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Pubblicato su "Il Manifesto" del 15 giugno 2007
Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, «banalità del male». Fa parte invece dell'imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l'una e l'altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio. «Macelleria messicana», ecco cosa fu, parola del vicequestore, l'agguato alla scuola Diaz. «Metodi cileni», commentò all'epoca Massimo D'Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell'Ulivo. Absit iniuria verbis: sarà facile, per i post-colonial latinoamericani di oggi, definire d'ora in poi «metodi italiani» eventuali efferatezze in casa loro. E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.

[Riproponiamo il seguente testo di, apparso originariamente in "Dimensioni", n. 56-57, dicembre 1990, e disponibile nel sito www.aldocapitini.it]


… non può esservi incongruenza fra i mezzi e i fini dell'azione volta al rinnovamento, poiché l'uso di mezzi incompatibili finisce per modificare e stravolgere i fini; la violenza, la coercizione, la dittatura, non sono mezzi per il raggiungimento della libertà. "Dobbiamo pur vivere queste poche ore o pochi anni, esplicare al massimo la nostra fede e i nostri compiti, e se, invece, diciamo a noi stessi: lasciate che venga un'ondata di materialismo, di dittatura, di economicismo di massa, lasciate che trionfi il regno della necessità, così dovrà essere per decenni e forse per secoli; poi verrà il regno della libertà; questo ragionamento non può essere accettato da chi vede nella produzione e nella affermazione del valore spirituale il centro della realtà" (10).
Il fondamento filosofico della critica capitiniana del totalitarismo fascista, che subordina la persona allo stato, e di quello sovietico, che stravolge il rapporto fra mezzi e fini, può essere individuato in "un certo moralismo kantianeggiante e antistituzionale", in quel "teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano", che costituisce il riferimento essenziale dell'elaborazione teorica di Capitini negli anni della Normale…

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per averci messo a disposizione questo intervento inviato come contributo scritto al convegno su "Nonviolenza e politica" svoltosi a Firenze il 5-7 maggio 2006. Maria G. Di Rienzo è una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Università di Sidney (Australia); è impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarietà e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]


"Come fa questo criminale ad avere venti milioni di complici?". Con queste parole, ad un certo punto della notte del 10 aprile, una notte che abbiamo passato svegli ad interrogarci sul risultato delle elezioni politiche, il mio compagno ha messo il dito nella piaga.
Non è da oggi che rifletto sul consenso che circonda il dominio, ma ora sto concentrando la riflessione sul "fenomeno Italia", un fenomeno che per me ha i volti dei miei vicini di casa, del fruttivendolo e del vigile urbano, dell'impiegata all'ufficio postale e della giornalaia.
L'analisi per cui costoro avrebbero beneficiato a livello economico dei cinque anni di governo della destra è evidentemente fallace. Non fanno parte del ristrettissimo numero di benestanti che possono fare a meno di una sanità o di una scuola pubblica, di politiche eque sul lavoro, di servizi territoriali puliti ed efficienti. L'analisi per cui il voto alla destra sarebbe un voto "valoriale" è parimenti inadeguata: con il governo Berlusconi abbiamo assistito al picco di circa vent'anni di distruzione di senso comune e valori condivisi. L'Italia che ci si è mostrata nelle aule parlamentari e sui media è un'Italia rancorosa, ignorante, volgare, dispotica. Nè, rispetto alla regione in cui vivo, mi pare tenga la spiegazione relativa alle aree produttive del paese, che avrebbero votato a destra per garantirsi esigenze connesse a viabilità ed infrastrutture.

[Questo intervento di Gustavo Zagrebelsky è stato tenuto al convegno nazionale del Cidi (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) il 4 marzo 2005 e pubblicato sul quotidiano "La Repubblica" sempre il 4 marzo 2005. Una versione più ampia è alle pp. 15-51 di Gustavo Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 2005]


Secondo un luogo comune, l'attaccamento alla democrazia si svilupperebbe da solo, causa ed effetto della democrazia stessa: tanta più democrazia, tanta più virtù democratica. Un circolo meraviglioso! La democrazia sarebbe l'unica forma di governo perfettamente autosufficiente, rispetto a ciò che Montesquieu denominava il suo ressort, la molla spirituale. Basterebbe metterla in moto, all'inizio; poi, le cose andrebbero da sè per il meglio.
Ebbene, a distanza di qualche decennio dalla Costituzione, uno scritto famoso di Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, 1984) tra le "promesse non mantenute" della democrazia indicava lo spirito democratico.
Invece dell'attaccamento, cresce l'apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l'assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto. È pur vero che la partecipazione può improvvisamente infiammarsi e l'indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazioni eccezionali. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Gli elettori, eccitati, si mobilitano su fronti opposti per sopraffarsi, al seguito di parole d'ordine elementari: bene-male, amore-odio, verità-errore, vita-morte, patriottismo-disfattismo, ecc., cose che lestofanti della politica spacciano come rivincita dei valori sul relativismo democratico. Parole che potranno forse servire a vincere le elezioni ma intanto spargono veleni, senza che un'opinione pubblica consapevole sappia difendersi, dopo che la routine l'ha resa ottusa. Un difetto e un eccesso: l'uno indebolisce, l'altro scuote alle radici.
Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l'ethos della democrazia non si produce da sè. Monarchie, dispotismi, aristocrazie e repubbliche hanno avuto i loro pedagoghi: Senofonte, Cicerone, Machiavelli, Bossuet, Montesquieu... Le rivoluzioni hanno avuto i loro catechismi. La democrazia invece ha politologi e costituzionalisti. Non bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole esterne di funzionamento ma ciò che qui importa, il fattore spirituale, normalmente sfugge. Il loro pubblico, poi, non è certo il cittadino comune, come dovrebbe essere, in quanto si sia in democrazia. Naturale dunque è che si guardi alla scuola e al suo compito di formazione civile. Il decalogo che segue è una semplice proposta.

(Fonte: La nonviolenza è in cammino, n. 1320 del 8 giugno 2006)

Quando già sembrava certa l'elezione di Lidia Menapace a presidente della Commissione Difesa del Senato, con un colpo di mano orchestrato dalla destra, al suo posto è stato eletto l senatore De Gregorio, parlamentare dell'Idv.

Un vero colpo di mano quello che ha voluto mettere fuori gioco Lidia Menapace alla candidatura alla Presidenza della Commissione Difesa del Senato. Un schiaffo alle tante proposte sui temi del disarmo tra cui la difesa popolare nonviolenta e la riconversione dell'industria bellica tanto invocati e sostenuti in questi anni da moltissime realtà della pace in Italia.
La Rete di Lilliput auspica un ripensamento e una presa di posizione del partito dell'Italia dei Valori e dell'Unione affinché i percorsi del disarmo siano maggiormente considerati e valorizzati nelle sedi parlamentari.
Questo segnale suscita preoccupazione sul metodo con cui l'Unione intende affrontare i temi della pace e del disarmo in quanto crediamo che per una politica di prevenzione dei conflitti occorra una strategia compatta e condivisa che non lasci intravedere segnali controversi.
Per questo chiediamo le dimissioni del neo-eletto Presidente della Commissione della Difesa del Senato e una chiara conferma della senatrice Menapace precedentemente indicata dall'Unione.

Spesso si sente parlare di "diritto" alla privacy, tanto che come garanti nell'Autorità sulla
Privacy hanno messo dei paladini dei diritti.

Non ho mai creduto che la privacy fosse un diritto. Non ho mai ritenuto il segreto qualcosa di positivo e ho sempre diffidato di chi aveva dei segreti da tenere. Non penso che sia un diritto nascondere le informazioni ma è un diritto che non si abusi delle informazioni che si hanno a disposizione.

Se sono omosessuale, cattolico, ateo, mussulmano, comunista o fascista devo avere il diritto di esserlo senza subire conseguenza negative, e non devo essere costretto a esplicitarlo, potendo scegliere di divulgare o meno l'informazione, ma da qui ad affermare il diritto alla