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L’America Latina cammina verso l’indebolimento e la disintegrazione: intervista a Juan Tokatlian

La crisi del Venezuela e la salita al potere di Jair Bolsonaro si combinano con uno scivolamento dell’A.L. verso una graduale irrilevanza nella politica mondiale e una relativa perdita di autonomia nelle sue relazioni internazionali, in un contesto internazionale più incerto e pugnace. Il professore dell’università di Tella (Cile), Juan Toklatian, analizza la congiuntura latinoamericana e i nuovi scenari. Da Juan Gabriel Tokatlian / Nueva Sociedad Febbraio 2019.

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Negli anni 90 nella regione vi fu un’egemonia neoliberista, seguita nel 2000 da una più progressista/nazional-popolare. Dove ci troviamo oggi? In uno scenario incerto e confuso per quanto indirizzato a destra …

Mi sembra che il tema dell’egemonia in America Latina dovrebbe essere studiato di più e chiarito meglio. Se assumiamo come riferimento la riflessione di Antonio Gramsci, si dovrebbe indagare la leadership <<politica, intellettuale e culturale>> di determinati gruppi o classi in contesti storici specifici, così come la sostenibilità e profondità di questa supremazia egemonica che combina consenso e coercizione e che richiede che l’esercizio del potere venga accettato dagli attori dominati.

La prima cosa che potremmo segnalare è che in America Latina, in generale, si alternano momenti forti e deboli di egemonia. Tuttavia, è anche importante individuare casi precisi che mostrano più vigore e durata. I progetti socio-politici e economici di taglio moderatamente riformista e di settori che operano sotto le regole del sistema, -cioè che non furono antisistemici nel senso di avere un orizzonte di cambiamento rivoluzionario- essi non poterono consolidarsi negli anni 50 e inizio degli anni 60. Neppure i progetti autoritari della fine degli anni 70 fino all’inizio degli anni 80, poterono prosperare. Entrambi, sottoposti al forte calore della Guerra Fredda nella periferia. Terminata la disputa fra Stati Uniti e Unione Sovietica, il progetto neoliberista degli anni 90 non potè prolungarsi al di là di questa decade ; in particolare, in buona parte dell’America del Sud sebbene si sia prolungato in altre sub regioni dell’A.L. Con l’inizio del nuovo secolo –e di nuovo in America del Sud ma non in America Centrale, Messico e Caribe- il progetto progressista non ha potuto superare i tre lustri. Ed ora assistiamo al risorgere del progetto neoliberista il quale –malgrado ciò che si tende a affermare- ha elementi di fragilità perché poggia su società frammentate e polarizzate e si realizza in regimi di economie molto privatizzate e finanziarizzate. Non siamo di fronte a un’egemonia robusta.

Probabilmente, vediamo retrocedere le sue componenti consensuali e avanzare i dispositivi coercitivi, cosa che tenderà a generare maggiore instabilità e conflittualità in un contesto globale incerto e pugnace. In sintesi, assistiamo a progetti egemonici limitati che non possono consolidarsi definitivamente poiché in un modo o in un altro non possono essere pienamente accettati da buona parte delle società.

Brasile e Venezuela appaiono come due casi difficili. Uno a causa della crisi multidimensionale e l’altro per essere coinvolto nel primo esperimento di estrema destra. Come dovremmo affrontare in America Latina entrambi questi casi? Quali rischi vede?

È certo che appaiono come i casi “difficili” se con questo si intende dire che hanno seguito traiettorie politiche differenti e che oggi affrontano la loro maggiore crisi storica contemporanea con aspirazione rivoluzionaria (Venezuela) e con un ambizioso tentativo reazionario (Brasile).

Capisco che la domanda punta a sottolineare le diversità e le singolarità che caratterizzano entrambe le esperienze: la prima, probabilmente, nella sua fase terminale e la seconda, con incertezze, nella sua tappa iniziale. Tuttavia vorrei sottolineare che al di là delle specificità nazionali esse hanno alcuni aspetti in comune. Mi riferisco al fatto che ciò che accade nei due paesi oggi al centro dello scenario mediatico regionale ci dovrebbe portare a porre, di nuovo, il problema militare in America Latina. Chiarisco che già la cosiddetta “guerra contro la droga” col suo epicentro in Colombia, Messico e America Centrale è venuta mostrandoci i costi e le devastazioni della militarizzazione della guerra contro il narcotraffico e gli effetti perniciosi e perversi del confondere le funzioni delle forze armate e delle forze di polizia cancellando la frontiera fra difesa esterna e sicurezza pubblica. Ciò che voglio è far risaltare che i casi del Venezuela e del Brasile ci obbligano a riflettere seriamente su qualcosa che ci sembra distante e specifico della fase di transizione democratica nella regione: il problema dei militari.

Il problema dei militari inteso come la partecipazione dei militari alla gestione dello stato e di un controllo civile e democratico delle forze armate. E in questo senso, il ruolo crescente delle forze armate nella vita nazionale dei paesi è un dato rilevante. Il caso attuale del Venezuela è il più emblematico ed estremo. Lì i militari ricoprono una ampia gamma di funzioni nello Stato ed hanno un ruolo chiave per sostenere il regime politico o, eventualmente, per rovesciarlo. E il caso del Brasile è tornato significativo per la loro alta partecipazione nella recente contesa elettorale (circa 70 sono i militari eletti), per la presenza delle forze armate in cinque incarichi influenti nel gabinetto del presidente Jair Bolsonaro (oltre allo stesso presidente e al vice presidente Hamilton Mourão), per la volontà espressa dallo stesso di accrescere il coinvolgimento dei militari nella lotta contro il crimine organizzato e per il fatto che sono i garanti dei “poteri costituzionali” (Art. 142 della Costituzione). In breve, mi sembra che sia indispensabile tornare a pensare la questione militare nella regione nel quadro di democrazie precarie, in ragione dell’attuale fase di proiezione del potere militare degli Stati Uniti in America Latina e in vista di un eventuale effetto della dimostrazione nell’area circa una ri-politicizzazione delle Forze Armate.

Siamo di fronte a un arretramento dell’integrazione o di fronte a un cambiamento o spostamento di paradigmi?

Dall’inizio del XXI° secolo vari governi, in particolare in America del Sud, hanno rivendicato il merito dell’integrazione. Sia per ragioni commerciali e/o diplomatiche, pensando in termini di affari o di valori e sotto governi di diverso segno ideologico, l’integrazione è stata invocata con una forza retorica inusuale. Il continuo rilancio del Mercato Comune del Sud (Mercosur), la rivendicazione iniziale dell’Unione della Nazioni Sudamericane (Unasur), la fondazione dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (Alba), la creazione della CELAC1 e la costituzione dell’Alleanza del Pacifico (AP) sono stati la dimostrazione di questo spirito.

Il clima dell’inizio del secolo è stato quello della ricerca di una maggiore associatività fra nazioni. Tuttavia lo stato reale dell’integrazione in America del Sud è molto mediocre.

Nella regione si agisce politicamente sotto la logica della sciabilità: unirsi in tutti i fori possibili, con indipendenza dal livello effettivo di istituzionalità e con la presunta compatibilità di interessi condivisi. Nonostante questo, economicamente predomina la logica dell’unilateralismo: ciascuno pensa al proprio mercato domestico, oscilla in modo inconsulto circa i gradi del protezionismo interno, scoraggia, nella pratica, i legami produttivi fra i settori imprenditoriali e negozia in modo bilaterale con gli Stati Uniti o con la Cina, ad esempio.

Quindi, più prima che poi, si verifica una collisione: con tanta unilateralità non c’è una buona socialità politica. A quanto sembra, la CELAC non si è resa conto della consistenza del problema interno e internazionale derivato dalla tragica situazione venezuelana. La Unasur ha tenuto un comportamento penoso e con la nuova ondata di governi di destra nella regione, sei paesi che avrebbero potuto riorientarla si sono fatti carico di seppellirla. I presidenti Iván Duque della Colombia e Sebastian Piñera del Cile hanno lanciato l’idea di creare PROSUR col proposito di rimpiazzare Unasur e con l’idea, molto probabilmente, di accerchiare ancor più il Venezuela e forse domani altri paesi, se sarà il caso. Il Mercosur ha lasciato fuori il Venezuela e dopo ha optato per non fare molto. L’Alleanza del Pacifico non ha mai fatto alcunché e ancor meno farà ora dopo l’arrivo alla presidenza di Andrés Manuel López Obrador, con il cambiamento del segno politico del governo messicano.

I membri dell’Alba hanno avuto una presenza insignificante per contribuire a che uno dei suoi potesse dar vita a percorsi di soluzione politica e di riconciliazione sociale. E in mezzo a tutto questo, il cosiddetto Gruppo di Lima che, con ragione, ha impugnato la legittimità elettorale del presidente Nicolás Maduro per il suo secondo mandato, ha scelto una politica inedita per la regione col riconoscere il presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó, come “presidente incaricato” quando non possiede né esercita nessuno degli attributi di un governo né le sue funzioni di base. Ed è andato ancora oltre allorché ha fatto appello alle forze armate del Venezuela affinché manifestino la loro lealtà a Guaidó.

Un altro segno dei tempi in cui il ruolo delle forze armate acquista un livello di importanza e incidenza che si riteneva superato con l’ondata democratica degli anni 80.

Il cambiamento politico in Messico potrebbe avere qualche effetto regionale o sarà limitato all’interno delle sue frontiere?

La dimensione degli impegni interni e bilaterali rispetto agli Stati Uniti che il governo di Lopéz Obrador deve affrontare ha dimensioni tali che occuperà la sua attenzione iniziale nonché quella permanente. Le priorità del Messico sono domestiche e i suoi vincoli con il vicino del nord non sono sostituibili da nessun altro. Il suo impatto in America Latina sarà pertanto inferiore a quello cui aspirano i progressisti della regione. Pur tuttavia, non sarà irrilevante. Indico un esempio storico e comparativo perché si comprendano le relazioni fra Messico e America Latina. Nel 1981, nel mezzo a una violenza diffusa in Centroamerica, il Messico e la Francia firmarono una dichiarazione con la quale riconoscevano il Frante Farabundo Martí di Liberazione Nazionale (FMLN) e il Fronte Democratico Nazionale (FDR) in El Salvador quali forze rappresentative nel conflitto armato in questo paese. Quello fu un gesto contundente con riferimento alla posizione di Washington nelle molteplici crisi centroamericane e, a sua volta, aprì il cammino per la costituzione nel 1983 del Gruppo detto di Contadora (Colombia, Messico, Panama e Venezuela), al quale si unì nel 1985 il Gruppo di Sostegno composto da Argentina, Brasile, Perù e Uruguay) che aprì vie di uscita politiche negoziate ai conflitti armati in Guatemala, El Salvador e Nicaragua. Detto di sfuggita, il suo lavoro fu molto reale. Il Messico fu l’architetto centrale di quella iniziativa e un ponte fondamentale per convincere i paesi europei –cosa che ottenne- affinché non avallassero la <<guerra di bassa intensità>> auspicata dal presidente Ronald Reagan in America Centrale. 38 anni dopo, il Messico ha optato per una politica di principi di fronte alla situazione venezuelana e non si è unito al Gruppo di Lima2 e mediante una convocazione congiunta con l’Uruguay ha invitato a una conferenza internazionale sul Venezuela. Si è appena costituito il cosiddetto Meccanismo di Montevideo che, assieme ai paesi del Caribe (Caricom), preme per una soluzione politica negoziata. Prima come ora il Messico ricerca soluzioni politiche, ma nel caso attuale lo fa in modo più cauto e difensivo e non ottiene l’adesione dei paesi medi e grandi dell’America del Sud. Il Messico continuerà a guardare alla regione e potrà mantenere un certo livello di attivismo diplomatico sempre e quando non coinvolga seriamente la sua relazione complessa e contraddittoria con Washington.

Come si pone L’America Latina di fronte all’effetto Trump e i riallineamenti globali?

È conveniente centrare l’attenzione sull’America Latina e guardare non solo agli Stati Uniti ma anche alla Cina, Credo sia fondamentale guardare al mondo dalla regione anziché parlare semplicemente delle grandi potenze e dopo localizzare la nostra regione. L’America Latina storicamente sta perdendo peso nel mondo e sembra oggi destinata ad allontanarsi sempre più. Per prima cosa ciò porta, più prima che dopo, alla debolezza e successivamente accelera la disintegrazione: questa combinazione rende più acuta la dipendenza. Alcuni indicatori -fra i molti disponibili- esemplificano questa caduta. Nel 1945, quando si creò l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), il peso del voto regionale era significativo: dei 51 membri iniziali 20 erano latinoamericani. Oggi all’ONU ci sono 193 paesi e la dispersione del voto della regione diminuisce ancora di più l’influenza dell’America Latina come blocco.

Dati della Commissione Economica per l’America Latina (CEPAL) rivelano che la partecipazione latinoamericana al totale delle esportazioni mondiali è passata dal 12% nel 1995 al 6% nel 2016. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale, nel 2006 le richieste di nuovi brevetti provenienti dall’ A.L. erano del 3% (quelle dell’Asia erano il 49,7%), mentre nel 2016 sono calate al 2% (quelle dell’Asia sono cresciute al 64,6%). Una recente informazione sulla disuguaglianza della Banca Mondiale evidenzia che otto dei dieci paesi più disuguali della regione fanno parte della regione: Haiti (2), Honduras (3), Colombia (4), Brasile (5), Panama (6), Cile (7), Costa Rica (9) e Messico (10).

A sua volta, e come abbiamo già segnalato, le iniziative di integrazione di diversa natura sono in chiaro deterioramento. Indebolimento e disintegrazione portano a una maggior dipendenza esterna, sia di un potere declinante come quello degli Stati Uniti che di un potere in ascesa come quello della Cina. Il corollario strategico di questo è lo scivolamento verso una graduale irrilevanza dell’America Latina nella politica mondiale e l’erosione dell’autonomia relativa nelle sue relazioni internazionali.

Aggiungo un’altra osservazione. Credo che nella regione vi sia una certa confusione riguardo a Stati Uniti e Cina. Gli S.U. non sono passivi né si sono isolati per quanto riguarda le relazioni interamericane, sia nel campo economico, né in quelli politico, assistenziale e militare. Mai se ne sono andati dalla regione: lì stanno. La Dottrina Monroe ha perso vigenza, ma questo non significa che gli S.U. si siano ritirati dall’A.L.. In realtà Washington sta sempre “entrando” nella regione con diverse forme politiche. Per quanto riguarda la Cina, oggi Pechino si avvicina all’A.L. con aiuti economici, in modo pragmatico e irrobustendo i legami da Stato a Stato. Da qui il fatto che l’intervento regionale cinese risulta più moderato e in favore dello statu quo, cosa che favorisce l’assenza di giocatori locali aventi capacità di veto, come accadde con riferimento all’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. In risposta a quanto sta succedendo a partire dalla decade del 1990 la regione rispose con quelle che viene chiamata la politica di “impegno affidabile” (reliable engagement) verso la Cina. Ora, risulta appropriato che i paesi comincino a contemplare un’opzione strategica diversa e mista verso la Cina; cioè una politica che combini avvicinamento e previsione. Riassumendo, evitare la doppia dipendenza rispetto agli S.U. e alla Cina esige l’urgente presa di coscienza da parte dell’A.L. che è proprio compito irrobustire regionalmente i propri componenti del potere. L’andamento declinante dell’economia dei paesi dell’area affonderà se si prosegue sulla china attuale.

Tutti guardano al Venezuela, cosa accade in Colombia?

Il caso della Colombia è particolarmente interessante perché in qualche modo è un esempio in cui si incrociano le questioni sollevate in tutte le domande precedenti. Lì siamo di fronte a una democrazia sudamericana longeva, dal 1958, che ha combinato assieme prolungata violenza politica, relativa stabilità economica e chiara leadership sociale di una cupola dirigenziale. Con tutte le contraddizioni derivate dal predominio nel tempo di differenti fazioni delle elite, con la combinazione di mezzi coercitivi e di dispositivi consensuali, senza una chiara distinzione fra Guerra Fredda e Postguerra Fredda per quanto riguarda la relazione di partenariato rispetto agli Stati Uniti, la Colombia presenta un modello di egemonia singolare in America del Sud. Lì il ruolo della questione militare collegata alla lotta controinsurgente e la battaglia contro i narcos è stata una realtà durevole. C’è stato un accordo di pace con le forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) che il governo attuale applica con il contagocce, mentre nel 2018 sono stati assassinati 93 leader sociali e dal momento della smobilitazione della guerriglia 85 membri delle FARC. La Colombia è stato un protagonista chiave del Gruppo di Lima ed è il paese i cui leader si sono mostrati i più accesi nella loro critica al regime di Maduro e perfino tentato –e al momento non è nulla di più- a unirsi a una strategia più aggressiva di Washington verso il Venezuela. E’ necessario aggiungere che nell’attuale congiuntura l’importanza della Colombia per gli Stati Uniti è sensibilmente aumentata. Washington ha identificato un cosiddetto “asse della tirannia” composto da Cuba, Nicaragua e Venezuela. L’unico paese latinoamericano che mantiene simultaneamente relazioni tese con tutte e tre queste nazioni è la Colombia. Con Cuba, con la quale si era mantenuta una relazione assai buona a causa del suo ruolo nel negoziato con le FARC, oggi è oggetto di una frizione eloquente dopo il fallimento del dialogo fra governo colombiano e Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) che era in corso a L’Avana. Un attentato dell’ELN a Bogotà ha posto fine alle conversazioni. Bogotà chiede l’estradizione dei membri dell’ELN che sedevano al tavolo dei negoziati e L’Avana ha risposto che vi è un protocollo di rottura dei negoziati che deve essere implementato. Il governo di Duque ha alzato in modo inusuale la sua critica a Cuba. D’altro canto, le tensioni col Venezuela iniziarono con l’arrivo al potere del presidente Chávez e sono cresciute sensibilmente dopo il fallito golpe in Venezuela del 2002. Col Nicaragua esiste un contenzioso storico che ha portato a una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) favorevole a Managua e un altro, in corso presso la stessa Corte, potrebbe aggravare le già modeste relazioni colombo-nicaraguensi.

A sua volta, c’è da tenere presente che la Colombia ha giocato un ruolo attivo nella promozione dell’Alleanza del Pacifico, ma dopo l’arrivo al potere di Lopéz Obrador in Messico, questo ruolo si è ristretto e la Colombia ha rafforzato il proprio vincolo con un altro governo della regione: quello di Piñeira in Cile. Se storicamente Bogotà guardava al Nord –attuando la dottrina colombiana del respice polum- e il suo legame con gli S.U. era stretto, ora ha abbracciato Washington con maggior convinzione ideologica e motivazione pragmatica, La Colombia è notoriamente allineata con Washington e questo rapporto non muterà. L’interessante in ogni caso è che molte capitali –Buenos Aires, Brasilia, Santiago, Lima, fra le altre- nella congiuntura attuale sembrano, a loro modo, più disposte a seguire il cammino di Bogotà e a indirizzare verso gli Stati Uniti il loro sguardo diplomatico preferito. Si dovrà valutare i risultati di questo sul benessere materiale, la sicurezza nazionale e l’autonomia internazionale delle società della regione. E questo è un altro capitolo che dovrà essere seguito rigorosamente e sistematicamente. Siamo in una regione alla deriva nelle questioni globali e questo è pericoloso … per noi.

(Traduzione di Aldo Zanchetta)

Fonte: Aldo Zanchetta


1 CELAC, Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi è un blocco regionale di nazioni dell'America Latina e dei Caraibi creato il 23 febbraio 2010 al "Vertice sull'unità dell'America Latina e dei Caraibi" (ndt).

2 La realtà è un po’ diversa. Dopo l’ascesa alla presidenza di Lopéz Obrador il Messico ha distinto un po’ la sua posizione senza però uscire formalmente dal Gruppo. Il Gruppo di Lima è stato creato nell’agosto del 2017 a seguito della spaccatura creatasi all’interno dell’OEA, la Organizzazione degli Stati Americani, circa la posizione da assumere contro il Venezuela e comprende 14 paesi.