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Bisogna smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte!

La tragedia avvenuta al largo delle coste calabresi ci dice che quella barca che dovrebbe farci sentire con-sorti, accomunati da una simile sorte, resta per ora una speranza: il mondo continua a essere diviso in transatlantici e zattere, benestanti e disperati, stanziali e migranti per forza. Sì, perché bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte!

Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balia degli eventi atmosferici. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico intrinsecamente violento, sistema che colonizza, sfrutta e impoverisce vaste regioni del mondo.

Lo fa perché l’Occidente globalizzato, in nome dell’idolo profitto, gli fa terra bruciata attorno offrendogli in alternativa sfruttamento, se non schiavitù. Ed ecco la silenziosa carneficina che si sta consumando da almeno trent’anni sotto gli occhi di un ricco Occidente che finge di non vedere e che, quando non può farlo perché le dimensioni della tragedia lo impedisce, si palleggia responsabilità per poi tornare, passato il clamore, alla sola attività che sembra davvero interessarlo: il conflitto per la gestione del potere.

Gestione dalla quale sono derivate distinzioni ipocrite, disoneste, come quella tra «profugo» e «migrante economico» – come se la ferita economica e quella bellica avessero una diversa radice – o espressioni disumane come «carico residuale», dove l’essere umano è equiparato una volta per tutte a merce, a valore di scambio.

Per fermare le deportazioni indotte chiamate «migrazioni» non basta allora stabilire accordi economici con Paesi di provenienza, il più delle volte complici o addirittura agenti della logica di sfruttamento occidentale. Occorre ripartire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani, occorre ripartire dal valore inviolabile della persona, dal suo diritto a una vita dignitosa, libera e anche liberamente nomade: nomadismo del sentirsi ovunque a casa su una Terra dove abbiamo davvero imparato tutti a sentirci e ad agire come passeggeri di un’unica barca che procede verso il bene comune, a cominciare da quello di chi, ancora naufrago, chiede di essere riconosciuto e accolto come persona.

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Fonte: Gruppo Abele

Segnalato da: Anronella Cappè, Portavoce Accademia Apuana della Pace