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Iraq: cosa cambierà il SOFA - Status of Forces Agreement

                          Comunicato Stampa di "Un ponte per ..."

Il presidente uscente degli Stati Uniti ha annunciato la firma dello “Status of Forces Agreement” (Accordo sullo status delle forze [Usa]), il primo ministro iracheno, Al Maliki, ha fatto lo stesso per l’”Accordo sul ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq”.
Una riflesso condizionato porta a chiedersi subito chi ha vinto e chi ha perso: è il Governo statunitense che si è assicurato altri tre anni di permanenza delle proprie truppe in Iraq o il Governo iracheno che ha ottenuto la fissazione di una data limite per l’uscita di tutti i soldati? I partiti sciiti filoamericani o i partiti sunniti che hanno ottenuto di sottoporre l’accordo a referendum ed altre condizioni?

Vogliamo invece chiederci innanzitutto: cosa significa questo per la vita ed il futuro di 24 milioni di iracheni e irachene. E’ un passo verso la pace, la sovranità ed il ritorno ad una vita normale o apre nuove prospettive di scontro interno, nuova violenza, nuova insicurezza?

Non è facile rispondere a questa, fondamentale, domanda. La risposta più ovvia è: dipende.
Non è automatico che l’ uscita dei soldati statunitensi da tutte le città, prevista entro il 30 giugno del prossimo anno, porti ad una normalizzazione della vita e a maggiore sicurezza per le persone. Dipende se, dopo la pulizia etnico-religiosa che la lotta per il potere ha causato in tutto il paese, si avvierà un processo di riconciliazione. Dipende se la criminalità dilagante potrà essere frenata. Dipende se i paesi confinanti faranno un passo indietro astenendosi dall’intervenire
Non è automatico che il passaggio sotto la giurisdizione irachena dei 16.000 prigionieri detenuti illegalmente dagli Usa porti al loro rilascio e/o ad un miglioramento delle loro condizioni.
Dipende se il Governo iracheno ne approfitterà per vendicarsi dei propri nemici o per includere nel processo politico altri attori. Dipende anche dall’ascolto che avranno le associazioni irachene per i diritti umani.
Non è automatico che la parziale sottrazione alla giurisdizione statunitense dei reati compiuti dai soldati statunitensi limiti, almeno, la impunità sinora goduta. Dipende.
Non è automatico che la maggiore, parziale, sovranità di cui gode il Governo iracheno porti ad un maggiore riconoscimento dei diritti umani e a maggiore libertà per le cittadine e i cittadini iracheni e ad una ripresa economica. Dipende.
Purtroppo molto dipende da un Governo iracheno screditato che  non ha saputo garantire i diritti basilari alla sua gente, da una comunità internazionale che ha assistito quasi muta ad una guerra illegale e alla distruzione dell’Iraq, da partiti iracheni che hanno spesso messo la lotta per il potere tra di loro al di sopra degli interessi della popolazione, dalle milizie che hanno alimentato la guerra civile, dai paesi confinanti che hanno sostenuto la violenza.
Ma dipende anche da quanto la società civile irachena, impegnata per la pace, la sovranità e i diritti sarà messa in grado di influire sul corso delle cose, se sarà lasciata sola come è stata lasciata sola in questi anni o sarà sostenuta.
Dipende quindi anche da noi. Le iniziative di sostegno alla società civile irachena che Un ponte per… ha avviato in questi anni, e che continueranno nei prossimi - dalla formazione del “Justice Network for Prisoners”, rete per i diritti dei detenuti, alla formazione di “LaOnf” rete irachena per la nonviolenza, all’appoggio alle organizzazioni sindacali e di donne – possono ora essere viste in una nuova luce. Noi speriamo che siano utili per sostenere il necessario nuovo protagonismo della società in questo passaggio difficile.
Facciamo appello alla società civile globale perché rinnovi la propria solidarietà con le popolazioni irachene colpite dalla guerra moltiplicando gli sforzi a sostegno della lotta per la sovranità, i diritti, la democrazia di cui la società civile irachena è protagonista.

Su chi ha vinto e chi ha perso possiamo dire che nell’accordo non ci sono le basi militari permanenti che costituivano - insieme alla legge sul petrolio, anche essa non ancora approvata - i veri obiettivi strategici statunitensi in Iraq, ma anche che l’occupazione non è ancora finita, che il paese è in preda alla violenza, che la situazione umanitaria è gravissima,  che le violazioni dei diritti  umani, delle donne, di espressione e di libertà di stampa sono ancora gravi e diffusi.
Probabilmente nessuno ha vinto. Ma sino ad ora in Mesopotamia hanno perso tutto milioni di persone. 
Occorre che tutti facciamo la nostra parte perchè possano vincere loro.