I laici nella chiesa e nel mondo nell’ecclesiologia di don Tonino Bello

Una premessa metodologica mi sembra utile. Di una persona grandemente significativa come don Tonino Bello, si può parlare su due registri: il primo filologico, teso a raccogliere con precisione scrupolosa la sua parola e testimonianza; il secondo “re/sponsabile”, cioè consistente nel rispondere al suo stimolo accettando l’impegno che ci trasmette. Il primo modo è quanto più possibile oggettivo, il secondo è personale, implica scelte che non sono necessariamente condivise da tutti, sebbene orientate agli stessi valori e proponibili alla considerazione di tutti. L’ascoltatore o lettore attento può distinguere i due generi di discorso, anche se non sono materialmente separati.

1. I laici e le laiche

Il significato corrente e prevalente di “laico” è: “non questo e non quello”. Un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura sono detti “membri laici” perché, pur essendo tecnici qualificati del diritto, non appartengono alla magistratura.

Istituzioni laiche sono quegli spazi sociali in cui devono potere sentirsi a casa propria le persone di ogni religione o di nessuna religione, cioè sono istituzioni non confessionali.

Il vescovo Warduni, ausiliare della chiesa caldea di Baghdad ha detto recentemente: «Nel mondo arabo il termine "laico" non piace, desta sospetto» (dal Comunic@to di Pax Christi, 24.08.04).

Nel linguaggio comune, laico vuol dire non credente, o almeno non clericale. Nel linguaggio interno alla chiesa vuol dire non appartenente al clero. Il termine latino, di senso positivo, “christifideles”, non è certo di uso corrente.

Il laico, fino a tempi recenti, era visto come non impegnato nella vita evangelica quanto monaci e preti. Il matrimonio non era uno “stato di perfezione”. Il laico era quello che non aveva una “vocazione”. Con la clericalizzazione del cristianesimo seguita all’abbraccio soffocante di Costantino e Teodosio, nel IV secolo, gli appelli evangelici alla nonviolenza, come l’obiezione alla guerra e all’esercito – scrive Rodolfo Venditti citando Massimo Toschi - «verranno gradualmente emarginati dalla vita di ogni giorno e riservati al sacerdote e soprattutto al monaco», mentre «i laici (…) rimarranno confinati a un gradino più basso, nel “mondo”, dove la vita cristiana non potrà pretendersi perfetta, dove la militia Christi non sarà più incompatibile con la militia saeculi, e dove la originaria incompatibilità delle due militiae verrà a stemperarsi nell’ambiguo compromesso del “servizio a un imperatore cristiano”, a un imperatore “diritto divino”»1.

Insomma, il laico è – o almeno è stato a lungo - un “non-non-non”! Se possiamo parlarne qui, nell’ascolto di don Tonino Bello, è perché le cose stanno cambiando, o almeno possono cambiare.

Ma il problema rimane. Un comunicato del recente Sinodo della chiesa valdese dice: «La Tavola valdese pone sul tappeto problemi molto precisi quali la "crisi del ruolo dei laici", che nell'ambito di una chiesa che vive il sacerdozio universale dei credenti costituiscono una risorsa essenziale per "intervenire nella vita sociale e politica". (…) Nella società in cui oggi ci muoviamo il termine stesso di vocazione sta vivendo una vera e propria eclisse».

Se una persona è senza vocazione, è la persona dall’esistenza più tristemente povera.

Se il laico è stato, o in qualche misura è ancora, senza vocazione, se è un “non” (che fa una buffa rima con “don”), se si definisce in quanto escluso da altre categorie, allora, tra i laici, la donna è una “super-non”, è la più esclusa. Sebbene sacralizzata per altri versi, la donna è quel tipo di cristiano laico che non può nemmeno assurgere alle categorie “sacre”. L’esclusione assolutizzata, quasi dogmatizzata2, della donna dai maggiori ministeri ecclesiali è oggi assai discussa nella chiesa cattolica, non è un elemento del sensus fidei, né, quella esclusione, risulta essere una esigenza pastorale del popolo di Dio, ma è ripetuta dal cardinale Ratzinger con un rapido cenno, come per tentare di eludere il problema, anche nella recente Lettera ai vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo (parte IV). La donna è tradizionalmente limitata ai suoi ruoli specifici, alcuni certamente naturali, ma altri in gran parte definiti da parte maschile, e questo avviene anche proprio nella chiesa. Tutto ciò rende la donna la più “laica-non” dei “laici-non”.

Il ruolo e i diritti della donna sono un problema consistente nel necessario dialogo cristiano con l’Islam: alcuni guardano questo problema senza speranza, perciò chiudendo il dialogo su questo punto; altri con impegno e realistica fiducia. L’errore di leggere antichi testi sacri senza distinguervi la luce rivelata, permanente, dai dati di costume dell’epoca, non permanenti, non è o non è stato errore soltanto musulmano.

Papa Giovanni, nella Pacem in terris, riconosceva con gioioso stupore l’ingresso con dignità della donna nella vita pubblica come un buon segno dei tempi.

Nella misura in cui questo diritto e questa dignità sono ancora incompiuti, nella società o nella chiesa, la donna si trova, nella categoria dei “non”, in uno scalino inferiore, insieme a quanti non vedono riconosciuto e libero il loro diritto di espressione e partecipazione. Sono, questi, i poveri, nel senso integrale, non solo economico, della parola.

Che ne dice don Tonino Bello, di queste cose?

2. Gli ultimi

I poveri sono i più presenti, in prima fila, nel cuore e nella parola di don Tonino, perché degli ultimi, dalla Parola, è detto che saranno i primi. Sono la povera gente, persone comunissime, cariche dei problemi della vita, anche di errori e di colpe, gente sporca della polvere dei cammini più duri, senza potere né giustizia, senza onore, senza affetti, senza questo e senza quello. Sono i più “non” di tutti, i più laici di tutti. Gli ultimi degli ultimi.

Don Tonino li cita e li chiama per nome, come il vescovo Romero nominava, pubblicava e onorava le vittime uccise dai violenti tra il suo popolo, santa litania di crocifissi. Il vangelo delle omelie di don Tonino, come quelle di Romero, è popolato di questi personaggi di oggi, in cui vediamo quasi reincarnarsi le folle di poveretti, malati, peccatori, dubbiosi, falliti, assetati, che Gesù incontrava, che imploravano, interrogavano Gesù, e anche dei malevoli che lo insidiavano. Nei volumi che raccolgono gli scritti di mons. Antonio Bello, troviamo nell’indice, a volte più numerosi delle citazioni vescovili e papali, molti di questi nomi senza cognome, donne e uomini delle strade di Barletta. Sono gli ultimi, quelli di cui nemmeno si parla, che non hanno nulla da dire, e che invece parlano nelle omelie di don Tonino, attraverso le loro storie, dolori, appelli. Il vescovo Tonino fa esistere quelli che non esistono, fa vedere gli invisibili, fa contare quelli che non contano per chi conta, risuscita i morti della società, dà valore a quelli che per l’economia sono gli “esuberi”, li tiene tutti accanto a sé sulla cattedra, perché da loro c’è da imparare.

Scrive una lettera «a Massimo, ladro, ucciso a Molfetta la notte dell’8 gennaio 1985, anno internazionale dei giovani». «Vedi, sei tanto povero che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome». «Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché, prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo» (Scritti di monsignor Antonio Bello, Molfetta, edit. Mezzina, 1993 e seguenti, vol. 5, p.275-277; d’ora in avanti Scr. A.B.). Negli “auguri scomodi”, per il Natale 1984, scrive addirittura: «I poveri, i poveri veri, hanno sempre ragione, anche quando hanno torto» (Scr. A.B., vol. 5, p. 290). E scrive «a Giuseppe, avanzo di galera», nel 1986, «Siamo tutti pezzi di galera. Ma prepariamoci a uscirne» (Scr. A.B., vol. 5, p. 292-294).

In un articolo del giugno 1983, dal titolo Sono credibili le nostre Eucarestie?, leggiamo: «Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucarestia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine» (Scr. A.B., vol. 5, p. 236).

Nel Natale 1985 scrive su Rocca commentando quell’impegno «ripartire dagli ultimi» (che mi pare fosse un programma della Cei): «Ripartire dagli ultimi (…) è soprattutto un atto di fede nell’imprevedibilità del nostro Dio che, per annunciare e realizzare le sue meraviglie, non utilizza necessariamente truppe scelte, sfornate dall’accademia, ma si serve degli straccioni, dei diseredati, della gente che non conta e che viene disprezzata. Proprio questa gente, questa accozzaglia di ultimi, ha il compito e il privilegio di annunciare ai primi che la salvezza è vicina» (Scr. A.B., vol. 5, p. 26). E delinea ampiamente una chiesa che «riparte dagli ultimi», terminando così: «Una chiesa che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio: neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare a messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale più in linea col Vangelo» (ivi, p. 27).

Tutti gli otto Scritti quaresimali del 1988 sono dedicati… ai piedi: di Pietro, di Giuda, di Giovanni, di Bartolomeo, degli altri, del Risorto. Nulla di più basso e di più fondamentale dei piedi. Riguardo a Pietro, don Tonino scrive: «A furia di difendere la tesi del “primato” di Pietro, abbiamo perso di vista che egli è il capostipite di quell’”ultimato” di poveri verso cui Gesù ha sempre espresso un amore preferenziale». «I piedi dei poveri sono il traguardo di ogni serio cammino spirituale» (Scr. A.B., vol. 2, p. 346, 345). Gesù, e don Tonino, onorano i piedi. I piedi degli ultimi, che Gesù ci ha chiesto di lavare, con gesto sacramentale, sono la mèta dell’elevazione spirituale. L’immagine alto-basso, il basso che è il vero alto, è stata usata tante volte come metafora del raddrizzamento di qualcosa che si trova capovolto. L’allusione è a tutte le gerarchie mondane, sconvolte dall’Uomo mandato dall’Altissimo, abbassatosi come un servo ai piedi dei suoi poveri deboli amici, calpestato sotto i piedi della coalizione dei poteri religioso e politico, risorto ad inaugurare da primogenito la posizione definitiva a cui ci chiama e conduce, eretti in piedi, col cuore in alto.


3. Vescovo fratello

Don Tonino si fa chiamare e firma “don”, come un prete qualunque. “Fratello vescovo” lo chiama Claudio Ragaini nella biografia che ne ha scritto (Don Tonino, fratello vescovo, Paoline, Milano 1994, quinta edizione riveduta e aggiornata 2003). Il vescovo della mia città dal 1965 al 1977, Michele Pellegrino, aveva chiesto di chiamarlo “padre”, scartando i tradizionali “eccellenza” e “eminenza” (che parevano in via di sparizione dopo il Concilio, ma hanno resistito tenaci). Fratello è ancora più evangelico di padre: «Non chiamate nessuno padre… tutti voi siete fratelli» (Matteo 23,9 e 8). Don Tonino chiama sempre fratelli i fedeli. Quando scrive alle confraternite di Ruvo su certe questioni relative alle modalità dei funerali, dice: «Io non voglio comandare, voglio solo persuadere» (Scr. A.B., vol. 5, p. 173).

Parlando di Oscar Romero (che sembra spesso prendere a modello del proprio ministero) lo definisce «vescovo fatto popolo», alludendo alla “conversione” di Romero, fatto vescovo signorile e diventato vescovo popolare. Il popolo di Dio è il laòs, i laici, ma certamente è tutti i fedeli di Cristo, perché anche i ministri nella chiesa sono questo popolo di fratelli. E nelle invocazioni a Romero, vescovo martire, con cui conclude quell’omelia del 23 marzo 1987, don Tonino dice: «Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla. Prega, vescovo Romero, perché la chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia». È il tema della “parresia”, che sentiremo ancora. E prosegue: «Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale» (Scr. A.B., vol. 2, pp. 157-164). È il grande tema della pace qualificata dalla nonviolenza attiva.

In una omelia dell’8 giugno 1988, poi pubblicata su Avvenire, dice e intitola: «La Chiesa deve giocare come serva del mondo», non (con allusione calcistica) come riserva. (Scr. A.B., vol. 2, p. 176). Servi nella Chiesa per il mondo, è il titolo di una riflessione pastorale del 1991, sulla fedeltà all’uomo, in cui chiede: «L’adattamento al vocabolario del mondo, l’attenzione alla sua sintassi, lo studio della sua temperie culturale, l’omologazione del suo codice espressivo (…) li interpretiamo sulla linea di quella fedeltà all’uomo che è condizione ineludibile di ogni impegno missionario?» (Scr. A.B., vol. 5, p. 98). La fedeltà all’uomo, all’uomo senza aggettivi, al popolo di tutti, al laicato universale, è condizione della fedeltà al mandato missionario di Cristo. «In fondo, il senso ultimo della missione è questo: fare compagnia al mondo come cristiani veri» (ivi, pp. 76 e 100). «L’integrazione tra fede e vita non può più limitarsi a contenere le prevaricazioni dei comportamenti etici senza sporgersi audacemente dai balconi della sacrestia» (ivi, p. 101). In una lettera ai «cari fratelli», che sono i fedeli diocesani, esorta ad approfondire la Parola di Dio, da cui «si scatenano i venti salutari dell’impegno nella storia» e a «simpatizzare con la cronaca in modo che diventi storia di salvezza». «Allenatevi al cambio. Custodite l’antico, ma non chiudetevi all’inedito. Levate il capo per intuire i tempi che arrivano. “L’estate è ormai vicina” (Luca 21,30)» (Scr. A.B., vol. 5, p. 244).

Al nuovo direttore del settimanale diocesano (quando fa una nomina non emette un decreto, ma scrive una calda lettera personale) pone il problema: «Le nostre comunità cristiane non hanno interlocutori all’esterno perché la linea telefonica con “gli altri” è caduta. (…) Si ha spesso l’impressione che Chiesa e mondo abbiano attorno un cordone sanitario con cui preservarsi da influenze reciproche. Non hanno più nulla da dirsi» (Scr. A.B., vol. 5, p. 165).

I laici sono evidentemente, per don Tonino, membri vivi e attivi della chiesa. Conferma nel 1986 i nuovi presidenti dell’Azione Cattolica, scelti dalla base, e scrive loro, tra altri bellissimi consigli: «Il Signore vi dia il gusto delle cose essenziali. Vi renda ministri della felicità della gente» (Scr. A.B., vol. 5, p. 167). E un successivo presidente, che nomina nel 1989, lo chiama «ministro di crescita ecclesiale» (Scr. A.B., vol. 5, p. 189). Nel 1987, saluta Filomena e Mario, missionari laici che partono per l’Argentina, con una lettera di sereni consigli e riflessioni, e conclude: «Con tutta la forza che vi deriva dal sacerdozio regale e profetico dei fedeli, vogliate tracciare su di noi un largo benedicente segno di croce» (Scr. A.B., vol. 5, p. 179).

Gli ultimi sono i primi, davvero, non a parole, nell’attenzione e nel cuore di don Tonino. Al punto che abbozza e ripete molte volte quella sua famosa, curiosa, divertente, e un po’ provocatoria, ma tanto vera, ecclesiologia del grembiule, «l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo», l’abito sacro comune a Gesù, ai preti, ai laici (Scr. A.B., vol. 5, p. 40; da questa pagina, fino alla p. 49, troviamo una delle esposizioni più ampie di questa immagine).

Gli piacciono molto le immagini concrete, ma poetiche, tratte dalla vita quotidiana più comune, casalinga, stradale, lavorativa, e questa è una laicità della sua parola e scrittura, come laiche sono la parabole di Gesù. Gli piacciono tanto che sente il bisogno, qualche volta, di scusarsi: «A volte mi accorgo di abusare delle immagini» (Scr. A.B., vol. 5, p. 278 e 188).

È un vescovo fratello, nella chiesa ma non solo: è fratello del mondo.

Le sue liturgie annunciano davvero il largo banchetto del Regno esemplificato nelle parabole di Gesù: invita poveri, storpi, zoppi e ciechi, nel corpo o nell’animo, insomma quelli che non possono ricambiare e ti rendono beato, perché dai senza riavere (Luca 14, 12-14). A questo scopo, ha delle invenzioni liturgiche, che oggi forse sarebbero rimproverate. Una, l’eucarestia della rosa e della strada, riferitami direttamente da una ragazza, «poco pratica di messe», che don Tonino aveva invitato a tradurre la messa in altre lingue, in un convegno internazionale, e coinvolta profondamente in questa liturgia, l’ho raccontata altrove: ad un certo punto della messa, egli tirò fuori da sotto l’altare un secchio di rose, ne diede una a ciascuno dei presenti perché andassero in strada a regalarla al primo passante e rimase ad aspettare tutto contento e sorridente. La ragazza esce, ma torna con la rosa: «Il primo passante che ho incontrato, che ha bisogno della rosa, sono io». Don Tonino l’abbraccia e le dice: «La prossima volta la invito a ballare, ma non a Molfetta, se no la gente chissà cosa dice»3.

La larghezza del banchetto del Regno, ma anche l’esigenza, che stabilisce la precedenza della pace sul culto, secondo quella parola: «Se stai per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e vai prima a riconciliarti con tuo fratello, dopo verrai ad offrire il tuo dono» (Matteo 5, 23-24). Don Tonino, non per la necessità di riconciliarsi, ma per rispondere alla chiamata improvvisa del vescovo Paolino, di Città di Castello, di andare in un liceo a parlare della pace, cioè della riconciliazione, depone i paramenti già indossati, lascia gli altri vescovi a concelebrare e va in quel liceo a fare uno dei suoi discorsi più organici sulla pace (Scr. A. B., vol 4, pp. 113-147). E in qualche altra occasione, che non ho rintracciato nei cinque volumi, ravviva e infiora la liturgia di gesti parlanti improvvisati, che propone alla vivace partecipazione dei laici.

 

4. Etica laica

Il vescovo Tonino Bello ha grande stima di una seria etica laica. Qui laica significa un’etica di non credenti, un’etica non accompagnata dalla fede nella presenza dello Spirito di Dio ad ispirare e sostenere la nostra vita morale, ma, al massimo, ammiratrice della sapienza morale del Vangelo.

Gaetano Salvemini (1873-1957) era nativo di Molfetta. Nel 1988, anche il vescovo interviene nelle Giornate Salveminiane, che si tengono in città, senza «nessuna voglia di annessione culturale», perché – lo ricorda lui stesso - «il grande storico molfettese» aveva scritto nel testamento: «Intendo morire fuori della Chiesa cattolica, senza equivoci di sorta». Poi dice: «Salvemini è stato e rimane un anticlericale tutto d’un pezzo e senza cedimenti. Mai, però, volgare o sguaiato. Anzi, così fine e, soprattutto, così nutrito di sofferte ragioni etiche, che oggi perfino il vescovo della città che gli ha dato i natali, un paio di anticlericali del genere, se li vorrebbe sempre a ridosso. Se non altro, perché lo aiuterebbero a preservare il messaggio di Cristo da contaminazioni mondane e da inquinamenti di potere». Cita poi, tra altre, queste parole di Salvemini: «La vecchierella che, pregando innanzi all’immagine della Madonna, trova conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta l’acqua nel mortaio delle sue astrazioni». Salvemini, dice il vescovo, «ha lasciato trasparire unicamente una indomita passione per la libertà e il rifiuto viscerale per le posizioni discriminanti di privilegio accordate a chiese o gruppi o persone». E cita ancora dal testamento di Salvemini: «Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù sia stato figlio di Dio o no, è essere cristiano, allora intendo morire da cristiano, come cercai di vivere, senza purtroppo esserci riuscito». Termina don Tonino queste pagine luminose per larghezza di cuore e di mente, dicendo (in termini che si riferiscono a passaggi qui omessi): «C’è da esser certi che il Signore, sensibile ai galantuomini increduli non meno di quanto sia indulgente con le canaglie credenti, abbia accolto ugualmente nella sua pace questo profeta laico del suo Regno» (Scr. A.B., vol. 5 , p. 59-63).

Mi viene spontaneo accostare questo ritratto di Salvemini fatto da Tonino Bello alla figura di Norberto Bobbio, col quale ebbi, come tanti altri suoi allievi, un intenso colloquio, tra consensi sinceri e aperti dissensi. Gli uomini e le donne che hanno cercato, pensato, che si sono spesi per la verità umana, per la giustizia pacifica tra uomini e popoli, per la libertà e la dignità di tutti, li ritroveremo tra coloro che chiedono al Signore: «Quando ti vedemmo affamato e assetato, profugo e prigioniero?» (Cfr Matteo 25, 31-46). E speriamo che possa esser data anche a noi la risposta che sarà data a loro. Un pensiero di Bobbio citato volentieri dal cardinale Martini era questo: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa seriamente ai grandi problemi della vita»4.

Don Tonino, in una lettera del 1985 a chi opera nel volontariato, ringrazia varie categorie di volontari, e alla fine dice: «Grazie, infine, a voi volontari non credenti, che, pur non essendo sostenuti da speranze ultramondane, vi prodigate per alleggerire la croce degli uomini. Voi non lo sapete, ma quella è la croce di Dio» (Scr. A.B., vol. 5, p. 285).

 

5. Vescovo della pace nonviolenta

Compito dei laici nel mondo è principalmente la pace nonviolenta, in tutto il suo significato positivo, attuazione nella storia di valori spirituali alti.

Scrive Enzo Bianchi: «Oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa però che la pace è nello stesso tempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani»5.

«La passione più significativa e importante del cristiano è il cambiamento del mondo, della vita. Ne va della sua identità», dice Nino Fasullo, direttore della rivista Segno, di Palermo, parlando di Chiesa e mafia (Ricerca, mensile della Fuci, giugno 2004, p. 28-30).

Il vescovo Tonino Bello è noto soprattutto come vescovo della pace, intesa come nonviolenza attiva. Tutti i vescovi sono vescovi di pace, ma purtroppo ci dobbiamo ricordare – caso estremo - che un vescovo militare, nell’occasione della partecipazione italiana alla guerra della Nato alla Serbia per il Kossovo, nel 1999, parlò del «dramma degli uomini che guidano i bombardieri e sanno che la loro azione, fatta per la pace, può uccidere vite umane. Nessuno pensi che questi uomini fanno il loro dovere a cuor leggero. (…) La guerra è sempre ingiusta, purtroppo, però, a volte è inevitabile» (dal comunic@to di Pax Christi, 15 maggio 1999). Fu criticato dai confratelli, a quanto ne so, meno di quanto lo fu don Tonino per le sue scelte di pace, come documenta ampiamente Ragaini6. Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, nel citato comunic@to, esprimeva «profondo sconcerto» di fronte a queste dichiarazioni emesse durante il I Sinodo della “Chiesa Militare”, scrivendo: «Ci sembra un tentativo impossibile di tenere il piede in due staffe. Non possiamo accettare che la guerra sia definita “sempre ingiusta” e poi ritenuta “inevitabile”. Se tutto questo ci sembra così lontano da una logica umana, come è possibile conciliarlo con la “profezia evangelica”?».

Come i vescovi, quasi tutti i buoni cristiani sono per la pace, ma non tutti ne individuano la via centrale nella nonviolenza attiva. Alex Zanotelli, voce di profeta in questi amari anni, mostra bene come Gesù è l’inventore della nonviolenza. Nella situazione di oppressione del suo popolo, sotto l’impero romano, sente anche personalmente la tentazione della violenza, ma inventa segni e azioni tipiche della lotta nonviolenta. Proprio quelle azioni paradossali suggerite da Gesù nel Discorso della montagna, che per secoli sono state intese come atti di rassegnazione e sottomissione, oggi sono finalmente capite e spiegate, in quel contesto storico concreto, come azioni di ribellione, indipendenza, dignità, con la forza sana e giusta della nonviolenza. Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri. Discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni Emi, mostra bene che presentare la guancia sinistra, dare anche la tunica a chi ti sequestra il mantello, restando nudo, fare un miglio in più di quello a cui ti costringe l’occupante, erano azioni di mite provocazione, che mettevano il prepotente in difficoltà, che ristabilivano la dignità offesa, che liberavano l’oppresso dalla soggezione, che indicavano possibile la liberazione nonviolenta. Ho riassunto queste pagine in un articolo, intitolato Gesù non era scemo (il foglio, n. 313, giugno 2004, p. 5; www.ilfoglio.org).

Zanotelli ricorda che, come sappiamo, soltanto piccole minoranze cristiane, emarginate come eretiche, restarono fedeli alla nonviolenza attiva di Gesù, fino a quando Tolstoj la riscoprì, scomunicato dalla sua chiesa, e Gandhi la imparò da Tolstoj, anche se la ritrovò pure nella sua tradizione indù, e Capitini, religioso fuori dal cattolicesimo, introdusse Gandhi in Italia, e Gandhi la insegnò ovunque nel mondo ai cristiani e ai musulmani, i quali entrambi – anche i musulmani7 - poterono riscoprirla entro le proprie sacre scritture. Nel cattolicesimo italiano, Tonino Bello è in prima linea in questa riscoperta.

Tuttavia, la nonviolenza, in tutta la cultura della nostra società, e dunque anche nella cultura cattolica, è ancora poco conosciuta o mal conosciuta, o addirittura scientemente avversata, da chi ha fede o interesse alla violenza, come se fosse una resa alla violenza. Un sintomo è che molti continuano a scrivere il termine in due parole staccate, che significano: non compiere violenza. Cioè, la nonviolenza è pensata come una buona negazione: non fare il male. Ma essa è ben di più di questo passo, necessario ma non sufficiente. Essa è una forza attiva per la soluzione costruttiva, e non distruttiva, dei conflitti. La forza è una qualità umana, diversa e contraria rispetto alla violenza. Forza e violenza sono confuse nel linguaggio, anche volutamente, ma sono l’una l’opposto dell’altra. La forza costruisce, la violenza distrugge. Se oggi la cultura nonviolenta progredisce nelle chiese italiane è anche per merito di don Tonino Bello.

La nonviolenza è assai più del pacifismo. Questo si oppone alla guerra ricercando alternative alla violenza bellica nella soluzione dei conflitti. La nonviolenza è ricerca di superamento di tutte le violenze: non solo quella diretta, fisica, bellica, ma – ancora di più – le violenze meno visibili, meno ripugnanti, perciò più sopportate e persino giustificate, che sono le violenze strutturali e le violenze culturali. Cioè, le strutture giuridiche ed economiche che stabiliscono e mantengono rapporti di ingiustizia, quindi di violenza statica; e le idee che accettano, giustificano e persino esaltano le discriminazioni, il disprezzo, il dominio: cioè le idee razzistiche, oppure la gerarchia di valore tra civiltà superiori e inferiori. L’ingiustizia e il dominio sono anche più gravi della guerra, perché uccidono e offendono persone umane in quantità e continuità molto maggiori, e sono meno visibili e appaiono spesso qualcosa di inevitabile e persino naturale. Abbiamo persino chiamato questi peccati strutturali “volontà di Dio”, con cui Dio ci punisce e ci corregge, quindi da accettare dalle sue mani, con rassegnazione. Abbiamo generalmente insegnato, come chiesa, ad obbedire alle autorità politiche, senza giudicare in coscienza - “presuntuosamente”, si diceva - se le loro decisioni e comandi, anche di guerra, erano giusti o violenti. Chiediamo a Ernesto Balducci e a Lorenzo Milani se le voci ufficiali della Chiesa sono state con loro o contro di loro nel difendere la coscienza di pace dei primi obiettori laici, credenti o non credenti, pagata col carcere dello Stato e con l’abbandono morale da parte della Chiesa. Chiediamo a Franz Jägerstätter (un anno fa abbiamo fatto un pellegrinaggio a St. Radegund, nell’alta Austria, alla sua tomba umile e luminosa, nel 60° del martirio per decapitazione; c’era con noi il vescovo Bettazzi), chiediamogli se la chiesa, che oggi ne promuove la beatificazione, lo capì e lo sostenne nel suo solitario rifiuto della guerra nazista, confortato solamente dalla moglie Franziska, o se lo lasciò abbandonato e disapprovato.

In quel tempo e in questi casi, la Chiesa faceva violenza culturale, per ignoranza, leggerezza, paura dei potenti, e dimenticava le azioni di Gesù per ridare dignità agli ebrei oppressi dai romani. Primo Mazzolari dovette pubblicare anonima la prima edizione del suo altissimo Tu non uccidere, perché nel clima della guerra fredda, con la Chiesa incorporata (embedded) nell’Occidente, parlare di pace, anche nella Chiesa, era considerato fare da quinta colonna al nemico comunista8.

Nel mondo religioso oggi cala, grazie a Dio, la rassegnazione alla guerra, ma non cala altrettanto la rassegnazione ad altre violenze più sottili e insidiose: il violento dominio dei popoli ricchi sui poveri; la violenza economica a cui noi tutti – confessiamolo come peccato collettivo - prendiamo parte con vantaggi che non siamo disposti a perdere, come è necessario; la violenza di una cultura possessiva, per la quale – lo denuncia Naomi Klein -«l’avidità è una cosa positiva» (Internazionale, 3 settembre 204, p. 30), e non cresce altrettanto l’indignazione, la parola franca e la lotta nonviolenta per superarle. Se un prete dice queste cose nell’omelia sembra a tanti buoni cristiani che “faccia politica”. Zanotelli che le dice non trova con sé tutti i cattolici.

L’impegno del vescovo Tonino Bello per la pace non è soltanto la condanna della guerra direttamente omicida, ma è anche l’opera strenua di accoglienza dei poveri che migrano in cerca di libertà e di vita migliore; è anche il giudizio di condanna sull’apparato militar-industriale, che deve inventare le guerre per realizzare profitti di morte; è anche la sua partecipazione attiva, persino a pochi mesi dalla morte, ad una esemplare azione di intervento di pace dentro l’inferno della guerra jugoslava; è la sollecitazione a vedere la violenza della dominante economia omicida e disumana. Ed è, il suo impegno per la pace, una frequente e sempre più chiara riflessione, anche spirituale e teorica, sulla nonviolenza attiva, sulla obiezione di coscienza all'organizzazione della guerra, e sulla positiva strategia di pace.

Egli scrive il 6 febbraio 1992 su il manifesto: «Il diritto a difendersi non l’ha mai contestato nessuno. (…) Rassegnarsi al sopruso appartiene al genere della vigliaccheria, non all’esercizio della virtù cristiana. (…) Ma difendersi come? (…) Oggi, dopo il lampo di Hiroshima, non è più possibile difendersi con la guerra. L’esplosione atomica, spartiacque nella storia della specie umana, ha posto fine per sempre alle regole del vecchio realismo politico (…). Da quel tragico fungo nucleare, è finita l’epoca della guerra giusta. Nulla può essere più come prima. Ogni guerra è diventata iniqua. La difesa armata, perciò, risponde a una logica preatomica che tutto può partorire fuorché pace e giustizia». Si tratta dell’idea centrale nella Pacem in terris di Giovanni XXIII, che parlò, nel 1963, più chiaramente del Concilio: «Nell’era atomica, è “alienum a ratione”, cioè è pazzesco, pensare che la guerra possa essere strumento di giustizia».

E don Tonino continua: «Ed ecco l’alternativa della difesa nonviolenta. Che non è un tenero sentimento per novizie. Ma che oggi è diventata una scienza articolata e complessa che si avvale di grandi maestri e di una ormai incontenibile produzione bibliografica. (…) Che ha già una storia di successi alle spalle» (Scr. A. B., vol 4, p. 294 e 243)9.

Quella di Tonino Bello è l’azione e l’insegnamento di un vescovo, che si confonde tra i laici nella spedizione a Sarajevo come in tanti convegni e incontri per la pace. È un richiamo e un aiuto a vedere e vivere la fondamentale vocazione laica alla costruzione giusta e pacifica del mondo e della storia umana. Quando Pietro scrive a comuni cristiani: «Voi siete un sacerdozio regale» (1 Pietro 2, 9), afferma quel positivo compito e carisma dei laici, che il Concilio è tornato a riconoscere e valorizzare, di gestire il mondo con quella responsabilità che era nell’immagine ideale dei re biblici, cioè la responsabilità di esercitare la giustizia e costruire la pace, difendendo gli ultimi, risarcendo le vittime, tagliando le unghie agli avidi, togliendo ogni forma di violenza, ristabilendo l’uguaglianza violata dalla possessività. Per questo siamo re, siamo tutti re. È questo il compito proprio di ogni cittadino attivo, è il compito speciale di chi assume impegni politici, compito che il laico cristiano sente in sé, non certo in una posizione di qualche superiorità rispetto agli altri, ma certo con una particolare coscienza e speranza, sospinto e animato dall’appello e dal carisma della regalità responsabile che Dio affida agli uomini nel mondo.

Nessuno potrà mai accusare Tonino Bello di silenzio o di inerzia davanti alle violenze sistematiche dei potenti, nei suoi anni.

«I cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro». (Scr A.B., vol. 4, p. 315). Così scrive don Tonino, con verità profetica, in uno dei tanti articoli in difesa dell’azione dei pacifisti, rispondendo al ritornello dei tanti “realisti”, che davanti ad una strage di guerra chiedono: «Dove sono i pacifisti?», come se ad essi toccasse fermare le guerre che i “realisti” accettano.

L’11 gennaio 1992, Tonino Bello scrive su Avvenire: i pacifisti «non hanno smesso di gridare che la guerra è sempre sporca e non c’è aspersorio, laico o clericale, che possa purificarla, che le armi sono fisiologicamente inadatte a partorire la pace, che non ci sono mai cause di forza maggiore che possano legittimare l’uccisione di una sola vita umana, che la distruzione di tutte le chiese [ciò che stava avvenendo in Jugoslavia] è un delitto che non pareggia la gravità dell’annientamento di un uomo soltanto; che vanno incoraggiate tutte le madri che, in Serbia o in Croazia, implorano i figli a deporre le armi» (Scr. A.B., vol. 1, p. 115). Dunque, la vita di una qualunque persona vale più di una chiesa, come afferma anche la tradizione islamica riguardo alla moschea della Mecca. E le madri che invitano i figli a disertare la guerra sono da lodare.

Sono talmente tanti i testi del nostro vescovo sulla pace e sulla nonviolenza, cui è dedicato un intero volume, il 4°, della raccolta dei suoi scritti, che ho scelto di prendere come riferimento principale, per esporre soltanto qualcosa del suo pensiero, le idee che trovo in un suo discorso con dibattito, sulla pace, l’obiezione di coscienza, la società, tenuto nel liceo classico di Città di Castello il 25 ottobre 1998 (Scr. A.B., vol. 4, p. 113-147).

Più volte il vescovo della pace denuncia il «mito della difesa armata» (Scr. A.B., vol. 4, p. 117; 140-141): si tratta di quella «ideologia della violenza» smascherata dai filosofi della pace (cfr Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa, Ed. Plus 2004), per la quale contro la violenza non c’è altro mezzo efficace che altra violenza, necessariamente maggiore, con l’effetto di stabilire e legittimare la violenza come regina della storia, catena senza fine. Di questa ideologia, di questo mito, sono ancora prigioniere quasi tutte le politiche, di destra come di sinistra, sebbene alcuni segni iniziali ma preziosi di ripensamento e di dibattito emergano anche in alcuni settori del ceto politico, e non solo nella cultura nuova di base10.

Don Tonino sa bene che la difesa dei giusti diritti aggrediti non è solo un diritto, ma un dovere, però crede e pensa nella direzione della difesa nonviolenta, sostenuta dalla popolazione. Non possiamo ora addentrarci più di tanto in questa cultura di lotta, in questa strategia di pace nei conflitti, che è un ampio campo di lavoro della cultura di pace, una ricerca che non parte da zero, che ha una storia per lo più ignorata e anche occultata (vedi la bibliografia storica appena citata), che ha delle possibilità che la politica di pace deve conoscere e sviluppare. Don Tonino fa la sua parte incoraggiando a cercare in questa direzione.

Egli è uno dei pochi personaggi in vista nella società, capace di cogliere che la difesa popolare nonviolenta ha il valore pratico di emancipazione dalla guerra, di sostituto all’uso delle armi omicide. La indica spesso come la direzione di ricerca e la prassi da percorrere, per un effettivo e non declamatorio impegno di pace. Questa ricerca ha un momento negativo, le obiezioni di coscienza, e uno positivo, le azioni nonviolente.

Il momento “negativo”, nella costruzione di un modello di difesa non militare e non omicida, è l’obiezione di coscienza all’addestramento militare, al lavoro di costruzione delle armi e al loro commercio, alle alte spese militari dello Stato, obiezioni di cui il vescovo parla spesso; l’obiezione alle spese militari la pratica lui stesso, come qualche altro vescovo. Quando ne fa la propaganda, è consapevole, con una battuta, di compiere una piccola illegalità: «Questo non lo posso dire in pubblico, perciò è come se non l’avessi detto» (Scr. A.B., vol. 4, p. 130). Infatti, per un certo periodo, chi proponeva questa obiezione – che non era sottrarre denaro dovuto al fisco, ma dirottarlo su opere di pace, con l’effetto, alla fine, di pagare il doppio nell’esazione forzata – veniva incriminato per istigazione a disobbedire alle leggi, ma nei processi gli accusati vennero tutti assolti.

Il momento “positivo”, per Tonino Bello, consiste nella preparazione e disponibilità ad azioni e presenze personali organizzate, in zone di conflitto, per la prevenzione, la mediazione, la riconciliazione, prima, durante e dopo i conflitti acuti, a rischio di degenerazione o già degenerati in violenza. L’esperienza iniziale, già avviata in numerosi casi, della difesa popolare nonviolenta, ha visto lui stesso partecipare, già gravemente malato, deciso ad andare «anche con le flebo addosso» alla marcia di pace a Sarajevo, nel dicembre 1992, dove espresse tutta la sua profezia.

Torniamo indietro: 1991, Guerra del Golfo. Le speranze dell'89, anno delle più grandi rivoluzioni nonviolente della storia (si veda il libro più documentato su questo punto: Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995), sono spente dalla ostinazione dei "vincitori" della guerra fredda a volere rilegittimare la guerra, come criterio e metodo di soluzione dei conflitti. Una guerra, si badi bene, non a difesa del diritto internazionale e dei popoli, spesso e largamente violato da molti altri senza alcuna risposta bellica, quanto del primato e degli interessi materiali dei potenti del mondo, come essi stessi affermeranno di lì a poco nei "nuovi modelli di difesa" che dichiarano a chiare lettere tali fini e prendono esplicitamente a modello la Guerra del Golfo11.

Tonino Bello è in prima fila, con enorme pena interiore, con mille instancabili iniziative, nell'impegno totale per la pace, che fa onore in quel momento alla Chiesa, ma c’è una cosa che lo distingue: in una lettera ai parlamentari dell'inizio di gennaio 1991 prospetta come extrema ratio ciò che nessuna autorità morale - salvo Oscar Romero, nell’ultimo suo appello ai militari a disobbedire agli ordini di morte - ha detto, né allora né poi: la possibilità di «dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l'enorme gravità morale dell'uso delle armi» (Scr. A.B., vol. 4, p. 223). Lo leggiamo anche nel Vangelo: «Come mai non sapete capire questo tempo? Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Luca 12,56-57).

È vero che poi, scoppiata la guerra, Tonino Bello non rivolse questo appello alle coscienze dei soldati che la combattevano. Ma quel suo avvertimento resta indicativo di quello che sarebbe il modo più proprio al magistero morale della chiesa, se la chiesa è una fraternità di coscienze, di opporsi alla guerra e indicare la pace12.

Solitamente l'appello morale pratico contro la guerra da parte di vescovi e papi è rivolto alla buona volontà dei responsabili politici, dei governanti, non alle coscienze dei cittadini e dei soldati chiamati ad eseguire le politiche di guerra. Perché? Timore di interferire coi poteri economici e politici? Non c'è però un uguale timore di entrare d'autorità nella vita intima e spesso difficile delle persone, con l'imporre alle coscienze obblighi di etica sessuale dettagliatamente definiti in tutto il loro peso. Sembra, davanti a questo fatto, che il magistero morale della chiesa cattolica sia più delicato coi poteri forti che con le persone deboli e alle prese con difficoltà a volte drammatiche, che pesano per lo più sulle donne.

Tonino Bello, dunque, poneva nel 1991 il problema della guerra e della pace a quell'istanza suprema che è la coscienza personale, certo non isolata ma responsabilmente decisiva. Questo è eversivo. Craxi e il "Giornale" di Montanelli rispondono con l'irrisione e l'insulto. Il deputato repubblicano Gaetano Gorgoni, conterraneo di don Tonino, cita il Qohelet per dargli del pazzo. Ma Tonino Bello ripete, ancora più chiaramente, in una intervista televisiva, che se un pilota non può, in coscienza, bombardare i civili, deve avere il coraggio di disertare. Dell'ammiraglio Buracchia, privato del comando della spedizione navale italiana nel Golfo perché ha dichiarato che «la guerra si poteva evitare», dice con ammirazione: «Ha dato voce e libertà alla sua coscienza» (C. Ragaini, op. cit., p. 118, 119, 122, 123).

Ma il consiglio permanente della Cei, per bocca di Ruini, prende le distanze: «Le scelte politiche non ci competono». Come se la guerra fosse una scelta politica, e non invece l’uccisione, oltre che di vite umane, anche della politica umana. Così altri vescovi, come Biffi e Saldarini, dicono in sostanza: pace si', pacifismo no. Questa posizione, oltre che una facile scappatoia verbale, appare vittima dell'errore di pensare il pacifismo unicamente come rinuncia per viltà alla lotta giusta, ma questo senso della parola è superato dalla attuale cultura della pace e dalla realtà dei movimenti seri per la pace, ispirati largamente alla nonviolenza attiva, più profonda e ampia di un limitato pacifismo.

Anche nell'episcopato pugliese Tonino Bello incontra posizioni differenti dalle sue. La maggiore amarezza gli viene dagli ambienti ufficiali della città, dalla Democrazia Cristiana, da alcuni settori del suo clero, anche da una parte del consiglio pastorale, che non capiscono né condividono le sue posizioni radicali contro la guerra e l'intervento italiano (C. Ragaini, op. cit., p. 124-127). «La cosa che più mi fa soffrire - commenta il vescovo Tonino - è di vedermi delegittimato nella mia funzione di pastore. Se un vescovo non può appellarsi alla coscienza, cosa gli resta? Decidere dei colori dei paramenti?" (Cfr Ragaini, op. cit, p. 128). Appellarsi alla coscienza è il compito primo del vescovo, per don Tonino Bello. Il quale, nella sofferenza, sa sollevare il proprio animo con una battuta.

Prima della guerra oggi in corso in Iraq, la più ingiustificabile e illegale delle guerre, se mai alcune si potessero giustificare, una suora clarissa – siamo qui, vicini a santa Chiara - da un convento di clausura italiano, fece circolare sulla posta elettronica un appello al Papa, che stava parlando con energia profetica contro la guerra, perché, appunto, facesse un passo di più, si rivolgesse alle coscienze di chi la guerra la fa, non solo di chi la decide, esortandoli, con rispetto della loro libertà e responsabilità, a considerare il dovere di negare collaborazione al male, obiettando, disobbedendo civilmente, cioè accettando di pagarne le conseguenze. Ci fu nella rete un’ampia circolazione e molte adesioni a questo appello. Siamo quasi certi che l’appello arrivò “in alto”, come si suol dire, ma non ci fu alcun segno di risposta o di considerazione. Avranno avuto le loro ragioni. Ma quella piccola clarissa intraprendente non ha più scritto in rete. Recentemente ho saputo da altri che è stata assai rimproverata, “tartassata” per i suoi interventi, da diverse parti, anche parecchio in su. Don Tonino la conforterebbe. Cercherò di farlo io che so dove trovarla.

Molti altri temi potrebbero essere raccolti nel pensiero di Tonino Bello sulla pace nonviolenta: la parresia (il coraggio di dire tutto); il punto di vista degli oppressi; la spiritualità di pace; la cultura di pace; la strategia e il progetto concreto, perché i princìpi non bastano; il valore dell’utopia; il valore politico del perdono, che corrisponde, dice don Tonino, al disarmo unilaterale (Scr. A.B., vol. 4, p. 141), cioè all’iniziativa unilaterale nel disarmo (come fece Gorbaciov); eccetera.

Un tema solo ricorderò ancora: la tentazione cattolica del “Prodigio”. Don Tonino interpreta le tre tentazioni di Gesù nel deserto, come le tentazioni del Profitto, del Potere, del Prodigio. «Nel mondo dei credenti molte volte diciamo: “Tanto la pace viene da Dio; noi possiamo fare ben poco, così è stato sempre; piuttosto mettiamoci in ginocchio, imploriamo la pace; il Signore farà un prodigio!”. La tentazione del Prodigio è una tentazione frequente. Si vuol togliere un po’ dalle nostre mani, dal nostro impegno, questa forza» (Scr. A.B., vol. 4, p. 116-119). Si vuole neutralizzare la forza della preghiera, spingendola dove non incontra la forza di Dio.

Effettivamente, avviene spesso così. Bisogna capire: è tale la mostruosità delle potenze violente, è tale la difficoltà di capire le arti del male, che per tanti, spesso per tutti, sembra che non resti altro che pregare: piangere e pregare. Eppure, Dio ha già risposto alla nostra preghiera: «Vi ho dato la coscienza, vi ho dato l’intelligenza, vi ho dato la politica, che è la forza di agire insieme. Usate questi miei doni. Il prodigio è questo. Il mondo è nelle vostre mani, questa è la laicità. Io sono con voi, come dissi a Mosè quando lo mandai a sfidare il Faraone». Chiedere di più a Dio per fare e rischiare noi di meno, è una tentazione suggerita dal diavolo, avversario di Dio e degli uomini. Ma appare come una buona tentazione, una pia tentazione. Don Tonino ci avverte in più occasioni. Pregare dà un’anima all’azione, ma non basta se non spinge all’azione, fuori dalle coperture, assumendo responsabilità e rischi, ognuno come può. Anche la vecchina che non può uscire di casa, ma mette la bandiera della pace alla finestra, fa la sua politica di pace.

Tante persone buone, se non sono aiutate, cadono in quella tentazione religiosa, che Gesù respinse. Tanti pensano: se cerchiamo di essere buoni nella vita privata, nei rapporti personali, facciamo tutto il possibile per la pace. Non è vero. Se anche diventassimo tutti molto molto buoni, un grande passo sarebbe fatto, ma non verrebbe ancora la pace. Persone buone in strutture cattive fanno cose cattive. Persone buone su un treno che schiaccia vittime, se appena lo sanno, e non legano il macchinista e non fermano il treno, tutte insieme, non sono più buone, sono complici passive della violenza. Il fatto è che la guerra, ogni violenza, non è solo opera di persone malvagie, è anche effetto di culture e di strutture, di feroci interessi mascherati da valori. È necessario che io sia buono, ma non è sufficiente. Se non operiamo, ognuno come può, a modificare le culture, a rompere le strutture violente, a smascherare i falsi valori, la nostra preghiera per la pace non è sincera e responsabile. Pregherò ancora di più e meglio, e poi boicotterò certa televisione e certi prodotti commerciali, mi informerò in un modo invece che in un altro, starò in contatto con altri, nelle associazioni e nei movimenti per la giustizia e la pace, non starò più tranquillo, non avrò schifo della politica, ma sarò un cittadino attivo – ognuno come può – per una politica umana. Non sarò in pace se non c’è pace. La religione, la carità si traduce in politica come servizio, non certo come potere proprio: è un pensiero centrale in Gandhi, in Capitini, ed anche in Tonino Bello.

Don Tonino racconta la parabola del Samaritano moderno: l’industriale che regala l’ambulanza per soccorrere le vittime dell’inquinamento prodotto dalla sua fabbrica, è come il sacerdote e il levita che passano oltre; il Samaritano è il volontario che muove un’azione di popolo per eliminare quell’inquinamento (Scr. A.B., vol 4, p. 126-128).

Il 19 settembre del 1987, Tonino Bello parla a Padova, ai medici impegnati per il Terzo Mondo, sulla nonviolenza in una società violenta. E ricorda che pochi giorni dopo, il 4 ottobre, i vescovi della Puglia sarebbero venuti qui, ad Assisi, ad accendere la lampada della pace sulla tomba di Francesco. Legge alcune righe di un suo articolo che non era stato pubblicato – ma per bontà non dice da quale giornale – nelle quali righe traspare il suo dolore per il fatto che la reazione dei movimenti cristiani nonviolenti alla spedizione militare navale italiana nel Golfo Persico, «la prima oltre confine», aveva incontrato non solo il distacco e la derisione di certi organi di stampa, ma anche «la prudenziale abbottonatura con cui, come Chiesa, abbiamo evitato di prendere una chiara posizione sul problema». Si augura che quelle navi non sparino un colpo, «ma un primo siluro l’hanno già lanciato (…) contro la nave-scuola su cui da ormai cinquant’anni impartiscono lezioni di pace Gandhi, Luther King, Tillich, Capitini, La Pira, Lanza del Vasto, Helder Camara, don Milani, Bobbio, Bettazzi e così via» (ma dimentica Mazzolari). (cfr Scr. A.B., vol. 4, pp. 55-57). Eppure, don Tonino non si scoraggia. Accende sempre di nuovo la lampada, accanto a san Francesco.

 

6. Conclusione

«Ogni discorso resta a mezzo» (Qohelet 1,8, traduzione Paolo Sacchi). Tante altre parole e altri profili di Tonino Bello in rapporto ai laici nella Chiesa e nel mondo, si trovano nei cinque volumi dei suoi scritti, oltre che nella memoria diretta che possiamo averne. Si può illustrare assai meglio la sua teologia e pastorale sul laicato. Ma non è forse laicato, laòs, popolo unico, tutta la chiesa, certo con varietà di funzioni e carismi, ma senza quella secolare divisione nei «duo genera christianorum» (due generi di cristiani, laici e clero) di cui parlava il Decretum Gratiani, del 1140? Specialmente sulla pace, don Tonino, con le sue analisi e le sue azioni, fa anche la parte dei laici, e i laici, a volte, fanno la parte del magistero, quando questo tace. A me sembra una felice confusione!

Noi laici pecchiamo spesso o di passività, o di indifferenza, o di ipercritica verso i vescovi; delle tre, meglio la critica, se è seria e se si accompagna all’impegno nella pasta del mondo e nella pasta della chiesa.

Noi laici dobbiamo assai di più aiutare i vescovi, superare la “cortina di carta” (come diceva don Milani). Ma possiamo anche chiedere una cosa ai vescovi. Don Tonino non chiamava il barbiere in vescovado per farsi tagliare i capelli (G. Amaini, Un addio a don Tonino, in Avvenire, 29 aprile 1993, p. 20), ma arrivava nel negozio e aspettava il suo turno, parlando con tutti. Certo, il suo era un carisma speciale, che non è di tutti. E per tante comprensibili ragioni questo non è sempre a tutti i vescovi possibile. Ma se incontrassimo qualche volta il nostro vescovo dal barbiere, o in panetteria, e non solo nei documenti della Cei, che sono molti e lunghi (anche questa mia relazione è tanto lunga…), forse gli parleremmo e lo ascolteremmo di più.

Enrico Peyretti, Assisi, 15 settembre 2004

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Convegno di studi L’ecclesiologia in don Tonino Bello

Assisi 14-16 settembre 2004


1 Rodolfo Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare, 3ª edizione, A Giuffré editore, 1999, p. 46, che cita Massimo Toschi, Pace e Vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980, p. 26.

2 Giovanni Paolo II, Lett. ap. Ordinatio sacerdotalis (22 maggio 1994); AAS 86 (1994), 545-548; Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposta al dubbio circa la dottrina della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (28 ottobre 1995); AAS 87 (1995), 1114.

3 Cfr E. Peyretti, La santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino Bello, in AA.VV. Modelli di santità oggi, a cura di Giuseppe Toffanello, Edizioni Messaggero, Padova 1997, pp. 75-76.

4 In un’altra occasione raccolsi più elementi su questo argomento: vedi E. Peyretti, La santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino Bello, citato, pp. 73-102, specialmente pp. 85-94, Santi senza Dio?. Su Bobbio, sotto questo profilo, segnalo, nell’attesa di pubblicare qualcosa della intensa corrispondenza che ho avuto con lui, l’articolo che ho scritto su di lui dopo la sua morte, Bobbio, il senso della democrazia, in Mosaico di pace, n. 2, febbraio 2004, pp. 10-11 (in edizione più ampia col titolo Bobbio, la vita, la pace, la religione, nel sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti

5 Enzo Bianchi, in AA.VV., La pace dono e profezia, Magnano, ediz. Qiqaion, 1991, p. 5).

6 Vedi E. Peyretti, La santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino Bello, citato, pp. 97-98, dalla fonte Ragaini, Don Tonino, fratello vescovo, 5ª edizione citata, pp. 124-128.

 

7 Posso rinviare al mio La politica è pace, Assisi, Cittadella editrice 1998, pp. 124-135, ma, nel frattempo, la ricerca sul pacifismo islamico è avanzata, nonostante pesanti fenomeni di violenza politica che abusa del nome dell’islam, come altri abusano del nome cristiano, fenomeni entrambi utili ai fautori della guerra tra civiltà.

8 Scritto nel 1952, il libretto uscì anonimo, grazie all’editrice La Locusta, di Rienzo Colla, nel 1955 e 1957, e gli procurò delle noie ecclesiastiche. Solo la terza edizione, nel 1965, poté portare il nome dell’Autore.

9 Segnalo, a questo proposito, la bibliografia da me curata Difesa senza guerra, sui molti casi storici di lotte nonviolente, nel sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti



10 Cfr AA.VV., Agire la nonviolenza, Atti del convegno del Partito della Rifondazione Comunista, San Servolo, Venezia, 28-29 febbraio 2004, Milano, Edizioni Punto Rosso, novembre 2004. Un contrastato dibattito si è aperto in quel partito, documentato dalla stampa e da precedenti opuscoli.

11 Per la critica dei "nuovi modelli di difesa" statunitense, tedesco e italiano mi limito qui ad indicare il libro, pensato da Ernesto Balducci, di U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'impero, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1992, e il più breve degli articoli da me scritti sull'argomento, Difendere che cosa? e come?, in Rocca, 1 dicembre 1994, p. 47. Ho disponibile una scheda, Denuncia del Nuovo Modello di Difesa, con citazioni letterali da quei documenti di politica militare aggressiva e incostituzionale, mai rinnegati da nessuno dei successivi governi italiani, ed anzi promossi e messi in pratica.

 

12 Un chiaro esempio di questa convinzione è l’intervento di un noto teologo della pace che invita i cappellani militari all'obiezione di coscienza.
Su Famiglia Cristiana del 9 febbraio 2003 leggiamo la risposta del teologo Giuseppe Mattai alla lettera di un prete, don Gennaro, che chiedeva: "in una guerra come quella all'Iraq, un cappellano può assolvere un pilota che bombarda innocenti? Se abortire è un peccato, che dire di chi si arruola in una struttura di morte?". Replica il teologo: "il militare che, in questa guerra "preventivata" ad ogni costo, partecipa direttamente ad azioni omicide, coinvolgenti un numero sempre maggiore di civili e, lungi dal sollevare obiezioni di coscienza, si ostina nella sua decisione, non può essere assolto". Non solo, P. Mattai sottolinea che il bombardiere è anche più responsabile di un abortista, "sia per il numero delle persone che sopprime e le distruzioni che arreca, sia per le possibilità che gli vengono offerte da un'obiezione di coscienza, sostenuta da tanta parte della pubblica opinione e dal sensus fidei degli aderenti a Chiese cattoliche e non, uniti nella condanna etica, giuridica e politica di questa guerra". Il settimanale quindi invoca l'obiezione di coscienza per i cappellani militari che, pur partecipando con azioni non militari, non possono dare l'impressione di giustificare questa guerra.