Libertà e moralità - Citazioni e congetture

Non spaventino le parole in sé enormi, e rassicuri invece il fatto che il mio palcoscenico è piccolo e facilmente accessibile. Sarebbe infatti davvero da presuntuoso pensare di affrontare questioni così infinite che appartengono alla storia del pensiero umano e che con le loro concatenazioni si può dire lo completino. Libertà, moralità, responsabilità, causalità, determinazione, etc. sono in effetti termini per quali è bene consultare le enciclopedie e le biblioteche. Il loro uso da parte mia è quindi un trucco che rivela anche una certa ingenuità, non ho in effetti ambizioni di verità, unico mio fine possibile e valido rimane sempre e solo coltivare curiosità o, se si vuol dirla in altro modo, domande.

Ha scritto il Dante *:

Color che ragionando andaro al fondo,

s'accorser d'esta innata libertate;

però moralità lasciaro al mondo.

Onde, poniam che di necessitate

surga ogni amor che dentro a voi s'accende,

di ritenerlo è in voi la podestate.

(Purgatorio - canto decimottavo, vv. 67 e segg.)

Parole che a me, dopo aver consultato innumerevoli esegesi, piace interpretare così:

Color che ragionando andaro al fondo

I filosofi, o comunque i pensatori, che hanno scandagliato nel profondo l’animo dell’uomo.

s'accorser d'esta innata libertate

Si resero conto che la libertà, da intendersi prima di tutto come libertà di pensiero, come libero arbitrio (un desiderio? un bisogno? un valore?) è connaturata all’uomo, parte presente e costitutiva della sua essenza e della sua identità. Il Dante più il là nel Paradiso preciserà che il libero arbitrio è il dono maggiore fatto dal Dio all’uomo. Gli appartiene appunto quindi da quando l’ha creato, fa parte della sua formazione, dell’atto costitutivo, era intriso nella polvere primordiale.

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

fesse creando, e a la sua bontate

più conformato, e quel ch'e' più apprezza,

fu de la volontà la libertate;

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole, fuoro e son dotate.

(Paradiso - canto quinto, vv. 19-24)

Il dono più grande che Dio potesse fare all’uomo nel crearlo, tra l’altro quello che più si conforma alla sua qualità di Dio, e quello che Dio apprezza di più, fu la libera volontà, cioè il libero arbitrio, di cui solo l’uomo, creatura intelligente, è dotato, e quindi in tal modo qualificato!

però moralità lasciaro al mondo.

In base a tale libertà, che è insindacabile in quanto fa parte della sostanza e della struttura dell’animo (mi veniva quasi: atomo!), la moralità, cioè la scelta di decidere che una cosa è buona o cattiva, da seguire o da abbandonare, fu lasciata al mondo, quindi alla vita, a ciò che accade. È perciò l’uomo che di fronte alle cose da fare sceglie in base alla sua libertà. La moralità non è quindi un insieme di dogmi (o di verità?) definiti.

Onde, poniam che di necessitate/ surga ogni amor che dentro a voi s'accende,/ di ritenerlo è in voi la podestate.

E fa l’esempio, per spiegarsi ancora meglio. Se nasce dentro di noi un amore (e l’amore nasce sempre “di necessitate”, cioè nasce con sua forza propria autonoma, non è che lo si governi), il potere, la scelta di farlo vivere sta però solo in noi, non in qualcun altro.

La questione si definisce invero ancora di più: l’amore è quindi una “qualità?” che abbiamo dentro, che nasce dal caso, ma sempre nostra però è la facoltà (la podestate) di farlo vivere e di non lasciarlo morire.

La moralità e l’amore cui si riferisce Dante sono quindi propriamente una scelta!

La capacità di scegliere in base al libero arbitrio che l’uomo ha dentro di sé.
Una moralità direi, né più né meno, anarchica! Ma non vorrei apparire blasfemo, e lascio questa strada…

L’uomo quindi non può dare colpa a qualcun altro delle scelte che fa e che può fare o che non fa, non può far finta di non sapere che la libertà è un valore, perché il libero arbitrio è una sua primaria facoltà. E come può dunque l’uomo negare la libertà?

L’uomo sa già infatti dentro di sé ciò che è bene, e rispetto alla libertà sa che è cosa giusta, perché la libertà è già un componente del suo essere, come già dentro di sé riconosce l’amore.

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L’uomo non può quindi fare distingui, dare giudizi, vantare riflessioni e ponderatezza, ciò infatti è solo ipocrisia.

Ma l’uomo invece spesso, molto e troppo spesso, su tali cose invece l’ipocrita lo fa perché come affermava Wittgenstein:

Niente è così difficile come non ingannare se stessi.

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980, p. 70

Che equivale a dire che è facile ingannare se stessi, ed ancor meglio quindi che è difficile essere sinceri con se stessi. Un vecchio discorso che ha attraversato religioni e filosofie.

Cioè l’uomo di fatto mente a se stesso prima che a tutti gli altri.

Non mentire vorrebbe dire confessare le colpe, le incapacità e soprattutto quindi i suoi limiti. E questo è un atto profondo, enorme, quasi impossibile, da dio non da uomo, nel senso che è soprannaturale, perché va al di là della natura dell’uomo, che guarda a sé come essere giusto e perfetto. Mentre in tal modo si “scoprirebbe”, e l’uomo - affermava e rimarcava sul tema Nietzsche - è per sé stesso la più difficile delle scoperte. (Friederich Nietzsche, La filosofia della scienza, Armando, 1997, p. 124).

A pensarci bene questa difficoltà, che dobbiamo ammettere anch’essa innata, cioè connaturata al nostro animo, pone un limite al libero arbitrio, lo inficia. Io mi immagino che davanti al tribunale supremo, o di dio o del diavolo, in molti alla contestazione dei giudizi errati, delle azioni sbagliate ed ingiuste, od anche dei pensieri perversi che nella vita avranno seguito, accusati di colpa e responsabilità diretta e privata in base alla “libertade de la volontà”, tireranno fuori questo handicap oggettivo: “Mentivo anche a me stesso, era più forte di me! Questo giustifica in parte il mio male”.

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In ogni caso ne esce un quadro se non di grande pessimismo, sicuramente di oggettivo scetticismo.

Se la libertà e la moralità sono fatti e spazi individuali, elementi del nostro privato. Se la sincerità è una vana speranza che mai vincerà sul superindividualistico ego dell’individuo. Quale futuro si può prefigurare per la solidarietà e per l’attenzione all’altro, come insegna la buona religione e come predica la buona politica che è attenta a quelli che hanno meno degli altri e in denaro, e in cose, e in diritti, e in qualità della vita? Quale futuro per l’insieme degli uomini, per la vita sociale, per idee e contenuti e agire condivisi e comuni?

Oddio, rimane la convinzione che l’uomo realizza se stesso, e può realizzare davvero se stesso, solo in relazione con gli altri.

La strada per la realizzazione di sé infatti non è e non può essere il ritiro, il racchiudersi in una propria privata nicchia, altrimenti gli eremiti non sarebbero eccezioni, ma milioni.

L’egoismo è dentro di noi, altra nostra proprietà, ma la vanagloria che produce, e che è tra i mali che Gesù segnala nel fondamentale discorso della montagna, ha però sempre bisogno degli altri per verificarsi, sono gli altri con cui ci rapportiamo che ci indicano il nostro valore, che ci sostengono nell’autocoscienza. Questa annotazione che rivela come sia difficile il dettato di Gesù la fa addirittura il cardinale Martini, affermando che l’uomo se non ha la stima degli altri si deprime perché “siamo di natura ansiosi”, un’altra cosa per natura! E quindi insuperabile? (Carlo Maria Martini, Il discorso della montagna - meditazioni, Mondatori, Milano, pp. 80-81). Proprio sul messaggio centrale del discorso di Gesù che è un invito al rigore supremo, alla “totale lealtà”, quindi si può dire alla totale sincerità, dunque all’assoluta moralità, all’esplicarsi della piena libertà che si esplica nell’invito perentorio: “sia invece il vostro parlare sì si; no no; il di più viene dal maligno”, il cardinal Martini (addirittura!) pone il dubbio che sia un discorso praticabile! (Idem. pp 54-71). Più prosaicamente e laicamente sappiamo che il maligno è parte di noi, una nostra ennesima componente naturale.

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Cosa rimane allora?

Cosa rimane da fare?

E chi lo sa!

Io, comunque, da anni, mi tengo a portata di mano una citazione di John Keats, da una sua poesia che ha per me (già cacciatore) un titolo che è un affascinante richiamo di fondo: “Ciò che disse il tordo”.

Il tordo parlò così:

Chi s’attrista pensando all’ozio non può essere ozioso,

come desto è colui che crede di dormire.

(J.Keats, Poesie, Utet, Torino, 1972, p. 21)

Se cioè sentiamo con preoccupazione la situazione di stallo e di non fare, di non azione, forse in tale preoccupazione c’è un barlume, un lumicino che qualche speranza di essere capaci di affrontare le cose la dà.

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Ho offerto citazioni oziose? E su di esse ho svolto argomentazioni intellettualoidi? E racimolato connessioni contraddittorie senza alcun senso? O forse addirittura mi ha soggiogato la vanagloria?

Non lo so.

Io comunque quel lumicino de l’esser “desto colui che crede di dormire” l’ho tengo sempre acceso e ho provato ad applicare le citazioni che ho riportato all’analisi della realtà dei nostri giorni, al futuro dell’Italia e del mondo, ai giovani che infiammano il Maghreb, al berlusconismo e alla sua filosofia, ed un sollievo me lo producono. Io credo infatti che il monito del tordo di Keats sia alla base del motto “resistere, resistere, resistere”, sia alla base del no alla filosofia di Marchionne che molti operai FIAT hanno espresso sulla loro pelle, sia alla base del ribrezzo verso la visione del mondo che il berlusconismo ha imposto in Italia in maniera più sfacciata che altrove, sia alla base della coscienza di tutte le persone che ogni tanto sentono l’esigenza interiore di ritrovarsi assieme in una piazza, senza sapere bene che fare, ma solo, ed è già tanto, per gridare che questo mondo non appartiene loro perché non è un mondo giusto, non è un mondo buono. E che si differenziano dagli altri solo perché lo dicono, perché (come spiegato) tutti, ma veramente tutti, dentro di loro invero lo sanno!

Ma appunto la moralità è una scelta, la libertà anche, e la sincerità, il guardarsi dentro ed il decidere, una impresa disumana.

Sarà piccola cosa, ma provate anche voi ad appiccicare al mondo dei post-it con su delle brevi frasi, in modo da averle sempre lì davanti, in modo da non dimenticarle. Io dico che serve.

 

* Adotto la forma “il Dante” perché questa usa il mio maestro di filosofia e di vita, Cisbé di Forno, che la “Commedia” la sa tutta a memoria e che è innamorato anche del Boccaccio per il solo fatto che fu colui che la chiamò “Divina”.

 

Massimo Michelucci - 8 marzo 2011