Donna, guerriera, curda. Avesta a caccia di libertà

Filiz è una bambina che cresce sulle montagne di uno stato che non esiste, il Kurdistan. I suoi giorni trascorrono tra la compagnia degli undici fratelli e i compagni di giochi su strade polverose, nei boschi, nella neve dove si affonda fino al ginocchio e sotto il sole che per mesi interi brucia la terra. A questa bambina, destinata a crescere troppo in fretta, l’autore si rivolge inizialmente con una seconda persona che ci restituisce la voce di un fato ineluttabile e misterioso, che Filiz sente la necessità di caricarsi sulle spalle senza poterlo demandare né a un domani né ad altri.

Ma è un tu che forse non indica solo la protagonista di questo romanzo, ma chiunque si metta in gioco per una causa più grande di sé, che per Filiz non può che essere la libertà del suo popolo e l’emancipazione della condizione della donna, da secoli umiliata, emarginata e relegata dentro le mura asfittiche delle case senza poter andare nemmeno a pregare in moschea.

Quando un legame troppo grande si spezza e quando troppi compagni “con cui si dava i nomi agli alberi son diventati radici” Filiz decide di lasciare tutto, anche il suo nome, e inerpicarsi sulle montagne insieme ai guerriglieri curdi. Prende il nome di Avesta e diventa una cecchina. Svilupperà “intuizione animale e freddezza di calcolo”. Attraverserà “l’orrore di chi è consapevole che uccidere significa far morire una parte di sé” ma svilupperà anche la convinzione che chi tiene qualcuno in catene è più responsabile di chi si ribella per spezzarle. Va sulle montagne a combattere contro quei turchi che hanno cancellato il suo popolo. Si sa che dopo lo smembramento dell'Impero Ottomano doveva esserci una nazione curda, e invece quel territorio è stato spartito a tavolino in quattro parti: quella più estesa va ai turchi, che hanno negato qualsiasi tipo di autonomia e di riconoscimento all'identità linguistica, storica e sociale di questa gente. Avesta è il nome di battaglia scelto da Filiz Saybak, una ragazza nata nel 1982, che si aggrega alla resistenza del PKK: il suo nome lo prende dai testi sacri dello zoroastrismo, l'antica religione praticata dai curdi prima che fossero forzosamente convertiti all'Islam dai turchi conquistatori.

La scelta di Avesta è anche la scelta di una donna che decide di emanciparsi da un mondo feudale e patriarcale. È una donna che diventa guerriera per mettere fine non solo all'oppressione dei curdi ma anche a quella, ancora più antica, dell'uomo sulla donna. Questa ragazza, così decisa e consapevole della storia del suo popolo tanto da incarnarla emblematicamente, grida con la sua voce basta con i clan, basta con gli oppressori, basta con il maschilismo: anzi, questi tre gridi sono per lei parti inscindibili di un'unica lotta. Il suo è dunque un atto di rivolta, un “no” nel senso camusiano del termine, ma racchiude anche una proposta politica costruttiva: un’idea di convivenza solidaristica da villaggio, proprio com’era nella tradizione del suo popolo. Tra le pagine più belle del romanzo ci sono senz’altro quelle che descrivono la vita in montagna dei guerriglieri curdi, dove protagonista diventa la natura, che governa e scandisce le giornate dei partigiani, i quali assumono una condotta da asceti, dediti non solo all’esercizio fisico ma allo studio e alla discussione (un giornalista europeo che fa visita al gruppo si trova inaspettatamente a parlare a tavola di Giordano Bruno). Si intreccia così un’esperienza simbiotica con la natura che si traduce in momenti di grande suggestione, a volte di calibrato lirismo (“A stare per anni in montagna si impara a guardare senza oggetto. E' quasi un essere guardati dalla luce”; “qui è come se fossero gli alberi gli uomini”).

Ma lo scenario non è solo quello del Kurdistan turco. Dopo anni di lotta su questo fronte ad Avesta e i suoi tocca il confronto col Daes. Così si scende nella pianura desertica irachena, con altre pagine suggestive sulla fuga in massa da Mexmur, momenti che hanno il sapore di un esodo biblico e che ancora una volta raccontano non tanto una storia particolare quanto un ancestrale attaccamento alla vita di ogni uomo.

Il libro di Rovelli, autore, tra l’altro, di reportage narrativi di grande impegno (Lavorare uccide, Servi), è un romanzo a tutti gli effetti perché è il racconto di una vita, in cui la storia con la lettera maiuscola passa attraverso la narrazione di un’esistenza con tutte le sue fragilità e il suo coraggio. Ma, dalla nota finale, sappiamo che La guerriera dagli occhi verdi nasce anche da un viaggio dello scrittore in quei luoghi (Mexmur e Van), dal tempo trascorso coi guerriglieri e dalla condivisione intensa di un pezzo di vita con loro. È un elemento che non toglie nulla alla godibilità narrativa, ma che va sottolineato perché aggiunge ulteriore valore alla parola del testo.

Quando leggevo la storia di questa giovane partigiana mi è venuto spesso in mente un romanzo sulla nostra Resistenza che amo molto, L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Qui una donna anziana, grassa, vedova che si affanna a fare la staffetta su una vecchia bicicletta, nel romanzo di Rovelli una ragazza affamata di vita e di giustizia, atletica e riflessiva; lì la Resistenza al nazifascismo, qui la negazione della storia di un popolo intero; lì la potenza descrittiva ti faceva sentire il fango e la neve nelle scarpe, qui la polvere e il sole che divampano sulla pelle. In entrambi i casi donne umili e intrepide, capaci di rivoltarsi fino alla fine, di piangere i morti e di guardare oltre la morte. E in entrambi i casi due autori che si schierano senza mezzi termini dalla parte dei loro protagonisti, senza mai giustificare la violenza ma che non si ritraggono quando la violenza accade. In questo senso il romanzo di Rovelli – per noi lettori abituati da più di un secolo ad antieroi e personaggi che rispecchino i nostri limiti e le nostre idiosincrasie - ci propone il racconto di un’eroina dalla fisionomia classica, che lo scrittore descrive con quello stesso sguardo meravigliato con cui noi la immaginiamo nella sua disperata ricerca di una libertà che ci riguarda.

Recensione di Marco Balzano uscita sulla Lettura del Corriere

Segnalato da Roberto Faina