• Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Dal 1 ottobre in Iraq è iniziata una nuova fase di proteste sociali, questa volta autenticamente spontanee e difficili da controllare da parte delle forze politiche o da organizzazioni di società civile, ma gradualmente sostenute da una vasta parte dell'opinione pubblica e dai principali sindacati: ieri quello degli insegnanti ha lanciato uno sciopero generale di 4 giorni, quello degli avvocati incita alla disobbedienza civile, mentre gli studenti stanno occupando molte università nelle province del Centro-Sud e sono scesi nelle piazze in centinaia di migliaia.

Tratto da “Notizie minime della nonviolenza in cammino”, Numero 63 del 18 aprile 2007 – pubblicato su "Il manifesto" dell'8 aprile 2007


Quattro anni fa, il 9 aprile, le truppe americane occupavano Baghdad completando l'invasione dell'Iraq. C'è chi aveva parlato allora di iracheni in festa, ma a festeggiare l'arrivo delle truppe americane sulla piazza Firdaus (paradiso!) erano solo i collaboratori dei giornalisti occidentali, comunque qualche centinaio di persone. Gli altri iracheni, come avevano fatto nei giorni dei bombardamenti, restavano asserragliati dentro le loro case, temendo il peggio. E il peggio sarebbe arrivato, presto.
Le statue di Saddam cadevano una ad una, tirate giù con l'aiuto dei carri armati americani. Alcuni iracheni guardavano attoniti, pochi ragazzi si divertivano giocando con la testa mozzata della statua dell'ex rais per farsi riprendere dalle tv occidentali, altri piangevano, ma i più osservavano: "Volevo la fine di Saddam, ma non volevo che finisse così, con l'occupazione del paese".
Sono passati quattro anni e anche chi sperava in un miglioramento della situazione non ha più speranza. La situazione è andata continuamente peggiorando. Mancanza di sicurezza, di lavoro, di elettricità, di acqua, di benzina. Guerra civile, pulizia etnica, libanizzazione del paese.

Tratto da “Notizie minime della nonviolenza in cammino”, Numero 63 del 18 aprile 2007 – pubblicato su "Il manifesto" dell'8 aprile 2007


"In passato avevo pregato perché qualcuno invadesse l'Iraq e ci liberasse da Saddam. Ora, chiedo a Dio di perdonarlo perché stiamo pagando le conseguenze del nostro tradimento con più morti, torture, fame e sete di quelle sofferte durante il suo regime". Marwan Hussein, 31 anni, due figli, disoccupato, vive in una scuola abbandonata alla periferia di Baghdad. Sua moglie, Abdya, lavora come domestica presso diverse famiglie. Prima di perdere il lavoro Marwan era meccanico e guadagnava abbastanza per mantenere la famiglia. "Abbiamo fatto diversi tentativi per sopravvivere in un modo dignitoso, ma ora siamo arrivati alla conclusione che l'unica strada è quella di lasciare il paese, però non abbiamo i soldi per farlo", sostiene Marwan. "Negli ultimi sette mesi ho venduto metà delle razioni mensili (distribuite dal governo per le famiglie povere, ndr) per racimolare un pò di soldi per andare in Siria". Con la vendita delle razioni Marwan riesce ad ottenere 20 dollari, Abdya ne guadagna 30, così mettono da parte 50 dollari al mese. Ne occorrono almeno 400 solo per il taxi che ti porta in Siria. Per risparmiare non manda più i figli a scuola: "con il livello di violenza che c'è la scuola non è più così importante", dice. E per vivere? Raccoglie lattine tra i rifiuti e poi le rivende. E quando c'è un'esplosione si precipita sul posto e raccoglie quel che resta di metallo tra i rottami ancora fumanti.

Pubblicato su “La domenica della nonviolenza” n. 156 del 23 marzo 2008 e tratto dal sito di "Pecereporter" (www.peacereporter.net)

Angelo Stefanini è docente del Dipartimento di medicina e sanità pubblica dell'Università di Bologna, Centro studi in salute internazionale; è anche membro dell'Osservatorio italiano sulla salute globale


Mentre negli Stati Uniti il premio Nobel Joseph Stiglitz stima il costo finanziario della guerra in Iraq in tre trilioni (sì, tre trilioni, ossia tre milioni di milioni di milioni) di dollari, è giunto il momento di fare i conti con gli altri costi, quelli umani, che cinque anni di guerra hanno fatto pagare alla popolazione civile di quel paese.

Dal 19 al 23 novembre una delegazione di cittadini italiani composta dal  Senatore Marco Perduca, Radicali-PD, co-Vicepresidente del senato del  Partito Radicale Nonviolento; Giancarlo Boselli, vice Sindaco di Cuneo;  Antonio Stango, Partito Radicale Nonviolento e Yulia Vassilieva, Nessuno  Tocchi Caino si è recata in visita al campo di Ashraf nella provincia  irachena nord orientale di Diyala.

                          Comunicato Stampa di "Un ponte per ..."

Il presidente uscente degli Stati Uniti ha annunciato la firma dello “Status of Forces Agreement” (Accordo sullo status delle forze [Usa]), il primo ministro iracheno, Al Maliki, ha fatto lo stesso per l’”Accordo sul ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq”.
Una riflesso condizionato porta a chiedersi subito chi ha vinto e chi ha perso: è il Governo statunitense che si è assicurato altri tre anni di permanenza delle proprie truppe in Iraq o il Governo iracheno che ha ottenuto la fissazione di una data limite per l’uscita di tutti i soldati? I partiti sciiti filoamericani o i partiti sunniti che hanno ottenuto di sottoporre l’accordo a referendum ed altre condizioni?