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Pubblicata sul quotidiano "Il manifesto" del 14 gennaio 2009 col titolo "Due ore all'inferno".
Tratta da Notizie Minime della Nonviolenza in Cammino n. 702 del 16 gennaio 2009

Poco più di due ore ma sono bastate per vedere la distruzione e la desolazione della gente di Gaza. Con otto parlamentari europei e un senatore del Pd, siamo stati gli unici rappresentanti politici ad essere entrati nella Striscia da quando è iniziato l'attacco israeliano.
Siamo entrati attraverso il valico di Rafah grazie alla indispensabile collaborazione dell'Unrwa e delle autorità egiziane e forzando la volontà di quelle israeliane che hanno respinto la nostra richiesta. Colpi di cannone e bombe sono caduti vicino alla sede dell'Onu in cui ci trovavamo, malgrado ci fosse una tregua di tre ore. Non rispettata.
Così come la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, respinto da Israele e da Hamas.

Dal quotidiano "La Repubblica" del 30 dicembre 2008 col titolo "Accecati dal mito della guerra-lampo", tratto da Notizie minime della nonviolenza n. 705 del 19 gennaio 2009.
"Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano".
Così pensava nella sua saggezza Mendel Singer, l'impareggiabile "Giobbe" di Joseph Roth. Magari ne serbassero memoria gli israeliani, esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l'importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia.

"Non dimenticherò mai il profumo che mi ha accolta all'ingresso della cooperativa Ein al Sultan di Gerico, una delle cooperative produttrici di cous cous per il commercio equo palestinese: sarà sempre un ricordo sensoriale, corporeo, perché non trovo le parole adatte a riproporre quell'intensità aromatica che mi ha avvolta immediatamente.

Continuiamo a pubblicare le testimonianze dell'amico Imad El Rayes, al suo ritorno da Libano.
All’aeroporto di Milano, in attesa di partire per il Libano, mi guardavo intorno osservando “facce libanesi”, alcuni parlavano spagnolo, altri americano, altri ancora bulgaro o italiano… ecco la varietà: 14 milioni di libanesi all’estero, sparsi in tutto il mondo, con cittadinanze diverse.
Ed ora l’aereo pieno di persone dirette in Libano, per vacanza, o per fare visita a parenti… e così portano anche denaro all’economia libanese.
Atterriamo tra gli applausi nel paese dei contrasti e delle complicazioni: sono stato accolto molto bene da tutti.
Bello rivedere il fratello, la mamma, sorella e nipoti…
Ma strane sensazioni mi perseguitavano, come se non riuscissi più a capire quale fosse la mia casa: l’Italia, dove risiedo adesso, oppure il Libano, la terra dove sono nato.
Un mio ex professore, dopo un lungo abbraccio, mi disse “Guarda che c’è bisogno di voi artisti, c’è bisogno che voi torniate in Libano almeno per fare delle mostre, facendo rivivere la libertà tolta, la cultura rubata e la sensibilità sepolta”.
Il traffico intenso e le regole di guida (caos organizzato) mi hanno spinto a girare poco, ma quel poco è stato sufficiente per capire che questo Libano gira ancora intorno a se stesso a tutto campo, cambiano solo le facce e i nomi (parlo dei politici e dei capi), in un sistema bloccato all’interno delle diverse etnie e una falsa democrazia.