La militanza e il tempo che passa

La militanza politica è molto stancante. Quell'impegno totalizzante, che per molti è un qualcosa di incomprensibile, per altri di inutile e per i più cattivi un patetico tentativo di rifuggire l'età che passa, porta talvolta a farsi domande complesse sul senso di tutto quanto.

Perché passare ore in riunioni spesso faticose, perdere tempo in cortei più o meno grandi, alzarsi o andare a dormire alle ore più impensate per partecipare alla difesa di un'occupazione o a un picchetto davanti a una fabbrica? Per quale motivo passare le poche ore sottratte al lavoro in volantinaggi spesso frustranti, in iniziative poco utili o in assemblee nervose e inconcludenti?

Intanto perché non ne potremmo fare a meno. Esiste e ci caratterizza una sorta di inquietudine che ci spinge a soddisfare una necessità, quella di sentirsi partecipi alle sorti degli sfruttati e degli ultimi, dei compagni e dei militanti, contro le ingiustizie più o meno quotidiane. È un bisogno viscerale che parte da piccole scintille esterne, ti si infila nella pancia e ti spinge a muoverti. Il "chi me lo fa fare", umana fuga di fronte alle frustrazioni, può durare lo spazio di un periodo, ma poi lascerà necessariamente campo a un nuovo entusiasmo ritrovato.

Ma non è solo questo. È che il fare politica, o meglio lotta politica e conflitto sociale, è una cosa bellissima. Lo sono le piccole vittorie quotidiane, i momenti passati insieme, le feste e i rituali consolidati. Un corteo "caldo" è meraviglioso, ti rende vivo. Un'occupazione è uno straordinario momento di condivisione.

Ma c'è ancora qualcosa in più. È che nello sviluppo storico che il materialismo disegna, possiamo e dobbiamo giocare quel ruolo che la storia ci impone. E lo facciamo perché abbiamo tutto il diritto di sperare in una vita migliore, di credere in un avvenire felice per noi, per chi ci circonda, ma anche e soprattutto - e qui sta la particolare bellezza degli ideali per cui militiamo - per tutti gli ultimi della terra.

Perché racconto tutto questo? Fondamentalmente per molti motivi, ma due in particolare.

Il primo è che per tanti dei compagni che ho incontrato nel mio cammino e che in qualche maniera hanno abbandonato speranze e militanze di un tempo, scorgo come un senso di compassionevole superiorità. Come a dire "beato te che stai ancora dietro le illusioni della giovinezza, e non fai i conti con i problemi ben più seri che si trovano nell'età adulta". So che non rinnegano nulla, ma il loro sguardo come di chi vede un marziano, parla più di mille parole.

Il secondo è per i miei compagni di ora. La mia è insieme una dedica e un auspicio. La dedica è quella di vivere prima o poi le speranze che ci auguriamo. L'auspicio è quello di non mollare, mai. Né al tempo, né alla stanchezza, né ai doveri di una vita che chiama. Non è una questione di età, è una questione di volontà. È quella fottuta voglia di non arrendersi.

Un giorno un tipo di quelli che ha sempre militato (?) nella sinistra credibile, seguendo tutti gli sviluppi e i cambiamenti di nome di quella compagine dedita alle poltrone che si chiamava SEL e che ora non ho idea come si chiami ma so che dovrebbe stare con D'alema (e ho detto tutto..), mi ha definito "viscido quarantenne che gioca a fare il rivoluzionario coi ventenni". Ora che di anni ne ho 42 e che la mia vita rimane quella, ho finalmente capito il motivo per cui quelle parole mi sono rimaste impresse: la sua non era altro che una candidatura. Si candidava a un bel posto di spalatore nel gulag che faremo nelle risaie del Monferrato, dove finalmente ritrovare il senso del suo percorso politico e la sua strada smarrita.

 

Fonte: Post su FaceBook