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Le (altre) notizie dimenticate

Il 25 marzo l’Isis ha attaccato un tempio Sikh a Kabul: prova che resiste qui come in Siria e in Iraq; il 1° aprile l’Italia ha assunto il comando di «Irini», nuova missione Ue nel Mediterraneo; il 4 è stato il primo anniversario dell’offensiva libica di Haftar: «festeggiato» con altre bombe. Ecco che cosa succede dove sembra che non succeda niente.

La pandemia mondiale monopolizza inevitabilmente l’attenzione delle opinioni pubbliche. Eppure, i conflitti e le crisi umanitarie non si fermano. Anzi, in alcuni casi gli attori coinvolti negli scenari di guerra approfittano della distrazione dei media e della diplomazia per intensificare le offensive militari. Esaminiamo in queste pagine alcuni teatri di crisi che riguardano in particolare gli interessi italiani ed europei.

La guerra in Libia

Il 4 aprile è stato il primo anniversario dell’offensiva lanciata dal maresciallo Khalifa Haftar contro la pletora di milizie che sostengono il governo di Fayez Sarraj asserragliate fra Tripoli e Misurata. Da un anno il linguaggio delle armi domina su quello della politica in Libia. Nelle ultime due settimane i combattimenti attorno a Sirte, a Tripoli e lungo la strada costiera che conduce in Tunisia sono stati particolarmente intensi. Haftar sperava di celebrare l’anniversario conquistando finalmente la capitale, contando proprio sul disinteresse internazionale.

Deciso a ignorare gli appelli a cessare il fuoco e fare fronte comune all’emergenza virus lanciati dal segretario generale dell’Onu, António Guterres (cui si era associata anche l’ambasciata d’Italia a Tripoli), ha ordinato attacchi e bombardamenti più consistenti, nonostante Sarraj avesse aderito alla tregua, senza peraltro sortire alcuna reazione.

Un mese fa si è dimesso l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé, vanificando gli sforzi della diplomazia europea rilanciati alla conferenza di Berlino a metà gennaio.

Le truppe di Haftar non hanno sfondato, anche se gli sfollati nella regione di Tripoli sfiorano ormai i 200 mila. Fonti indipendenti segnalano un centinaio di morti e decine di feriti nei due fronti, soprattutto nella zona di Abugrein, sulla strada tra Sirte e Misurata. Entrambe le propagande diffondono macabri video di cadaveri di giovani uomini stesi a terra o sui pianali dei pickup con le uniformi insanguinate. Haftar è noto come «l’uomo forte della Cirenaica», ma lo stallo della sua offensiva evidenzia un dato: dalla fine del regime di Gheddafi, nel 2011, nessuno schieramento appare in grado di prevalere senza consistenti aiuti stranieri.

Le autorità sanitarie di Tripoli segnalavano fino a una settimana fa un morto per coronavirus, una donna di 85 anni, e una quindicina di positivi. Ma le agenzie umanitarie internazionali e i media locali riportano che in effetti i casi potrebbero essere molti di più. Le strutture mediche non sono attrezzate per rilevarli e tanto meno curarli. Chi può resta in casa, anche se malato. «Sappiamo tutti che negli ospedali si va solo per morire», dicono i reporter locali in Cirenaica e in Tripolitania.

Non aiuta la crisi economica. La mossa imposta da Haftar il 17 gennaio, con l’aiuto di alcune tribù del deserto, di bloccare l’export di gas e petrolio, ha già sottratto oltre quattro miliardi di dollari alle casse dello Stato centrale, tagliando ulteriori risorse alla sanità.

Il fronte del Mediterraneo meridionale

Proprio la nomina dell’Italia al comando della nuova missione navale europea «Irini», al largo delle coste libiche, costringe a confrontarsi con la questione chiave del conflitto, quella dell’ingerenza militare da parte di Paesi stranieri. Alla sua guida è stato nominato l’ammiraglio Fabio Agostini, con mandato valido fino al 31 marzo 2021, ma quasi certamente destinato alla proroga. L’obiettivo è imporre il rispetto dell’embargo militare votato dalle Nazioni Unite. Se infatti è vero che sono soprattutto gli aiuti bellici stranieri ad alimentare le divisioni interne e la guerra, l’unico modo per fermarli è l’embargo. Da anni Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia, Giordania e Siria sostengono attivamente Haftar, mentre il fronte di Sarraj è aiutato principalmente da Turchia, Qatar e dai gruppi pan-islamici legati ai Fratelli musulmani. Il problema dunque è definire le regole d’ingaggio di «Irini». Formalmente la missione sostituisce quella precedente, «Sophia», chiusa a marzo, che in realtà non operava più da lungo tempo a causa dei contrasti europei sulle politiche libiche e sulla gestione dei migranti in mare. Da Tripoli il ministro degli Esteri, Mohammad Siala, ha già espresso critiche sostenendo che «Irini» è per sua natura «faziosa», dal momento che opera in mare e dunque tenderà a bloccare i rifornimenti turchi destinati alle milizie che sostengono Sarraj (le truppe di Haftar vengono equipaggiate soprattutto da terra lungo il confine egiziano con la Cirenaica).

In realtà si tratta di definire (cosa da sempre alquanto complessa) la «volontà militare» dell’Europa in Libia: sia Bruxelles che i comandi di Roma sostengono che la missione disporrà di sofisticati sistemi di controllo e intervento satellitare in grado di operare su tutto il territorio libico; allo stesso modo si tratterà di definire (cosa altrettanto complessa) il confine delle operazioni di salvataggio in mare dei migranti.

Il blocco dei flussi migratori

La novità delle ultime settimane è la netta frenata, se non il blocco quasi totale, dei flussi di migranti dal sud del Mediterraneo verso l’Europa. La guardia costiera libica riferisce la paralisi delle partenze di barche e gommoni. Anche le rotte dall’Africa subsahariana appaiono quasi deserte. Le milizie libiche e i trafficanti scoraggiano arrivi e partenze anche dalla Tunisia. La quarantena sanitaria dell’Europa e i divieti di spostamento hanno indotto i migranti a non muoversi.

Ma l’Organizzazione mondiale della sanità e associazioni umanitarie come Medici senza frontiere segnalano allarmate l’eventualità che il virus possa raggiungere i campi sovraffollati di migranti in Libia, in Siria, in Turchia, nello Yemen, in Iraq e oggi, soprattutto, il campo Moria sull’isola greca di Lesbo (costruito nel 2015 per accogliere 2.850 profughi, ne ospita al momento circa 20 mila).

Pochi giorni fa Ankara ha evacuato gli ultimi 5.800 migranti ancora accampati presso i fili spinati del villaggio frontaliero di Kastanies, sulla micidiale rotta turco-greca. Qui il 28 febbraio Recep Tayyip Erdogan aveva scelto di riaprire il flusso dei migranti come strumento di pressione per ottenere l’appoggio europeo e fermare il sostegno russo all’offensiva militare del regime di Bashar Assad contro i ribelli siriani nell’enclave di Idlib. Una mossa tanto spregiudicata quanto provocatoria nei confronti dell’Europa, che nel 2016 aveva finanziato il presidente turco con 6 miliardi di euro per gestire i migranti all’interno dei confini anatolici. Erdogan si è giustificato sostenendo che la guerra in Siria rischia oggi di aggiungere almeno tre milioni di nuovi profughi ai quasi quattro già ospitati in Turchia dal 2011. Così, ai primi di marzo decine di migliaia di migranti — soprattutto afghani, pachistani, siriani e iracheni — sono stati trasportati dalle autorità turche nelle regioni frontaliere tra Edirne e Kastanies per forzare le reti verso l’Europa. Altre centinaia hanno provato a raggiungere via mare Lesbo e le altre isole greche dell’Egeo con il sostegno dei guardacoste turchi.

Ci sono stati scontri e incidenti tra la Marina turca e quella greca, accuse reciproche tra Ankara e Atene, alcuni profughi sono morti. Ma l’Europa ha fatto quadrato, inviando aiuti militari e finanziari (oltre 750 milioni di euro) alle autorità greche per contribuire al blocco navale e terrestre. La visita di Erdogan a Bruxelles, nella seconda settimana di marzo, ha garantito nuovi finanziamenti europei ad Ankara e la ripresa del dialogo. In ogni caso, i leader europei non hanno manifestato alcun interesse a interferire nel teatro siriano, né tanto meno intervenire sulla politica di Vladimir Putin in Medio Oriente.

In realtà è stata soprattutto la pandemia a provocare la fine delle tensioni sul confine grecoturco. I migranti sono stati imbarcati sugli stessi autobus che li avevano portati al confine e riportati dalla polizia turca nei nove campi all’interno del Paese per la quarantena.

L’offensiva dell’Isis nel Sahel

Ad approfittare delle difficoltà generate dal virus sono anche i gruppi jihadisti in Africa. Il tema è però vecchio, precede di gran lunga la pandemia. Da oltre un decennio l’estremismo islamista legato ad Al Qaeda cresce nel continente. E dal 2014 anche Isis ha messo radici, soprattutto nelle zone desertiche del Sahel, a cavallo dei confini tra Mali, Niger, Ciad, Libia meridionale e Burkina Faso. In prima linea a combatterli sono 4.500 soldati delle truppe speciali francesi. Erano arrivati sette anni fa con l’obiettivo di restare poche settimane per compiere blitz mirati. Da allora la missione si è allargata. Dal 2015 i comandi di Parigi riportano di avere eliminato almeno 600 jihadisti, ma a loro volta i francesi hanno perso 44 militari, molti a causa degli attentati suicidi e delle mine.

Adesso il presidente Macron promette l’invio di altre 600 teste di cuoio specializzate nella guerriglia e nell’antiterrorismo.

La sofferenza delle popolazioni locali non accenna a diminuire: i morti civili sarebbero stati oltre 10 mila dal 2013, più di un milione hanno abbandonato le aree devastate dai raid dell’Isis. La corruzione e l’inefficienza dei governi locali rendono tutto più complicato. Il Pentagono la considera una causa persa e vorrebbe ritirare la piccola presenza di truppe scelte americane in Niger. Parigi chiede che restino e lancia appelli per l’invio di contingenti di rinforzo sia ai partner europei che ai Paesi dell’Unione Africana.

La situazione è molto simile in Sudan. Qui i qaedisti di Al Shebab prosperano su siccità, fame e fallimentare inefficienza dello Stato. Si stima che la grande carestia del 2010-2012 abbia causato almeno 250 mila morti su 12 milioni di abitanti. Sono numeri che qui fanno impallidire i bilanci di Covid-19. Ma anche in questo frangente i dati riflettono l’inefficienza del sistema sanitario africano. Al 4 aprile venivano rilevati 300 morti e 7.741 contagi in tutto il continente. Un conteggio sinceramente poco credibile. «Semplicemente i medici non hanno gli strumenti per individuare il virus», notano gli ufficiali della Croce Rossa locale. Ne approfittano gli imam radicali: negano che il virus abbia raggiunto il Sudan e predicano nelle moschee che sarebbe una maledizione di Allah contro i «crociati occidentali». Poi se la prendono con i «cinesi miscredenti», accusati di perseguitare la minoranza islamica degli uiguri e dunque ai loro occhi meritevoli della punizione divina.

I governi si organizzano come possono con misure di prevenzione e contenimento — almeno 35 Paesi sui 54 africani — sul modello italiano. Ma per esempio in Zimbabwe sono segnalate diserzioni in massa di medici e infermieri, che abbandonano gli ospedali per mancanza di protezione. In Congo è deceduto, sembra a causa del virus, il principale consigliere personale del presidente Felix Tshisekemi. In Burkina Faso cinque ministri del gabinetto sono stati segnalati positivi e bloccati in quarantena. A loro si aggiunge l’ambasciatore americano a Ouagadougou, Andrew Young. In Kenya la serrata degli aeroporti impedisce l’arrivo dei pesticidi necessari a combattere la peggiore invasione di locuste giganti degli ultimi settant’anni. Si teme la perdita del raccolto e una strage per fame e povertà anche peggiore di quella che si ebbe durante il flagello di Ebola tra il 2014 e il 2016.

La fine delle proteste irachene

Per la prima volta, dopo oltre sei mesi di manifestazioni e scontri, le piazze irachene sono vuote. Anche dalla zona di Tahrir, nel cuore di Bagdad, sono spariti giovani e tende. Il virus vince dove non hanno avuto successo la repressione della polizia irachena, i rapimenti mirati, i cecchini criminali delle milizie sciite legate a Teheran. È il risultato della chiusura mondiale e della conseguente crisi economica irachena. La gente resta in casa.

Il braccio di ferro sulle quote di estrazione del greggio tra Riad e Mosca ha contribuito in pochi giorni a fare precipitare il prezzo del petrolio da 60 a meno di 30 dollari al barile. Un dato gravissimo per il bilancio statale iracheno: oltre il 90 per cento del prodotto nazionale lordo si fonda sull’export energetico. I giovani delle proteste dal 1° ottobre chiedevano la fine della corruzione, del monopolio della politica da parte dei vecchi partiti settari, pane e lavoro. Almeno 600 sono stati uccisi e migliaia feriti. Ora tacciono.

Resta grave e minaccioso lo scontro tra Washington e Teheran combattuto senza esclusione di colpi sul territorio iracheno. Una crisi che ha ripreso vigore dopo che il 3 gennaio a Bagdad i droni americani hanno ucciso Qassem Suleimani, massimo responsabile della strategia militare iraniana.

Negli ultimi giorni i militanti della Kataib Hezbollah hanno ricominciato a sparare razzi contro le basi militari e l’ambasciata Usa in Iraq. Questo è avvenuto dopo la nomina a Teheran del successore di Suleimani. Si tratta di un suo stretto collaboratore, Esmail Ghani, a sua volta anziano ufficiale delle brigate «Al Quds». Trump ha ordinato rappresaglie. Ultimamente sta tornando a proporre attacchi mirati sull’Iran, provocando ripercussioni pesanti sull’Iraq. Il presidente d’origine curda Barham Salih, di simpatie filoamericane, aveva nominato premier lo sciita moderato Adnan al Zurfi per sostituire il dimissionario Adel Abdel Mahdi. Ma i partiti pro iraniani non hanno accettato la scelta e giovedì 9 aprile hanno messo al posto di al Zurfi il capo dell’intelligence Mustafà al Kadimi.

Yemen e Siria

Nello Yemen mercoledì 8 aprile la coalizione che fa capo all’Arabia Saudita ha dichiarato unilateralmente il cessate il fuoco. Nel Paese devastato si calcola che le milizie pro iraniane della minoranza sciita Houthi, da gennaio a metà marzo, abbiano strappato alla coalizione sunnita sostenuta da Riad quasi tremila chilometri quadrati di territorio, compreso il governatorato di Marib, oltre alle città di Al-Hazm, Tabab al Bara e Nahar. Cinque anni di guerra civile hanno causato soprattutto una crisi umanitaria tra le più gravi del pianeta. Non aiuta certo la decisione del presidente Trump, il 27 marzo, di tagliare 70 milioni di dollari di fondi destinati agli aiuti sanitari. Un recente rapporto delle Nazioni Unite definisce lo Yemen «il Paese più povero al mondo», con oltre l’80 per cento dei 24 milioni di abitanti costretti alla più misera sopravvivenza.

Non è molto diversa la situazione in Siria. Qui il presidente Assad, grazie al pieno sostegno russo e del campo sciita capeggiato dall’Iran, continua l’offensiva per la riconquista dell’enclave settentrionale di Idlib, dove sono asserragliate le ultime milizie figlie delle rivolte del 2011. E resta estremamente fragile la tregua mediata un mese fa da Putin con Erdogan e Assad per impedire lo scontro frontale tra i soldati turchi e l’esercito siriano. A farne le spese sono circa tre milioni di profughi fuggiti a Idlib. Nella vicina regione autonoma curda di Rojava è tornata a pesare la presenza militare americana, che frena per ora le aspirazioni di Damasco a restaurare la propria piena sovranità. È stata registrata di recente una ripresa delle attività di Isis nella zona di Raqqa e lungo la valle dell’Eufrate, dove i curdi un anno fa avevano debellato le ultime roccaforti jihadiste.

Il caso afghano

In Afghanistan gli Stati Uniti proseguono nel piano di ritiro graduale delle truppe in seguito agli accordi di pace avviati con i Talebani nei mesi scorsi. Però prevale l’incertezza. Trump vorrebbe giungere all’appuntamento elettorale di novembre con il minore numero possibile di soldati nella regione. Il Paese è stato paralizzato dalle misure di blocco imposte dal governo di Kabul contro il virus. Ma questo non ha impedito all’Isis di compiere un attentato contro un tempio sikh nella capitale il 25 marzo, che ha ucciso almeno trenta persone. A rendere estremamente fragili le intese tra Washington e Talebani sono soprattutto le forti opposizioni espresse dai dirigenti politici afghani, a loro volta però indeboliti dall’incapacità di trovare un compromesso di governo tra i due principali candidati alle presidenziali del 28 settembre scorso, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Kabul dovrebbe rilasciare cinquemila talebani dalle proprie carceri in cambio della liberazione di un migliaio di suoi soldati e poliziotti. Uno scenario fragile e confuso, nel quale operano anche 700 italiani (di cui 4 al momento in isolamento perché trovati positivi al coronavirus) concentrati specialmente ad Herat con compiti di addestramento per le forze di sicurezza locali.

Fonte: Corriere della Sera La lettura - 12 Aprile 2020

Segnalato da: Chiara Bontempi