Tre subalternità: da Seattle a Praga (2000) (Peppe Sini)

[Ripubblichiamo un intervento diffuso il 4 ottobre 2000 e già pubblicato su questo foglio nel n. 7 del 6 ottobre 2000 (ivi, nella nota di presentazione segnalavamo l'urgenza di "promuovere una riflessione che ci sembra improcrastinabile", ahinoi, mia cara Cassandra]

Una lettera aperta a tanti amici che sono nel giusto e in errore Tre subalternità: da Seattle a Praga

La prima subalternità
La prima subalternità è nei confronti dei potenti: essi decidono quando concedere sfogo alla protesta, essi decidono di fatto luoghi e forme.
Manifestare solo in occasione dei meeting ufficiali in cui come è noto solitamente si fa pressappoco solo passerella, è poca cosa, seppur necessaria; e rispetto a certe forme della protesta già Guenther Anders aveva spiegato bene che recitare la rivoluzione nei week-end è una mistificazione, una ridicolaggine ed infine una resa e una complicità, tanto più grave quanto più ambigua e ignara (si legga almeno il duro volumetto andersiano: Stato di necessità e legittima difesa).
La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio, insomma la "trinità satanica" della globalizzazione neoliberista (come l'ha definita con linguaggio icastico Alessandro Zanotelli concludendo la stupenda marcia per la nonviolenza del 24 settembre), va contrastata giorno dopo giorno, tutti i giorni, e non "semel in anno" (una volta all'anno) come fosse un carnevale.
Certo: anche le manifestazioni a Seattle, a Praga, ed il prossimo anno a Genova, servono: e servono molto. Ma non ci si limiti a quelle come fossero eventi taumaturgici.
La seconda subalternità
La seconda subalternità è nei confronti dei mass-media: troppo spesso si calibrano le iniziative in forme adatte ad essere masticate dalle televisioni; si decidono le forme espressive in ossequio alle stritolatrici esigenze dei network tv; non si dice nè si fa ciò che pensiamo e come lo pensiamo noi, ma quello che i mass-media pretendono di sentirci dire e fare.
Ma anche i mass-media sono parte del potere oppressivo, ed una parte rilevantissima. Il potere mediale su cui Enrico Chiavacci (nella sua utilissima Teologia morale, e particolarmente nei tomi 3/1 e 3/2, che tutto il movimento farebbe bene a leggere) ha scritto pagine decisive. Così come Anders nel suo straordinario L'uomo è antiquato.

La terza subalternità
La terza subalternità è nei confronti della violenza: che è sempre l'arma dei ricchi, che è sempre strumento di oppressione, che è sempre nemica della dignità umana.
È necessario essere chiari: se può talora suscitare ammirazione chi sacrifica la propria vita, proviamo solo orrore per chi sacrifica quella altrui. Non è ammissibile manifestare insieme a persone che da come agiscono danno a vedere che si augurano che accada l'incidente, che desiderano fare "la battaglia", che auspicano che ci scappi il morto. Non è ammissibile essere complici degli adoratori della morte. Poi magari anni dopo i sopravvissuti te li ritrovi professori, scrittori, giornalisti, parlamentari, capitani d'industria: ed i morti restano morti. Io provo orrore e disgusto di chi marcia sui cadaveri. Come ebbe a dire all'incirca Albert Camus: preferisco essere sconfitto senza aver causato vittime, che aver ragione su un cumulo di cadaveri.
E quindi trovo inaccettabile organizzare una manifestazione che preveda, per usare il linguaggio orwelliano e kafkiano della recente vicenda di Praga, la presenza dei cosiddetti "blu" (ovvero di manifestanti che programmaticamente intendono provocare uno scontro fisico): e trovo che da parte degli organizzatori della protesta aver accettato, cooptato e coordinato la presenza dei cosiddetti "blu" nel movimento che manifestava a Praga abbia sporcato e reso correi di una ambiguità inammissibile anche i cosiddetti "gialli" e i cosiddetti "rosa". Sia chiaro: nulla giustifica le violenze militari e poliziesche, nulla giustifica i pestaggi e le umiliazioni e le nefandezze fatte subire ai giovani manifestanti picchiati, fermati, arrestati, gravemente maltrattati; ma neanche le molotov e le sassaiole possono essere giustificate.
Per il futuro chiedo: che quando si manifesta, e manifestare è necessario, si sia chiari dall'inizio nel chiedere a tutti i partecipanti di attenersi rigorosamente alle regole di condotta della lotta nonviolenta; chi non ci sta, se ne resti a casa o manifesti un'altra volta per conto suo. Non intendo precludere a nessuno il diritto di manifestare, ma a tutti va chiesto rispetto per la vita e l'integrità fisica altrui. Ad iniziative ambigue e pericolose per l'incolumità altrui credo che non si possa partecipare.

L'urgenza di una discussione onesta
Di tutto questo credo sia urgente discutere onestamente tra le persone impegnate nel movimento che si batte contro la globalizzazione neoliberista e per l'umanità.
Dobbiamo essere capaci di illimpidire, e così fortificare il movimento, uscire dalla subalternità e dalle ambiguità, che non sono meno pericolose dell'apatia e della rassegnazione.

Contrastare la violenza
Occorre contrastare la violenza, quella cristallizzata come quella dispiegata, nel modo più rigoroso: con la nonviolenza.
Occorre lottare contro la violenza ed i suoi strumenti: le armi, esse sì, sono sempre nostri nemici; occorre lottare contro i poteri oppressivi avendo a cuore le sorti del mondo; occorre lottare agendo in modo che ogni nostra azione possa essere fondativa di socialità, possa essere esempio di azione solidale, istitutiva di convivenza, promotrice di giustizia e fraternità: solo la nonviolenza garantisce questo.
Occorre lottare seguendo il "principio responsabilità" (Hans Jonas): la nonviolenza è l'unica forma di lotta (strategia, tecnica, progetto, empatia) che quel principio invera.
Occorre lottare in modo coerente con i nostri scopi, che sono la liberazione dell'umanità oppressa, e la dignità di ogni essere umano: dunque occorre la nonviolenza come unico metodo coerente con questi obiettivi, unica scelta che questi obiettivi realizza nel corso stesso della lotta.
Alle menzogne dei potenti occorre contrapporre la verità che è sempre rivoluzionaria: dunque occorre la nonmenzogna, che è un altro nome, ed una decisiva specificazione, della nonviolenza.

Il diritto fondamentale è il diritto a vivere
Dobbiamo essere chiari su un punto: il diritto è sempre in ultima istanza il diritto di persone. E se ad una persona si toglie la vita, si estingue per sempre la possibilità di riconoscerle qualsivoglia diritto.
La dittatura, il potere oppressivo, è nella sua essenza uccidere l'altro (lo ha spiegato definitivamente Elias Canetti in Massa e potere). Alla dittatura, al potere oppressivo dobbiamo contrapporci nel modo più rigoroso, mirando sempre a salvare la vita dell'altro, di ogni altro; l'altro: il cui muto volto sofferente ci interroga e convoca alla responsabilità (Emmanuel Levinas).
Mi permetto una postilla ad uso di chi ha una visione del mondo materialista (come il sottoscritto, che è un vecchio leopardiano): proprio perché si ritiene che nulla vi sia per il singolo, per ogni singolo essere umano, oltre questa vita, ebbene, a maggior ragione occorre difendere la sua vita, la sua unica, fragile, addolorata e meravigliosa vita. Il principio del "non uccidere" vale a maggior ragione per chi non aderisce a fedi religiose e non ha speranze di vita oltremondana.

La scelta della nonviolenza
La scelta della nonviolenza è quindi una necessità intellettuale e morale; è l'unica strategia e metodologia di lotta coerente con la dignità umana e la liberazione degli oppressi; è l'unica teoria-prassi di intervento solidale e di iniziativa rivoluzionaria che realizzi nel suo stesso farsi democrazia, diritti umani, difesa della biosfera.

Tutto ciò andava pur detto Tutto ciò andava pur detto, e non avendolo fin qui dichiarato persone più note ed autorevoli di me, ho infine sentito di doverlo dire io.
Spero che a queste considerazioni altri vogliano rispondere, e che possa aprirsi una riflessione ed una discussione ampia e profonda, anche aspra perché urgente e concreta, condivisa in quanto polifonica.

Analisi concreta della situazione concreta
Chiedo solo che mi si risparmino le solite inquietanti scempiaggini in nome di un Marx teologizzato e mistificato sulla "violenza levatrice della storia" e simili arcaismi (di prima di Auschwitz, di prima dell'età atomica), arcaismi che sarebbero amenità se non producessero orrori: Marx avrebbe riso di cuore, omericamente, se qualcuno invece di analizzare la situazione reale attuale avesse bloccato il proprio cervello ad analisi riferite ad un contesto di centocinquant'anni prima. Si usi di Marx quel che di Marx resta straordinariamente valido e fecondo, l'unico marxismo onesto è quello concreto e creativo.

La nonviolenza è lotta
Analogamente mi si risparmi la solita serqua di stupidaggini secondo cui chi propugna la nonviolenza è uno squallido quietista, un losco attendista e dunque un complice degli oppressori: mi permetto di preventivamente controreplicare che Mohandas Gandhi, Martin Luther King, Marianella Garcia, e come loro tanti altri lottatori nonviolenti sono stati assassinati; che la nonviolenza non solo non rimuove, ma anzi suscita e organizza il conflitto contro la violenza, l'ingiustizia, la menzogna.
Come amici della nonviolenza esortiamo alla lotta, esortiamo alla rivoluzione: ma una lotta coerente ed intransigente, di autentica resistenza e autentica liberazione, la lotta nonviolenta; ma una rivoluzione che non rinvii la dignità umana in un futuro che mai arriva, bensì inveri la dignità umana nel suo stesso farsi: la rivoluzione nonviolenta.
Di tutto il resto, discutiamo.

Peppe Sini, responsabile del Centro di ricerca per la pace di Viterbo Viterbo, 4 ottobre 2000 (che per avventura è il giorno in cui si ricorda un grande rivoluzionario egualitario e nonviolento di diversi secoli fa: Francesco d'Assisi)