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America abbiamo un problema

“Il trambusto generale che ha fatto seguito alle elezioni politiche negli Stati Uniti dello scorso 3 Novembre ha agitato e intorbidito la politica americana, mettendo in luce la nefasta vulnerabilità di tutto il sistema politico della nazione.

Donald Trump ha utilizzato la finestra temporale di quarantun giorni compresa tra il giorno delle elezioni e l’incontro del 14 Dicembre con il Collegio Elettorale per mantenere un suo controllo sul Paese, basandosi sul suo rifiuto di riconoscere la vittoria del concorrente Joe Biden e la propria sconfitta.

Un’ulteriore contingenza avversa per Trump, ma anche per alcuni dei suoi sostenitori, è stata la capitolazione dei Repubblicani nella camera del Senato. Ci sono volute sei settimane, a partire dal giorno delle elezioni, affinché Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato, riconoscesse martedì scorso quanto segue, nelle sue stesse parole: “Il Collegio Elettorale si è pronunciato in via definitiva. Oggi desidero congratularmi con il Presidente eletto Joe Biden”.

Il rifiuto di Trump di conformarsi ai dettami della legge elettorale è stato ampiamente considerato dall’opinione pubblica come un messaggio il cui significato implicito era quello di una minaccia con la forza. In aggiunta, un altro atteggiamento del presidente uscente ha destato allarme. Si è trattato nella fattispecie del riferimento esplicito ad una non dimostrata frode elettorale che Trump ha attribuito a città nelle quali la maggioranza della popolazione è Afro-Americana, comprese Detroit (Contea del Wayne), Milwaukee (Contea omonima), Philadelphia (Contea omonima) e Atlanta (Contea di Fulton).

Bob Bauer, uno dei consulenti legali di più lunga esperienza nella campagna elettorale di Biden, ha osservato di fronte ai giornalisti come “il tentativo di criminalizzazione della comunità Afro-Americana mosso da Trump non fosse tanto una semplice intenzione sottilmente mascherata, quanto un comportamento esplicito di straordinarie proporzioni” – aggiungendo la sua considerazione di come “la sfacciataggine dell’ex-presidente sia più che mai evidente”.

Per cogliere appieno il senso dei recenti eventi, considerare solamente i filtri della visione trumpiana può essere limitativo, se vogliamo riferirci all’intero turbolento palcoscenico della società e cultura americana che negli ultimi anni sono diventate sempre più logoranti.

Il 30 Ottobre scorso, un gruppo di eminenti accademici (con alcuni dei quali ho avuto l’onore di parlare) hanno pubblicato un saggio sul “Settarismo Politico in America”. In esso si spiega perché l’antagonismo tra destra e sinistra abbia raggiunto livelli tali che i concetti finora utilizzati di “Polarizzazione affettiva” e di “Tribalismo” non sono più sufficienti a sintetizzare i livelli di ostilità raggiunti dalla partigianeria.

“La gravità del conflitto politico è andata progressivamente ad assumere un’identità diversa da quella del disaccordo politico, pur radicale che esso sia – scrivono gli autori – un fatto, questo, che ha richiesto lo sviluppo del concetto sovraordinato di Settarismo Politico, ovvero quella tendenza a un’identificazione di tipo morale a sostegno di un partito, con totale condanna di un altro.”

Il Settarismo Politico, propongono gli autori, “consiste in tre componenti principali: il cosiddetto “othering”, il rendere altro da sé, la tendenza cioè a considerare i partigiani di un’altra fazione politica come soggetti da una connaturata differenza essenziale che li renderebbe irrimediabilmente “alieni”; una vera e propria “avversione” – la tendenza cioè a provare una disgusto e una sfiducia aprioristica nei confronti degli esponenti di un partito opposto, e la “moralizzazione”, cioè la tendenza a ritenere gli avversari politici come intrinsecamente ingiusti. La confluenza di questi tre ingredienti è proprio ciò che rende il Settarismo Politico tanto distruttivo nella sfera politica.”

Molti sono gli esiti avversi che possono scaturire dal Settarismo Politico, secondo gli autori. Innanzitutto, riportando le loro parole, “esso incentiva l’adozione da parte dei politici di tattiche antidemocratiche nella ricerca di consensi elettorali e per il conseguimento di traguardi politici; ciò perché il bacino di popolazione dei propri sostenitori giustificherà violazioni a norme democratiche ritenendole un mezzo lecito per impedire le conseguenze catastrofiche che emergerebbero dalla salita al potere della detestata fazione avversa.”

Inoltre, il Settarismo Politico arriva addirittura a legittimare

“Una volontà di infliggere danni collaterali nella propria ricerca di traguardi politici, e di considerare apostati quei compagni di partito che vorrebbero compromessi più equi. Man mano che il settarismo politico ha aumentato la sua diffusione negli ultimi anni, si sono osservate parallele crescenti accettazioni e appoggi a tattiche violente.”

Seguendo una linea parallela di analisi, Jack Goldstone - ordinario di Politica Pubblica alla George Mason University – assieme a Peter Turchin – professore di ecologia e biologia evoluzionistica all’Università del Connecticut – propongono che sia una particolare combinazione di tendenze economiche e demografiche ad alimentare la conflittualità nelle contestazioni politiche. Gli eventi succedutisi nelle ultime sei settimane hanno fatto crescere la credibilità di questa ricerca dei due professori, gli stessi che il 10 Settembre scorso hanno presentato un loro saggio intitolato “Benvenuti nei turbolenti anni venti”, nel quale argomentano i motivi per cui gli Stati Uniti si starebbero “avviando verso il più alto livello di vulnerabilità alla crisi politica che abbia mai interessato la Nazione negli ultimi cento anni.” Si registra, detto con le parole stesse dei due autori, “una gran quantità di materiale d’innesco esplosivo accumulato da tempo, e una qualsiasi piccola scintilla potrebbe scatenare l’inferno.”

Goldstone e Turchin comunque non credono che l’avvio della catastrofe sia inevitabile. Citano a proposito un numero di esempi di Nazioni che, in passato, sono riusciti ad invertire tendenze all’affondamento di principi democratici, compresi gli stessi Stati Uniti durante la grande depressione:

“Di sicuro il percorso verso la restaurazione di un’America forte, inclusiva e solidale non sarà propriamente agevole e breve. Ma una via percorribile in questa direzione è comunque alla portata; è una via che comporta un cambiamento nel tipo di leadership, un impegno verso compromessi distensivi, e un fronteggiamento delle reali condizioni che il mondo sta attraversando, riconoscendole per quello che sono, piuttosto che cercare di rimanere disperatamente legati ad un’era che ormai ha fatto il suo corso storico, o di tentare di ripristinarla.”

Le argomentazioni di Goldstone e Turchin si basano su di un criterio di valutazione chiamato “Indicatore di Sofferenza del Sistema Politico” (“Political Stress Indicator”), sviluppato proprio da Goldstone nel suo libro del 1991 intitolato “Revolution and Rebellion in the Early Modern World: Population Change and State Breakdown in England, France, Turkey, and China,1600-1850” – “Rivoluzioni e ribellioni nel Mondo Moderno”. In esso l’autore descrive come il criterio di valutazione da lui descritto sia stato predittivo della Rivoluzione Puritana della decade del 1640 e della Rivoluzione Francese del 1789, come anche delle rivoluzioni del 1830 e del 1848 in Europa.”

Come scrisse Goldstone:

“Una mobilitazione popolare ha maggiori probabilità di emergere quando si verificano un diffuso declino delle condizioni di vita materiale in un’intera popolazione e un’espansione urbanistica, con particolare interessamento della popolazione giovanile. Quando la competizione sociale per il raggiungimento di posizioni di vertice si inasprisce, la polarizzazione politica e la faziosità avranno maggiori probabilità di svilupparsi, con i vari gruppi di interesse che combattono per acquisire potere e posizioni di influenza. Quando poi le spese dello Stato eccedono le entrate, come risultato di governi che sono sempre meno in grado di soddisfare le richieste, quegli stessi governi perdendo in legittimità. Sarà anche più probabile che si inaspriscano conflitti tra le elites sul tema della tassazione. In passato ho spiegato come sia la compresenza di tutti questi fattori che esponga uno Stato a forti rischi di insurrezioni.

Turchin, nel suo libro del 2017 dal titolo “Ages of Discord: A Structural-Demographic Analysis of American History” ha tracciato un grafico della sofferenza politica in questa Nazione mostrando come, dal 1970 al 2012 il livello tensione politica si sia fatto considerevolmente più tagliente, aumentando anche di quaranta volte. Negli otto anni che sono seguiti fino ad oggi, la tensione politica si è ulteriormente aggravata, scrive Goldstone, mentre le disparità tra i redditi, la polarizzazione politica e il debito pubblico hanno tutti fatto segnare una crescita.

Mentre da una parte gli Stati Uniti sono particolarmente vulnerabili al rischio di una sommossa violenta, sostiene Turchin, è vero anche che lo scenario di un completo disastro “non è affatto contemplato come un esito inevitabile. Potremmo al contrario essere la prima società a percepire, per quanto flebilmente, quali siano le radicate forze strutturali che ci stanno spingendo verso il precipizio.”

In una sua testimonianza resa al congresso di quest’anno, Christopher Wray, direttore dell’F.B.I. ha espresso un ammonimento sui rischi degli estremismi bianchi. Consideriamo, com esempio di ciò, l’attività di “posting”, prevalentemente in formato non stampabile, fatta dalla piattaforma di “thedonaldwin” - uno dei siti internet a favore di Trump maggiormente schierati con l’estrema destra - il giorno 11 Dicembre, quando la Corte Suprema ha rigettato con una maggioranza di 9 a 0 il tentativo del Procuratore Generale del Texas di invalidare le vittorie di Biden riportate in Michigan, Wisconsin, Pensylvania e Georgia. I partecipanti pro-Trump alla piattaforma hanno utilizzato i loro pseudonimi internet non identificativi per dare voce ad un’indignazione che si è trasformata presto in livelli senza precedenti di frustrazione nei confronti di una elite Repubblicana che era da tali utenti ritenuta aver fallito nel proteggere il loro leader.

Uno di questi autori di post, il cui nome non può essere rivelato da questa testata giornalistica (n.d.r. “The New York Times”), ha dichiarato “non vedo l’ora di assaggiare il tuo sangue”. La pagina “MakeLiberalsCryAgain” ha dichiarato con molta franchezza:

“Tutto questo è una pazzia. Molti di questi Stati in cui il risultato elettorale è contestato hanno una maggioranza Repubblicana nelle loro legislature e hanno sempre avuto il potere di fermare tutto questo, ma non hanno fatto niente di niente. Hanno concesso audizioni per dare l’impressione di aver a cuore la questione ma, alla fine, hanno desistito, come gente senza spina dorsale, da codardi traditori quali sono. Pare proprio che il Partito Unico sia diventata una realtà. A che serve votare, quando tutti i candidati sono uguali?”

Ancora più esplicito è stato “dinosaurguy” che ha scritto: “E’ guerra. Punto”, sostenuto da “AngliaMercia” che ha dichiarato: “Adesso uccidiamo”, e “Chiptin” ha ammonito: “Non dimenticate che quei giudici sono stati scelti personalmente da McConnell e dalla Federalist Society. Gli hanno detto che lo avrebbero aiutato a selezionare i migliori solo per assicurarsi in realtà di poter scegliere quelli che poi lo avrebbero tradito. E’ l’ora di scendere in guerra con il Partito Repubblicano.”

Tali visioni di una destra estrema non sono isolate. In occasione del raduno di sostenitori pro-Trump del 12 Dicembre, giorno successivo alla decisione della Corte Suprema, la folla gridava allo slogan di “Destroy the G.O.P.” (“A morte il Grand Old Party”, leggi: il Partito Repubblicano), incalzata da Nick Fuentes, un oppositore di estrema destra all’immigrazione.

Gary Jacobson, professore emerito all’Università della California – San Diego, mi ha detto personalmente che la sommossa di estrema destra attualmente in corso è estremamente pericolosa se “il mito secondo il quale il risultato delle elezioni è stato un furto a Trump continua a persistere con la diffusione attuale tra la popolazione Repubblicana comune, e ad essere sostenuto anche dai Repubblicani in carica al Congresso”.

“Il Settarismo – prosegue Jacobson in una email – è grado di auto-alimentarsi. L’estremismo che lo contraddistingue viene oltremodo rafforzato dallo scenario mediatico fatto di emittenti ideologicamente frammentate. Riflette anche differenze reali nelle concezioni, valori e credenze riguardanti ciò che l’America essenzialmente sia o debba essere. Le spaccature di natura etnica, quelle basate sui luoghi di residenza, come quelle determinate dall’istruzione, dalle religioni, dall’occupazione o dal tipo di comunità di appartenenza portano oggi le persone a schierarsi più facilmente con una parte in gioco contro le altre, una condizione che alimenta conflitti culturali e degenera in faziosità politiche divisive.”

A peggiorare il quadro – sostiene Jacobson – c’è il fatto che “le lamentele espresse da entrambe le parti si fondano su basi concrete, quali ad esempio la regressione economica e sociale di molte piccole città e comunità rurali, che preoccupa soprattutto i sostenitori di Trump, o pratiche ricorrenti di razzismo che tormentano le minoranze che votano per i Democratici. Non siamo tuttavia in presenza di una simmetria precisa, in questo caso. Ad esempio, quegli appartenenti alla comunità bianche che ritengono di subire maggiori discriminazioni o di avere meno opportunità dei neri sono, per un motivo o per l’altro, ignari di una parte della realtà.”

Eli Finkel, professore di Psicologia Sociale alla Northwestern University e primo autore dello studio sul Settarismo Politico di cui a questo articolo, sosteneva in una sua email che non sarebbe particolarmente preoccupato “purché gli sforzi di Trump fossero considerati indipendenti dal resto”, e perché i suoi tentativi di sovvertire il risultato elettorale si sono fino ad oggi “dimostrati come una grande prova di stress senza precedenti cui il nostro sistema elettorale ha retto bene.”

Se in ogni caso “consideriamo il sostegno che gli sforzi di Trump hanno ricevuto dalle dirigenze e dai membri ordinari del partito Repubblicano, allora sono seriamente preoccupato. – prosegue Finkel – La storia politicamente più importante che ha contraddistinto l’era-Trump, non è stata tanto il suo sfacciato rispondere solo a se stesso per ogni sua azione, quanto l’indiscussa fedeltà dimostrata dai Repubblicani lungo tutto il corso di questa stagione politica, ivi compresa la loro evidente volontà di intaccare quanto dichiarato in quella stessa carta fondativa che sostengono di ritenere sacrosanta.”

Il Settarismo Politico, conclude Finkel, “ha raggiunto oggi un livello tale da agire probabilmente come la minaccia più grave al nostro sistema politico dai tempi della Guerra Civile, e per quanto gli accademici stiano ancora dibattendo su quali dei due schieramenti politici abbiano le colpe maggiori in questo, le tendenze antidemocratiche si stanno rafforzando in entrambi i partiti. Se non ci sforziamo di elaborare un processo di controllo su questo settarismo politico, allora temo per il futuro della nostra repubblica.”

Alcune delle personalità da me contattate individuano in alcuni cambiamenti dei mass media un ruolo altrettanto cruciale nel degenerare del settarismo.

Shanto Iyengar, ricercatore in Scienze Politiche alla Stanford University, nonché altra firma del saggio qui discusso, mi ha scritto via email:

“Ci terrei a mettere in evidenza le principali trasformazioni che hanno interessato i mass media americani negli ultimi 50 anni. Sostanzialmente, ci si è spostati da alcune iniziali “consuetudini dell’informazioni” grazie alle quali tutti gli Americani qualunque fossero il loro orientamento politico e percorso di vita, potevano attingere ad un’approfondita copertura delle notizie realizzata da giornalisti ad agenzie stampa il cui prestigio era generalmente riconosciuto da tutti. Oggi si fa sempre più ricorso ad un’esposizione più frammentata delle informazioni di cronaca, tratte da una vasta gamma di fonti che non sempre si curano di rispettare le norme e gli standard di un giornalismo che ricerca i fatti crudi. L’accresciuta disponibilità di notizie riportate in modo tendenzioso, unite a più forti motivazioni a concentrarsi su informazioni che facciano apparire deplorevoli gli avversari ha portato a gravi carenze addirittura nella possibilità di pervenire ad un consenso in merito a fatti concreti.

In una ricerca condotta assieme a Erik Peterson, ricercatore in Scienze Politiche della A&M University del Texas, Iyengar mette in rilievo come “le divisioni partigiane relative alle credenze sui fatti sono anche espressione di genuine scelte autonome; non consistono cioè in semplici risposte inesatte a domande fattuali, espresse con l’intenzione di allinearsi ai desiderata di un partito.”

Nel caso specifico delle visioni espresse sul tema del Covid-19, Iyengar e Peterson hanno riscontrato che, sebbene “le credenze in fatto di norme igieniche da rispettare possano fare la differenza tra la vita e la morte, la disinformazione in fatto di pandemia è molto diffusa tra i Repubblicani, e non si riesce a modificare neanche con la possibilità di avere incentivi finanziari con l’aderire alle risposte corrette.”

Cynthia Shih-Chia Wang, professoressa di Management e Organizzazione presso la Kellogg School of Management di Northwestern, nonché coautrice del saggio qui discusso, condivide la preoccupazione di Iyengar relativa a fonti di informazioni condizionate a livello ideologico.

“I media apportano un contributo notevole al settarismo politico – scrive la Wang via email, spiegando anche come la ricerca da lei condotta insieme ad altri studiosi evidenzi che “la consultazione di canali tematici dai particolari indirizzi ideologici ha prodotto una più diffusa credenza in teorie complottiste, perché queste ricevevano in qualche modo il sostegno di quegli stessi media.”

Secondo la visione della Wang, il rifiuto da parte di Trump di riconoscere la propria sconfitta, “è pericoloso per via della consistenza di quella elite – fatta da 18 Procuratori Generali e 128 membri della Camera – che stanno gettando i semi del dubbio di condotte contrarie all’etica durante le elezioni”, con il risultato che

“il sistema è sottoposto ad un’enorme pressione da parte di un presidente che si rifiuta di riconoscere un risultato applicando la mentalità del <<noi contro voi>>, cosa che porta a molteplici stalli nell’attività del Congresso, e questo mentre imperversano ondate di rabbia, indotte specialmente dai dubbi che sono stati alimentati e che minano la credibilità del sistema Americano.”

Per il momento, scrive la Wang, “Il sistema governativo sembra in grado di reggere l’attuale livello di pressione mai visto prima, e il fatto che una Corte Suprema orientata verso il conservatorismo abbia rigettato le istanze di accusa alimenta un cauto ottimismo.

Peter Ditto, professore di Scienze Psicologiche presso l’Università di Irvine in California, anch’egli coautore del saggio, ha discusso in una email la possibilità che l’elemento più tossico della politica contemporanea sia “il moralismo. La nostra cultura politica si è impegnata molto in ciò che entrambi gli schieramenti considerano una battaglia esistenziale del bene (noi) contro il male (voi) e, in un tale ambiente, si può arrivare a credere a qualsiasi bugia e a giustificare qualsiasi trasgressione alla legge, purché possa favorire la propria parte.”

Lo scenario politico, prosegue Ditto, “si è metastatizzato in qualcosa di molto simile ad una guerra di religione, una guerra tra due sette in un nuovo scontro <<religioso>> esteso a tutta l’America, nella quale ciascuna fazione è animata da una propria visione morale, credendo fermamente che si debba difendere fino alla morte l’originale visione dei Padri Fondatori, contro gli <<eretici>> che vogliono corromperla.”

La decisione di coniare il termine di Settarismo Politico “è stata il nostro tentativo di tratteggiare con precisione il fervore moralista dell’attuale clima politico e il danno collaterale che ne consegue.”

Diana Mutz, studiosa di Scienze Politiche presso l’Università della Pennsylvania, ha scritto ricordando che, a partire dal 1996, ha voluto condurre un sondaggio di opinione a seguito di ogni elezione chiedendo agli intervistati quali fossero secondo loro i motivi della vittoria del neoeletto. Riscontrò così come, negli anni passati, i sostenitori della parte perdente professavano l’ingiustizia della vittoria dell’avversario per una serie di argomentazioni quali: “Ha mentito agli elettori, durante la sua campagna”, oppure “disponeva di maggiori risorse finanziarie in quanto sostenuto da lobbies particolari”, o ancora: “Lo stato ha modificato le leggi elettorali concedendo il voto anche a chi non ne aveva diritto”; “c’è stato l’appoggio da parte della Russia”, “hanno ostacolato l’affluenza”; “la stampa è stata faziosa”, “è stato ingiustamente ritenuto colpevole di ……..”, “alcune persone hanno votato due volte”, etc.

La novità delle elezioni di quest’anno è stata il riversare il sentimento di livore per un traguardo mancato fino all’indirizzo della Corte Suprema. Steven Pinker, professore di psicologia ad Harvard, ha dato una risposta molto articolata alle mie domande:

“Ci sono due ragioni principali per cui gli esseri umani credono a qualcosa: la prima consiste in presupposti tangibili a sostegno della verità in cui credono, e la seconda è credere in un mito perché questo rafforza la coesione e la determinazione della comunità cui si appartiene.” Scrive Pinker:

“Qualsiasi amico di convenienza può dire ovvietà innocue come che le rocce rotolano verso il basso, ma solo un fratello di sangue accetta di sostenere che le rocce rotolano verso l’alto. In genere, però, la realtà pone dei limiti alla portata delle conseguenze dei miti in cui crediamo. Il fenomeno straordinario associato al momento che stiamo vivendo risiede nella portata delle teorie sostenute dalla maggior parte dei repubblicani, e di quanto esse siano sconnesse dalla realtà. Ciò con l’unico obiettivo di rafforzare i legami settari e di <<scomunicare>> gli infedeli.

La domanda chiave, per quanto destinata a non trovare risposta certa, afferma Pinker, è:

“Con che forza la realtà tornerà a prevalere una volta che il potere e la retorica da pulpito di Trump si ridimensioneranno? Sicuramente assisteremo alla sopravvivenza di molti <<guerrieri delle cause perse>>, del tipo di quei combattenti Giapponesi che dopo il 1945 rimanevano in assetto di guerra nascosti in anfratti; sarebbe bello che queste persone fossero messe ai margini dalla stessa assurdità delle loro teorie.

Goldstone e Turching sostengono che Trump sia il sintomo e non la causa della crisi attraversata dal sistema politico americano. Va comunque ricordato che la fedeltà ad un mito può perdurare a lungo in una rete chiusa quando la credenza in essi viene rinforzata con punizioni. Quindi, può anche darsi che certi negazionisti conservatori legati al primo G.O.P. permarranno ancora per un po’ sulla scena. Trump sta facendo tutto ciò che gli è possibile per conservare la forza del suo mito e ha già dimostrato più volte una buona capacità di evitare la marginalizzazione. Una domanda a cui solo con il passare del tempo si potrà rispondere si chiede se e per quanto tempo Trump continuerà ad avere la prerogativa di gettare il simbolico fiammifero nella polveriera esplosiva. Stiamo forse vivendo una situazione politica, economica e culturale così tesa che una qualsiasi scintilla può farla esplodere, indipendentemente da quale partito politico sia al potere?”

America, abbiamo un problema”, The New York Times, 18/12/2020

Traduzione italiana di Andrea De Casa dell’articolo “America, we have a problem”, di Thomas B. Etsal, giornalista di Washington D.C. che contribuisce con editoriali settimanali su analisi politica, fenomeni demografici e ingiustizie sociali.