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Tra mercati e informalità. Il bivio del Sudafrica

La realtà del Sudafrica è una delle più complesse dell'intero continente tanto da rappresentare una evidente anomalia rispetto al quadro africano. Da numerosi osservatori è inserito nella lista dei futuri paesi emergenti, quelli che si affiancheranno a Cina, India, Brasile e Russia. Molte proiezioni lo collocano, insieme a Messico, Indonesia e Turchia, ai primi posti nelle future graduatorie di incremento del Pil e non solo. Con una popolazione ormai vicina ai 50 milioni di abitanti,  dovrebbe registrare una crescita media annua dal 2010 al 2050 del 4,28%, un risultato decisamente significativo e in parte reso credibile dai dati più recenti; il Sudafrica, dopo essere cresciuto dal 1998 ad una media del 6% l'anno, sta attraversando la crisi mondiale con un aumento del Pil vicino al 2% nel 2009 e del 2,3% nel 2010, continuando a rappresentare da solo oltre il 40% della ricchezza di tutta l'Africa subsahariana. A suffragare queste aspettative intervengono poi alcuni elementi strutturali e alcune esperienze molto concrete. Gli elementi strutturali hanno a che fare con una popolazione estremamente giovane - il 50% ha meno di 25 anni , ma bisogna tener conto anche di un  tasso di mortalità infantile al 50% -  e con l'esistenza di una classe media in crescita, sia pur tra molte difficoltà, che porta con sé l'ampliamento di un mercato interno dove già oltre il 76% della popolazione possiede un cellulare, dove il 26% delle abitazioni ha la lavatrice e il 25% dei sudafricani possiede un'automobile. Inoltre, il Sudafrica detiene una gran quantità di materie prime sempre più richieste dai mercati internazionali, in primis da quello cinese e da quello europeo. In particolare l'Unione europea importa dal Sudafrica il 79,1% del cromo, il 25,2% della fluorite, il 4,7% del ferro, il 31,8% del manganese, il 78,7% del platino. In una fase come quella attuale in cui i prezzi di queste materie prime sono di nuovo letteralmente esplosi, è evidente che la bilancia commerciale e le riserve valutarie sudafricane hanno registrato un forte miglioramento. Grande successo continua a registrare sul mercato europeo, dove giunge attraverso la distribuzione inglese, il vino sudafricano ormai dotato di quotazioni di taglia internazionale. Peraltro, come accennato, proprio nel 2009 lo scambio commerciale con la Cina ha assunto dimensioni molto importanti, tanto da consentirle di scavalcare la Germania nel ruolo di primo partner del Sudafrica, in particolare in relazione all'acquisto di ferro e di carbone. Questi imponenti flussi di valuta estera hanno permesso già all'amministrazione Mbeki di introdurre una serie di vincoli creditizi che hanno protetto il sistema finanziario del paese dagli effetti della crisi ed hanno, al tempo stesso, rafforzato il rand a tal punto da ridurre, almeno in parte, la competitività delle produzioni sudafricane. La ricetta seguita dal 2006 in avanti è stata quella infatti di portare il tasso di sconto al 12% per evitare il deprezzamento della moneta nazionale, che in effetti nel 2008 aveva perso oltre il 40% del suo valore, e per attirare i capitali in grado di colmare il deficit con l'estero pari nello stesso anno al 7,4%. La stretta monetaria è stata, ora, attenuata da Zuma anche alla luce delle pressioni della Cosatu, la federazione sindacale di sinistra a più riprese critica nei confronti di Mbeki che aveva impedito il dissesto dei conti pubblici e un eccessivo indebolimento monetario senza evitare però il boom della disoccupazione oltre il 23% e un'inflazione al 12-13%. Al contempo Zuma, per lubrificare l'afflusso degli investimenti dall'estero, ha rimosso molti dei freni che il suo predecessore aveva posto nei rapporti commerciali con la Cina per la paura di una vera e propria colonizzazione. Le tappe più recenti della penetrazione cinese hanno visto il gruppo Jidong rilevare due colossi sudafricani del cemento come Continental e Wiphold, e soprattutto l'ingresso della Banca per lo Sviluppo di Pechino entrare in modo massiccio nel settore del commercio del platino. Il governo di Pretoria non ha esitato neppure ad iniettare una somma pari a 4,5 miliardi di euro per finanziare la costruzioni degli stadi del mondiale di calcio  con una chiara finalità prociclica, a cui si aggiunge un'altra decina di miliardi di investimenti in infrastrutture a partire dalla realizzazione della Gautrain, cioè della rete ferroviaria della regione del Gauteng.
Le esperienze concrete che alimentano la fiducia della crescita sudafricana sono riconducibili all'affermazione di alcuni gruppi assai promettenti e in grado di operare in più paesi. Si tratta di realtà già di notevoli dimensioni come Standard Bank group, Allied Electronics, Old Mutual, Steinhoff International, Vodacom, Aspen e Sappi. Queste due ultime società appaiono di particolare interesse; Aspen sta scalando posizioni nel settore farmaceutico con una crescita media di fatturato del 37% all'anno, specializzandosi nell'ambito dei farmaci generici che produce e vende in India, in Germania e in vari paesi del Sudamerica. Le cartiere Sappi hanno assunto nel giro di pochi anni una dimensione internazionale con acquisizioni negli Stati Uniti, in Finlandia, in Germania e in Svizzera che le consentono di realizzare all'estero quasi il 90% del proprio fatturato, vicino ai 5,5 miliardi di dollari. Ancora più importante è il peso relativo del Sudafrica nell'ambito della grande distribuzione mondiale; in questo settore figurano tre gruppi di notevoli proporzioni. Il primo è rappresentato dalla catena Shoprite, nata nel 1979, che già nel 2008 occupava il 130simo posto nella classifica mondiale con vendite per 6,6 miliardi di dollari, con una presenza capillare in ben 17 paesi dal Mozambico, alla Nigeria, alla Namibia, alla Repubblica Democratica del Congo, all'Uganda e all'Egitto, dove è stata costretta a chiudere per una serie di restrizioni normative in materia di retail, e con una crescita media nel periodo 2003-2008 del 17,4%. Accanto a Shoprite si è affermata la catena Pick n Pay, che dispone in Sudafrica di 775 punti vendita, occupa quasi 40 mila dipendenti ed è presente in sei paesi, compresa l'Australia. Fondata da Raymond Ackerman, ha un fatturato di circa 5,8 miliardi di dollari e dopo essere stata a lungo un luogo dell'integrazione razziale è stata oggetto negli ultimi anni di aspre polemiche per le condizioni imposte ai propri lavoratori e soprattutto delle evidenti diversità di trattamento salariale fra bianchi e neri, denunciate dai sindacalisti della Saccawu. Il terzo dei gruppi in questione è Massmart, presente in 13 paesi , con un fatturato poco inferiore ai 5 miliardi di dollari e con una crescita media nel periodo 2003-2008 del 15,8%; dalla sua nascita, avvenuta nel 1990, la strategia del gruppo è stata quella di procedere ad acquisizione di catene minori in vari paesi africani, radicandosi in particolare a Lusaka, dove ha acquisto la catena Game. E' naturale che le sorti di queste realtà dipenderanno dalle evoluzioni dei vari mercati interni africani, dallo sviluppo di una classe media composta di consumatori "nazionali", con gusti sostanzialmente omogenei, e quindi dal miglioramento del potere d'acquisto pro capite; in tal senso il Sudafrica sembra puntare più di altri ad un superamento delle economie informali africane, alla stabilizzazione monetaria e alla diffusione continentale di un modello low cost a cui abbinare contestualmente una pronunciata vocazione alle esportazioni di materie prime e semilavorati, rinunciando di fatto ad un'industrializzazione di vecchia matrice fordista. In tale direzione sta posizionando anche il suo mercato finanziario che tende a costruire percorsi specifici per l'entrata in Borsa di società africane orientate all'esportazione di materie prime e di commodities a cui fornire un supporto attraverso banche di notevoli dimensioni, alcune delle quali sono già partecipate da capitali cinesi; la Standard Bank ha ceduto il venti per cento del proprio pacchetto azionario alla Icbc, la Banca Industriale di Pechino, per 36 miliardi di dollari. Per la buona riuscita di un simile modello, oltre al reperimento di liquidità a breve e lungo termine e a condizioni di stabilizzazione politica, spesso purtroppo ben poco democratica, serve un netto salto di qualità nel sistema infrastrutturale che rappresenta oggi un grave deficit per l'intero continente. Manca un approvvigionamento continuo e consistente di energia, mancano le grandi arterie stradali; da Lusaka, in Zambia, a Durban ci sono 2500 chilometri, ma le merci impiegano ben 8 giorni, di cui 4 di viaggio e altri 4 per il disbrigo delle pratiche doganali di frontiera. Una simile situazione determina una velocità media per le merci africane di 12 chilometri l'ora, la più bassa al mondo. Si tratta di esigenze improcrastinabili anche perché da più parti si ventila la rapida riduzione di una delle entrate più importanti dell'economia sudafricana, quella dei diamanti, che dovrà quindi essere sostituita da altre risorse; sembra infatti che la produzione stia rapidamente scendendo - nel 2011 non arriverà a 40 milioni di carati contro i 50 del 2008 - e non si assiste alla scoperta di nuove miniere.
Queste ultime considerazioni introducono il quadro delle difficoltà e delle contraddizioni presenti nella realtà sudafricana che raffreddano molti degli entusiasmi in merito al futuro da "tigre" emergente. Il primo dato evidente è costituito dall'ancora forte sperequazione nella distribuzione della ricchezza, nonostante il ricordato processo di formazione di una classe media. Tuttora, il 4% della popolazione guadagna oltre 60 mila euro l'anno, che costituisce una retribuzione 100 volte maggiore di quella della stragrande maggioranza della popolazione. Inoltre un quarto dei sudafricani ha bisogno di un sussidio finanziario da parte del governo che grava pesantemente sulle casse dello Stato. Anche il percorso di definitivo superamento dell'apartheid manifesta molteplici contraddizioni. Da un lato infatti procede ancora molto a rilento il piano di redistribuzione della proprietà della terra che prevede il trasferimento del 30% delle superfici in possesso dei bianchi a proprietari neri e che è invece fermo ad una percentuale ridistribuita intorno al 4%. Dall'altro il governo Zuma tende a coltivare un nuovo apartheid che si manifesta in più modi, dalla definizione di un sistema fiscale dove coloro che pagano le tasse sono solo 5 milioni di sudafricani, in larghissima parte bianchi - ben oltre la quota di ricchezza posseduta - alla tolleranza espressa nei confronti del clima di violenza che ha moltiplicato le uccisioni di contadini bianchi. La questione della convivenza pacificata, inoltre, non riguarda solo i 39 milioni di neri e i 4,5 milioni di bianchi, ma coinvolge parimenti i 4 milioni di meticci e 1,5 milioni di asiatici e indiani. Proprio il tema della violenza, del resto, appare uno dei più spinosi per il futuro Sudafrica dove, ogni anno, continua a consumarsi una vera e propria mattanza: negli ultimi anni si sono registrati tra i 18 e i 20 mila omicidi l'anno, numeri da guerra civile. Una parte di questi assassini si lega alla questione, altrettanto complessa, dell'immigrazione da altre zone del continente africano che ha significato, in un breve lasso di tempo, l'arrivo nelle principali città del Sudafrica di circa 5 milioni di clandestini da altri paesi, a cui deve essere aggiunto il costante, massiccio trasferimento di contadini dalle campagne verso le città a causa di un modello socio-economico dove le aree rurali risultano decisamente penalizzate. Le zone di provenienza dei migranti si allargano dallo Zimbawe, allo Zambia, al Mozambico, alla Repubblica Democratica del Congo fino alla Somalia; tali masse tendono a stanziarsi nei giganteschi slum che costituiscono ormai l'ossatura portante dei centri urbani e a vivere un'esistenza drammatica, caratterizzata da ondate periodiche di scontri con la popolazione sudafricana. Nel giugno del 2008 è avvenuta una delle esplosioni di violenza più cruente con l'assalto di decine di migliaia di sudafricani agli slum di Johannesburg terminata con un bilancio di oltre 100 morti e 2000 feriti. La risposta di Zuma a simili tensioni è stata quella di avviare un processo di regolarizzazione di una parte almeno di questi immigrati; una soluzione che si scontra però con il clima di grande intolleranza da parte della popolazione locale e con il crollo tragico dell'economia dello Zimbawe destinato a tradursi in una vera e propria fiumana di fuoriusciti in direzione del paese limitrofo. Tale intolleranza è sicuramente alimentata dal radicalismo delle posizioni della nuova leadership dell'African National Congress impersonata in primis dal giovane Julius Malema, ferocemente ostile ad ogni forma di integrazione sia nei confronti dei bianchi che degli immigrati di altre zone. In questo senso il Sudafrica rischia di essere pervaso da un "nazionalismo" etnico già coltivato da Zuma, e frammischiato ad una forte vena di populismo, che con i giovani leader sta assumendo contorni sempre meno democratici e contenuti difficilmente conciliabili con qualsiasi ipotesi di inserimento nello scenario dei mercati africani e internazionali. Il pericolo vero è che i linguaggi di una politica xenofoba e infarcita di richiami molto strumentali al patrimonio clanico accrescano le dimensioni di un'informalità economica intrinsecamente legata all'economia criminale. Anche perché la stessa politica economica intrapresa da Mbeki è oggetto di aspre critiche da più parti che Zuma fatica a fronteggiare. L'ultima legge finanziaria presentata dal ministro dell'economia Pravin Gordhan è stata ritenuta troppo pesante dal Partito Comunista e all'interno dell'ANC il già ricordato Malema ha proposto di varare una radicale nazionalizzazione del settore minerario mettendo in aperta difficoltà lo stesso Zuma costantemente scavalcato a sinistra. Nel maggio di quest'anno, un durissimo sciopero posto in essere dai trasportatori ha di fatto paralizzato il paese, bloccando i rifornimenti a tutte le principali città del paese. In una democrazia ancora molto fragile, per quanto protetta da un'ottima Carta costituzionale, frutto di un'intelligente quanto laboriosa opera di mediazione politica, l'insieme di queste tensioni produce miscele esplosive che possono impedire sia il consolidarsi di un mercato interno sia l'afflusso di capitale estero, rafforzando l'equivoca dipendenza dalla Cina. In tale prospettiva gli investimenti diretti a finanziare le opere infrastrutturali pensate per il Mondiale di calcio rappresentano una notevole incognita. Saranno un volano di sviluppo, come lascia pensare la linea ferroviaria ad alta velocità Johannesburg-Pretoria, o ingrosseranno il debito statale? In questo secondo caso metterebbero a dura prova la capacità di crescere del paese e soprattutto sottrarrebbero risorse al completamento di uno stato sociale che spende ancora troppo poco per combattere povertà e Aids, di cui il Sudafrica possiede il triste primato mondiale. Nonostante abbia un rapporto debito-Pil estremamente virtuoso, inferiore al 40%, il Sudafrica non può permettersi pericolosi disavanzi annui per non scatenare immediate fughe di quei capitali esteri tanto necessari al finanziamento del debito complessivo e degli investimenti infrastrutturali, decisivi per ridurre una disoccupazione ancora gigantesca. La Borsa di Johannesburg già nel 2008 aveva dato esplicite prove di fragilità e oggi, quando la crisi finanziaria è diventata la crisi dei debiti sovrani, il contagio si espanderebbe rapidamente dal mercato dei titoli privati a quello dei titoli pubblici con esiti disastrosi per uno Stato obbligato a investire moltissimo nell'istruzione, nella sanità e nella lotta all'emarginazione.

Alessandro Volpi