cultura del conflitto come cultura della relazione, di capacità di stare nella relazione, dobbiamo affermare con molta onestà che il codice paterno sta venendo meno e sta disertando, si sta sottraendo alla sua funzione vitale. Conviene raddrizzare questa situazione e portarla a una maggior integrazione.
Sono grato all'opera di Franco Fornari, che riteniamo un maestro, perché ci ha concesso di uscire dall'educazione alla pace come palude dei buoni sentimenti, quei buoni sentimenti di cui si nutrono i guerrafondai e anche i kamikaze, per aprirci a una nuova capacità di leggere il conflitto come struttura anti-proiettiva e quindi come dimensione di libertà e di crescita.
Fra Bush e i kamikaze c'è un'altra strada ed è la strada faticosa ma creativa di stare nei conflitti con un atteggiamento formativo e con la fermezza di chi sa che ci salviamo assieme o non ci salviamo.


Note
1. F. Fornari, Carmen adorata, Longanesi, Milano 1985.
2. F. Fornari, La malattia dell'Europa, Feltrinelli, Milano 1981, pp.
200-201.
3. S. Di Lorenzo, La grande madre mafia. Psicanalisi del potere mafioso, Pratiche, Milano 1996.
4. F. Fornari, Presentazione all'edizione italiana di A. Mitscherlich, L'idea di pace e l'aggressività umana, Sansoni, Firenze 1972.
5. "Il Venerdì di Repubblica", 25 febbraio 2005, intervista a Chiara Saraceno.