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L'economia dell'ignoto

La crisi pandemica rappresenta davvero un balzo verso l’ignoto. Sono tanti infatti gli elementi nuovi che porta con sé e che risultano per molti versi sconosciuti alla nostra storia, in particolare a quella recente, in cui non si sono registrati fenomeni di paralisi così totale. Non hanno registrato paralisi produttive e sociali di questa portata neppure i conflitti, durante i quali, anzi, non di rado le produzioni e soprattutto la produttività sono cresciute in maniera sensibile. Anche le relazioni sociali, proprio durante i conflitti, si sono intensificate, hanno determinato maggiori “assembramenti” di persone, spesso drammatici, dagli sfollamenti, ai rifugi antiaerei, ai campi di concentramento, che hanno operato però nella direzione di un rafforzamento del senso di appartenenza e di comunità, messo a dura prova, ora, da un certo meno doloroso, ma sicuramente straniante distanziamento sociale.

Un sistema produttivo e sociale costruito sulla diffidenza che proprio il distanziamento sociale vuole rendere asettica e “sanitarizzare”, distinguendola inevitabilmente da un’idea più familiare, e partecipata in termini affettivi, di “distanza”, risulta una assoluta novità certo difficile da far funzionare come dimostrano alcuni dati evidenti. Il primo è costituito da una brutale distruzione di reddito. La paralisi comporta un abbattimento del Pil italiano nel corso di un anno di dieci punti percentuali, una caduta, peraltro stimata in difetto, ben più verticale di quella successiva alla crisi del 2008. Si tratta del venir meno di quasi 200 miliardi di reddito in pochi mesi che determina pesantissimi effetti sulla capacità di acquisto degli italiani e, più in generale, sulla tenuta sociale; solo per ricorrere ad un confronto con la già ricordata crisi del 2008, la distruzione di reddito non arrivò a 100 miliardi nel giro di due anni. In altre parole, L’attuale crisi è profondamente diversa da quelle che l’hanno preceduta. In particolare quella del 2008 è stata una crisi di isteria finanziaria, preparata dai lunghi e ruggenti anni Novanta, quando si erano affermate pratiche illusionistiche secondo cui era possibile cancellare il rischio per effetto di sempre più azzardate ingegnerie finanziarie, in grado di creare valore per tutti. I mutui subprime dovevano dare la casa a chiunque la desiderasse procedendo alla distribuzione del rischio, “cartolarizzandolo”, mettendolo in capo al maggior numero di soggetti possibili. Tanti piccoli rischi erano meglio di un solo grande rischio; ma i piccoli rischi sono diventati troppi, pesanti per le spalle fragili di chi li assumeva e sono risultati rapidamente tossici. Partendo dalla finanza, che aveva raggiunto ormai confini decisamente estesi, la crisi ha contagiato l’economia reale fino a paralizzare i sistemi produttivi. Occorreva quindi rimuovere il virus finanziario attraverso l’acquisto pubblico dei titoli tossici; in altre parole si è affrontata la crisi trasformando il debito privato, in primis quello bancario dove i titoli tossici si erano concentrati, in debito pubblico.


Ora la crisi parte dalla pandemia ed è decisamente anomala. Non dipende dalla sovrapproduzione, né dall’ingegneria finanziaria, ma dalla paralisi delle persone, dalla necessità, quasi primordiale, del loro isolamento. In questo senso, è ancora più radicale perché colpisce il cuore stesso della nozione di economia e di società con cui abbiamo avuto a che fare almeno negli ultimi due secoli e si basa sulla indispensabilità delle persone nella loro qualità di manodopera e di consumatrici. La crisi economica nata dalla pandemia determina una significativa riduzione delle prerogative delle persone, dei loro spostamenti, dell’utilizzo delle loro capacità, della loro possibilità di produrre reddito.

Questa crisi non è, quantomeno nel breve periodo, superabile quindi con l'”aggiustamento” dei meccanismi di malfunzionamento economico che siano, come in passato, riconducibili alla cattiva distribuzione dei redditi e della ricchezza, o alla egemonia della finanziarizzazione. Questa crisi impone di trovare una soluzione che accetti una minore capacità di generare reddito e ricchezza da parte delle persone e pertanto dovrebbe indurre a una nuova “convenzione sociale” destinata a sostituire una simile mutilazione, almeno fino a quando la scienza non avrà trovato una risposta e fino a quando la dimensione fisica della produzione di valore non sarà diventata meno decisiva. È la crisi di un organismo fiaccato nella sua componente vitale e dalla quale non si può uscire con ricette che non gli diano il tempo adeguato di convalescenza e le terapie di ausilio necessarie.

Per far fronte ad una caduta siffatta, il nostro paese ha conosciuto un forte incremento della spesa pubblica. Sono stati circa 7 milioni i lavoratori in quella che potremmo definire "Cassa Covid", l'insieme delle forme di ammortizzatori sociali rivolti a soggetti bloccati dall'epidemia, a cui si aggiungono i bonus, il reddito di emergenza diretto a un milione di nuclei familiari, e il perdurante reddito di cittadinanza. Permangono anche le agevolazioni fiscali a vaste categorie di popolazione che possono essere considerate strumenti indiretti di sussidio e il complesso delle voci assistenziali, già strutturalmente assai gravose per il bilancio dello Stato. Nel giro di un mese e mezzo, nella primavera 2020, il governo ha impegnato, e solo in parte liquidato, una somma pari ad almeno 3 volte le ultime leggi di bilancio, se si tiene conto del fatto che in tali leggi, tolte le clausole di salvaguardia, restavano 6-7 miliardi di euro. Si tratta di una spesa complessiva che viene inserita nell'esercizio finanziario 2020 ma che, è probabile, debba restare in buona parte a regime almeno per un biennio; una spesa che è indispensabile per la tenuta sociale del paese. A ciò si deve sommare la partita delle garanzie per i prestiti alle imprese, che ha incontrato varie difficoltà per alcuni ritardi del sistema bancario e per la natura stessa del nostro tessuto economico, caratterizzato da un capitalismo molecolare a cui, spesso, non bastano neppure garanzie altissime, peraltro in larga parte ancora da iscrivere nel bilancio dello Stato, e sottoposte ad una normativa ancora molto asfissiante. E' possibile quindi che, questo sistema di garanzie debba essere ripensato e integrato da forme più agevoli e dirette di sostegno a fondo perduto, sull'esempio di altri paesi, per evitare il tracollo di interi settori. Esiste inoltre un grande rischio per le banche italiane. Le richieste di moratoria sui prestiti ammontano a oltre 300 miliardi di euro, a partire da febbraio del 2020, mentre il Fondo centrale di garanzia delle piccole e medie imprese stima che siano stati quasi 80 i miliardi di euro concessi in crediti dotati di garanzia, dei quali poco meno di 20 miliardi interamente coperti da garanzia statale. La caduta precipitosa del Pil italiano fa concretamente supporre che almeno 100 miliardi di euro di tali prestiti avranno difficoltà enormi di pagamento, trasferendo le loro sofferenze nei bilanci degli istituti di credito italiani e piegando prima di tutto quelli più piccoli. Le regole europee, purtroppo, non aiutano affatto in tal senso perché hanno conosciuto, negli anni, vari inasprimenti, riducendo i tempi degli accantonamenti e accrescendone le dimensioni. Peraltro, dal gennaio 2021 è prevista la modifica della definizione di default, per cui sarà sufficiente nel caso di privati e microimprese il mancato pagamento dell’1% del debito perché scatti l’insolvenza mentre per le imprese la soglia sale al 5%. È evidente che la gravità della crisi, legata all’epidemia, dovrebbe indurre la Commissione europea a rivedere subito tali vincoli, che finirebbero per rendere inutile persino la politica monetaria della Bce e determinerebbero un’ancora più marcata concentrazione del sistema bancario in pochissime mani. Occorre anche che lo Stato si attrezzi per far fronte ad un’eventuale, probabile, esplosione di insolvenze bancarie magari pensando a strumenti analoghi a quelli con cui gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi del 2008. La forza dell’euro consente di farlo.

Nel frattempo si sta erodendo la base fiscale per la drastica riduzione delle capacità di pagamento di una parte rilevante dei contribuenti e anche gli enti locali, scontando in larga misura simili difficoltà, perderanno gettito e avranno bisogno di aiuto per non fallire. Affrontare il tema fiscale in piena epidemia è davvero molto complicato perché è quasi impossibile capire quale sarà la base imponibile reale di cui si potrà disporre per applicare il prelievo; una condizione che aggrava una situazione già critica. Si tratta infatti di una questione che si inserisce in un fenomeno più generale. Esiste un evidente limite nei sistemi fiscali attuali costituito dal fatto che non riescono a esercitare la loro azione su una componente importante delle vere fonti di produzione della ricchezza. Ciò dipende in gran parte da un dato storico con cui bisogna fare i conti. Semplificando, è possibile individuare un percorso di formazione dei sistemi fiscali che si è sviluppato da metà Ottocento e che si è basato sul prelievo sui beni, sui redditi e sui consumi a cui si è aggiunto quello sulle rendite finanziarie, decisamente più basso degli altri perché, almeno in parte, era necessario incoraggiare l’acquisto dei titoli dei nascenti debiti pubblici. Questa costruzione era motivata dall’idea che il prelievo dovesse essere operato laddove avveniva la produzione del reddito e della ricchezza, composti quasi esclusivamente da beni materiali e da consumi materiali, in larghissima misura prodotti e generati all’interno dei confini dei singoli Stati. Le economie del capitalismo maturo erano, fino agli anni Ottanta del Novecento, fondate infatti su una dimensione fisica, materiale, appunto, e chiusa nei confini nazionali. Il sistema fiscale italiano si è così sostanziato nell’Irpef e nell’Iva, in imposte dirette e indirette, mentre l’imposizione locale si è basata sui patrimoni immobiliari, dall’Ici all’Imu. Anche le procedure di tassazione internazionale furono concepite a partire dagli anni trenta del Novecento con l’obiettivo di ripartire il potere impositivo sulle catene del valore della produzione tra i singoli Stati, avendo cura di evitare le doppie imposizioni. In altre parole si tentava di far pagare le tasse ai pochi grandi gruppi mondiali in base ai principi della “stabile organizzazione” che avevano nei vari Paesi e sui cosiddetti “prezzi di trasferimento” delle loro merci, in una dinamica dove, ancora una volta, risultava dominante la già ricordata dimensione materiale. In altre parole, i sistemi fiscali erano pensati per un mondo di merci e beni reali.

Questi sistemi oggi presentano palesi lacune. In primo luogo, ormai da qualche decennio, la finanziarizzazione ha spostato la generazione di reddito e ricchezza dall’economia materiale a quella finanziaria, che ha assunto sempre più caratteri autoreferenti rispetto ai processi produttivi e negli ultimi tempi, dopo la crisi del 2008, è risultata quasi del tutto dipendente dalle politiche di liquidità “facile” praticate dalle Banche centrali. Si è modificata, in tal senso, la nozione di rischio perché proprio le inondazioni gratuite di risorse liquide messe a disposizione dei mercati da parte delle banche centrali hanno reso gli impieghi finanziari assai meno pericolosi e dunque hanno tolto ogni giustificazione al mantenimento di bassi livelli di pressione fiscale sulle rendite finanziarie. Se la finanza è il settore che produce senza grandi rischi grossi volumi di ricchezza, peraltro con una pessima distribuzione, diventa indispensabile aumentare lì il carico fiscale per evitare che i sistemi di prelievo continuino a gravare su redditi da lavoro dipendente, sul lavoro e sui consumi in quanto tali. Ma c’è un’altra trasformazione nell’economia planetaria che rende necessaria una radicale revisione dei sistemi fiscali pensati per le economie materiali. È sempre più ampia la porzione di reddito e di ricchezza prodotta dai grandi gruppi digitali, dall’e-commerce e da altre forme di economia che non hanno bisogno di beni materiali per produrre e non producono beni o servizi materiali, oggetto di consumi. Queste realtà non sono quindi sottoponibili ai sistemi fiscali tradizionali ma, al contempo, sono dotate di una altissima redditività, con profitti stellari destinati a rimanere fuori da qualsiasi capacità di prelievo che sia stata concepita per colpire immobili, scorte o altri aspetti delle produzioni tradizionali, e sia stata pensata su base nazionale.

Le risorse dei nuovi colossi sono costituite da flussi di informazioni, da immagini, suoni, parole, sussidi di varia natura che attraversano Paesi e demoliscono confini in un processo velocissimo rispetto al quale qualsiasi rivendicazione di sovranità appare debolissima, quasi inerme. La produzione della ricchezza sta spostandosi sui mercati finanziari e sulle reti e i sistemi fiscali continuano a colpire beni e consumi fisici, con l’effetto di determinare una pressione gigantesca, e spesso insostenibile, sulla parte delle società contemporanee, a iniziare dai lavoratori dipendenti, che stanno invece impoverendosi.

C’è poi un ulteriore dato rappresentato dal crollo del prezzo di quasi tutti i beni "rifugio", con la sola eccezione dell’oro: si è azzerata di fatto l'inflazione e, per la prima volta nella storia, ad aprile e a maggio 2020, il petrolio, il Wti in particolare, è entrato in territorio negativo, con il paradosso che i venditori sono stati disponibili a pagare 37 dollari al barile ai compratori. Stiamo vivendo, in altre parole, in un mondo ignoto in cui i prezzi, fatte salve poche eccezioni, si sono congelati e l’inflazione ha smesso di svolgere la propria funzione economica nel fornire una prospettiva agli investimenti e nel rendere meno pesante il debito. Al tempo stesso però la fine dell’inflazione ha reso decisamente meno pericolosa la svalutazione monetaria, soprattutto per le divise forti. La crisi pandemica, dunque, apre scenari nuovi e decisamente complessi che devono essere affrontanti con una visione inevitabilmente originale. Oggi il definirsi del rapporto debito-Pil al di sopra del 160% sta avvenendo in una condizione di inflazione inesistente e, dunque, è molto pesante ma è stato reso sostenibile dalla denominazione dello stesso debito in euro e dagli acquisti guidati dalla Bce, che azzerando i tassi mette in ginocchio le banche, prive di margini, e, al contempo, imbottite di buoni del Tesoro. In questo senso è possibile una prima considerazione: la sostenibilità e il rientro da un debito colossale, con un sistema bancario in sofferenza, non sono praticabili, quantomeno nel caso italiano, con le sole politiche nazionali e il ricorso al binomio svalutazione-inflazione ha già dimostrato storicamente tutti i suoi limiti proprio quando è servito a rendere meno insostenibile il debito. Se è crollata la produzione di reddito, se gli strumenti fiscali sono difficilmente utilizzabili senza una riforma profonda e se la spesa pubblica lievita, dove si trovano la risorse per provare ad uscire da una simile situazione?

Il vero nodo della discussione di questi mesi sul Recovery Fund e sugli altri strumenti europei è costituito proprio dal tema delle risorse. E’ sembrato davvero difficile pensare che potesse essere finanziato con un sensibile incremento del bilancio comunitario, a partire dal 2021, perché rintracciare le garanzie di 2000 miliardi di euro dai contributi dei singoli Stati risulterebbe molto complicato. Solo la Germania sarebbe forse nelle condizioni di sostenere una quota decisamente più pesante, magari coprendola con l'emissione di propri titoli; per molti altri, a cominciare dall'Italia, sarebbero necessarie una maggiore, e come detto impraticabile, pressione fiscale o una drastica, altrettanto impensabile, riduzione delle spese. D'altra parte, lo stesso collocamento dei bond del Recovery Fund non è così scontato, dal momento che dovrebbero trovare compratori tra banche, investitori istituzionali e risparmiatori in una fase estremamente critica, alterando di fatto il mercato dei titoli “nazionali”. E’ sufficiente citare qui la maggiore concorrenza che già i titoli di Stato di altre economie più forti faranno a quelli italiani: nel 2020 infatti il debito spagnolo ha raggiunto il 115% del Pil, quello francese il 116, e la media Ue ha superato il 102%. Dunque ci saranno tanti competitor per l’enorme debito italiano che, nel frattempo, ha allargato le proprie distanze dagli altri debiti di oltre 10-15 percentuali in pochissimi mesi: aggiungere alle concorrenze nazionali quella dei Recovery bond creerà qualche problematicità. E' chiaro quindi che la soluzione passa quasi unicamente attraverso la Bce, che dovrà dimostrare la piena disponibilità ad acquistare i titoli dei vari paesi qualora rimanessero invenduti, contribuendo così ad abbatterne il costo: non si tratta di mutualizzare il debito ma di adoperare l'euro in maniera condivisa per finanziarlo, che abbia i caratteri del Recovery Fund o quelli di altri strumenti. La stessa Bce dovrebbe, poi, continuare ad accettare in garanzia i titoli dei debiti pubblici nazionali anche se le agenzie di rating dovessero, come sembra, declassarli per evitare il collasso dei sistemi creditizi, imbottiti di tali titoli.

I parametri di Maastricht sono infatti ormai decisamente datati e il debito, in un mondo senza reddito e senza inflazione, non può essere “giudicato” con gli occhi del passato. Non possono essere citati i richiami all’iperinflazione dettata dalla svalutazione del marco avvenuta nella Repubblica di Weimar. Non possono essere richiamati gli esempi dell’iperinflazione che ha colpito dagli anni Ottanta molti paesi latinoamericani; si trattava di realtà con monete fragilissime, strangolate da un’insostenibile dollarizzazione. Non può essere citata neppure l’iperinflazione dell’Europa degli anni Settanta, travolta dagli shock petroliferi, da un dollaro imperante e dalla presenza di troppe monete nazionali angustiate dalla stagnazione. Oggi abbiamo l’euro, moneta utilizzata da oltre 300 milioni di persone e già nel paniere di riserva di molte realtà mondiali, che non ha paragoni, appunto, nel passato. È una moneta forte che ha di fronte solo il dollaro, prodotto a profusione, in pratica senza limiti dagli Stati Uniti, e dunque intrinsecamente più debole perché già in eccesso e perché moneta di un Paese costretto ad affrontare l’emergenza epidemica senza un sistema sanitario pubblico. E’ probabile che presto si esaurisca anche l’idea che il biglietto verde sia “un bene rifugio” mentre la partita delle criptovalute è ancora relativamente lontana. Quindi, l’unica strada percorribile, ora, è mettere in circolazione tutti gli euro necessari a far ripartire la produzione di reddito senza condizioni perché tutti i pericoli eventuali di una simile scelta, dall’aumento del debito alla svalutazione, sono assai inferiori della crisi che è già arrivata.

Questo infatti è il pericolo reale per il nostro, come per molti altri Paesi europei e mondiali; se le regole rimangono quelle attuali è molto probabile che gli Stati falliscano prima ancora delle loro economie. È indispensabile quindi che le regole cambino subito per evitare i fallimenti dei sistemi pubblici destinati ad avere conseguenze pesantissime sulle condizioni di vita delle popolazioni e sulla tenuta della democrazia. Prendere coscienza della necessità di cambiare le regole, europee in primis e poi globali, senza limitarsi a sospenderle, significa davvero combattere l’epidemia ed evitare che, prima ancora dei suoi effetti più drammatici, si scatenino le paure di popolazioni insicure e impoverite brutalmente.

E' necessario, in estrema sintesi, che la Bce monetizzi il debito, acquistando i titoli emessi dagli Stati, e procedendo a cancellare, o a non contabilizzare, almeno in parte i titoli legati all’emergenza, e che, al contempo, gli Stati emettano debito a lunghissima scadenza, o irredimibile, con un rendimento contenuto e con una fiscalità predefinita e non modificabile, per attrarre il risparmio esistente. In fondo in piena pandemia l’ asta di Btp italiani a dieci anni ha avuto una domanda per 110 miliardi di euro, 11 volte l’offerta. Il rendimento del 2% potrà essere abbassato senza troppe difficoltà se la Bce aumenterà la propria azione di fuoco e, probabilmente, anche solo annunciando una tale intenzione. La garanzia di tutto ciò proviene, ancora una volta, dalla attuale solidità dell'euro e dalla convinzione, che deve essere condivisa, dell'assenza di soluzione alternative. Non ci può essere spazio per condizionalità né per la ricerca di sistemi più o meno credibili di garanzie pubbliche da fornire alle banche perché eroghino credito. Sono finiti, in questa fase, gli strumenti di politica monetaria tradizionali, sono finite le regole di Basilea, non ci sono i margini temporali per le pur indispensabili politiche fiscali. Il debito monetizzato deve servire proprio a creare reddito e a frenare la colossale distruzione di valore in corso perché interi settori scompariranno per un periodo non breve e l'espulsione di manodopera sarà enorme, con costi sociali non accettabili. Come accennato, l'inflazione, in giro per il mondo, è stata a marzo 2020 estremamente bassa; pari all'1,5% negli Stati Uniti, all'1,6 in Gran Bretagna, allo 0,75% nell'eurozona e allo 0,1 in Italia; persino in Cina è rimasta ferma al 4%. Le previsioni per i mesi prossimi registrano un'ulteriore discesa, dettata in primis dalla caduta dei consumi e della produzione. Soprattutto in Europa l'inflazione sembra destinata ad avvicinarsi allo zero, un dato assolutamente inedito nella storia recente e non modificabile in maniera significativa dalla lentissima ripresa. Si tratta di un indicatore assai negativo non solo perché registra la profondità della crisi in atto ma anche perché, in assenza di inflazione, i debiti non si alleggeriscono e le prospettive di investimento sono ancora meno allettanti. Il fatto poi che nel caso europeo l'inflazione risulti la metà di quella americana, sia pur con il dato tedesco in linea con quello degli USA, significa che l'euro garantisce una significativa protezione e che, al contempo, le criticità economiche del Vecchio Continente sono più pesanti.

Dunque, in una condizione simile lo spazio per monetizzare il debito, per un aumento dei salari e per una robusta serie di incentivi a fondo perduto all'universo delle imprese appare assai ampio, consentendo a queste ultime di recuperare un mercato. La BCE ha avviato un piano di acquisto di debito per 1000 miliardi di euro e l'inflazione non si è mossa, né tanto meno si è mosso il cambio con il dollaro che anzi si è rafforzato, anche perché la pandemia è esplosa, soprattutto, negli Stati Uniti. Nulla pare vietare, allora, di portare quel piano a 2000-3000 miliardi di euro per far ripartire la produzione di reddito e, magari, per stimolare un po' di inflazione che non farebbe affatto male.


Intervento del prof. Alessandro Volpi al webinar del 19/03/2021 organizzato da AAdP: "La situazione economica e politica all'inizio del terzo millennio - il nuovo quadro economico e sociale dopo la pandemia"