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Vorrei che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia, hanno una cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie nazionali magari remote o per flagellare terribilmente i vizi dei cattivi cristiani.
Sono pagine che scuotono sia la pigra sicurezza dei ripetitori compiaciuti di formule patriottiche sia il sussiego moralistico degli accusatori secondo le leggi stabilite. Sarebbe pure da augurarsi che le leggessero gli ideologi che pretendono di conoscere, essi soli, i segreti dell' ottima repubblica.
Sono pagine che costringono a rivedere i princìpi troppo alti, le sintesi troppo ambiziose, le dichiarazioni troppo solerti. (...)

Amici miei, siamo di certo molto lieti nel vedere ciascuno di voi qui questa sera.
Siamo qui stasera per una faccenda grave. In un senso generale, siamo qui perché prima di tutto e innanzi tutto siamo cittadini americani, e siamo decisi ad esercitare la nostra cittadinanza nel suo significato più pieno. Siamo qui anche a causa del nostro amore per la democrazia, perché abbiamo la radicata convinzione che la democrazia, quando da un fragile foglio di carta si traduce nella concretezza di un atto, è la migliore forma di governo che esista sulla terra.

I. "Il ribelle obbediente Don Milani! Chi era costui?"
È il titolo dell'ottimo libro di Giorgio Pecorini (Baldini & Castoldi, 1996, pp. 420, lire 28.000), l'ultimo arrivato, per ora, ad accrescere la già copiosa messe di studi sul priore di Barbiana. L'interrogativo manzoniano è perfettamente appropriato, anche se, com'è ovvio, fra Carneade e don Abbondio, da una parte, e don Lorenzo, dall'altra, non c'è proprio nulla in comune.

Proponiamo il seguente scritto, ripreso dall'opuscolo: Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham - Pellegrinaggio alla nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1993. Tratto dal n. 1125 del 25/11/2005 del notiziario “La nonviolenza è in cammino”.

Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 giugno 2007

Quaranta anni fa moriva don Milani. Molti ne hanno parlato in questi giorni: difficile dire se si è trattato soltanto del ricordo di un defunto lontano o di una presenza educativa e culturale ancora viva nella nostra scuola e nella nostra politica. Qualcuno ha anche ricordato che Esperienze pastorali non è stato ufficialmente riabilitato dall'autorità ecclesiastica che lo aveva condannato all'Indice dei libri proibiti.
Don Milani scriveva in una lettera alla mamma (14 luglio 1954): "Io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquanta sotto il sedere dei miei vincitori". Oggi diciamo che era troppo ottimista.

Preferiamo ricordarlo con le parole di Giorgio Pecorini, profondo conoscitore della scuola di Barbiana e ben noto ai lettori del "Manifesto": "Fin quando don Milani è stato vivo, gerarchia e integralismo, costretti dalla sua 'disobbedienza obbedientissimà a non scaricarlo, si sono rivalsi emarginandolo ed esiliandolo. Poi, dopo morto, un poco alla volta, hanno preso ad appropriarsene, via via facendosi gloria e vanto della ortodossia e del suo rigore, ma addomesticando l'una e l'altro, scegliendo fra le sue testimonianze quelle che, sapientemente o grossolanamente censurate e manipolate da capo secondo i diversi livelli di onestà e di gusto, parevano le più usabili in senso normalizzatore" ("Fà strada ai poveri senza farti strada").
Qui Pecorini cita, fra l'altro, una lettera di don Milani alla sorella Elena, che aveva temuto di dargli un dispiacere annunciandogli il proprio matrimonio civile: "Cara Elena, sono contentissimo che tu ti sposi e non ho nessun motivo di meravigliarmi o dolermi che tu lo faccia in Comune. Esser religiosi o esser cristiani è una fortuna, non un obbligo. Mi può dispiacere che tu non abbia questa fortuna, non che tu compia un atto in sintonia con quello che pensi". Posizione ancora più significativa oggi, in tempi di Dico.
Da segnalare, su "Adista", una lettera inedita a firma di "Lorenzo Milani, parroco di S. Andrea a Barbiana", diretta al professor Tommaso Fiore, dopo l'uscita di Esperienze pastorali. Don Milani si difende dalle accuse vaticane e scrive: "Dare la scuola ai poveri, tutto il resto sa di chiacchiere". Un bel compendio di una vita.

Darryl Lorenzo Wellington presenta "Going down jericho road: the memphis strike. king's last campaign" di Michael k. Honey

[Dalla rivista "Lo straniero", n. 85, luglio 2007 riprendiamo il seguente articolo (disponibile anche nel sito www.lostraniero.net) dal titolo "L'altro lato della montagna. Su Martin Luther King" originariamente apparso su "Dissent", primavera 2007 (traduzione di Elisabetta Lopalco)]

Pubblicato su “Voci e volti della nonviolenza”, n. 76 del 6 luglio 2007


Mentre scrivo queste righe il Martin Luther King Day del 2007 si è appena concluso.
Con il passare degli anni - il 2007 è il trentanovesimo anniversario della sua morte - l'appartenenza di King al pantheon dei grandi personaggi americani e l'unicità storica del movimento di protesta nonviolenta da lui capeggiato appaiono sempre più indiscutibili. Un festa nazionale è un onore che gli si deve. Tuttavia, il memoriale che si svolge ogni anno è sia il culmine del lascito di King sia un peso che grava su di esso.
Ho partecipato alle celebrazioni in onore di King a Charleston, Sud Carolina, e certamente rispecchiano quelle avvenute in tutti gli Stati Uniti. Ci sono state le solite parate - licei, college, sostenitori della Naacp (National Association for the Advancement of Colored People) - e i soliti discorsi, sermoni e omelie. Ho anche preso parte a un banchetto di studenti universitari che avevano passato la giornata a onorare il concetto di altruismo impegnandosi in attività umanitarie. Per quel che vale l'attivismo di base, gli studenti si erano comportati da novellini, ma le loro intenzioni erano buone. Quello che mancava era la sensazione di tumulto e di lotta. Con questo intendo dire la possibilità di svolgere dimostrazioni di massa e campagne per la giustizia paragonabili a quelle avute per eliminare il concetto di cittadini di seconda classe e la segregazione. Nell'America di oggi non esiste nessun muro di ingiustizia tanto visibile e indifendibile come lo era la segregazione. Non ci sono nè proteste nè sollevazioni di massa simili a quelle che si ebbero negli anni Sessanta. C'è la guerra in Iraq; ma non c'è nessun obbligo di leva. Ci sono ghetti inumanamente privi di tutto come ai tempi di King e ingiustizie di massa come l'assenza di un'assistenza sanitaria universale; ma c'è poca consapevolezza di come si potrebbe rimediare a questi mali tramite raduni e marce di protesta. Ciò che manca a queste commemorazioni è il senso delle impellenze politiche che bussano alla porta. Così il risultato è un linguaggio privo di forza politica e di forza retorica.

Dopo che, l'11 febbraio 1965, un gruppo di cappellani militari della regione toscana aveva stilato un comunicato che si concludeva con questa frase: «Considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà», don Lorenzo Milani rispose loro con una lettera, che provocò non solo un processo (contro di lui) ma svegliò molti italiani (in suo favore) e ancora oggi è un piccolo monumento nella storia della società contemporanea.
Oggi, l'obiezione di coscienza viene invocata come diritto, non solo dai militari, ma anche da professionisti di altre categorie, come i medici nei casi di aborto, anche terapeutico. Secondo la vecchia lettera dei cappellani militari toscani, questi medici, ora sostenuti dalla Chiesa cattolica come difensori della vita, sarebbero vili sostenitori di un'idea «estranea al comandamento cristiano dell'amore». I tempi cambiano. Forse, altri sacerdoti dovrebbero prendere la penna in mano e riportare di nuovo in primo piano il testo di don Milani. Per l'obiezione alla guerra? Proprio per l'obiezione alla guerra.
Ma non si può. Anche don Milani non potrebbe più farla, dovrebbe cambiare argomenti e obiettivi. La guerra, ormai, si fa di mestiere. Il parroco di Barbiana in quella sua risposta citava Gandhi: «Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra» (Non-violence in peace and war. Ahmedabad 14 vol. I). Per chi fa la guerra di mestiere è una frase allucinante, sono le parole di un pazzo. Infatti, fu assassinato. E quel «pazzo» (così veniva definito in una lettera minatoria pubblicata sui giornali) di don Milani quasi certamente partirebbe da qui.
Parlando di patria, i cappellani militari toscani tracciavano una differenza fra italiani e stranieri. Differenza logica, visto che ci sono nazioni e confini, ma traumatica quando si parla di una «patria» contro l'altra: qui non ci si aiuta, si muore. Don Milani affermava: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».
Penso che un cristiano non possa non acconsentire. Don Milani ricordava che Vittorio Emanuele II di Savoia, il «re buono», premiò nel 1898 il generale Bava Beccaris che a Milano aveva fatto cannoneggiare una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento: «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiare polenta. Poca perché era rincarata».
Mario Pancera