Riflessioni dentro questa pandemia

In questo tempo di pandemia e di restrizioni sociali sento il bisogno di cercare un chiarimento tra i mille dubbi e incertezze che mi attanagliano.

D'altra parte sono sempre stato convinto che la complessità impone analisi e scelte articolate, non manichee, che tengano conto delle varie parti in campo, delle articolazioni delle cause e delle prospettive.

In qualche modo anche il mio prediligere l'abitare il dubbio, attitudine che devo con gratitudine a mio padre, e che poi ho ritrovato nel frequentare lo spazio dei movimenti nonviolenti, mi porta ad approcciarmi alle problematiche lasciando aperte le varie opzioni di osservazioni e di individuazione delle cause e delle possibili soluzioni.

Questa pandemia è una situazione tragicamente complessa, rispetto alla quale non riesco, né voglio, avere quelle posizioni certe e sicure, che sanno con nettezza distinguere tra il giusto e lo sbagliato, che troppo spesso leggo ed ascolto.

Non amo quindi schierarmi tra aperturisti o rigoristi, né tanto meno tra quanti ci propongo l'immagine chiusa del complotto.

Sono anch'io stanco delle restrizioni che da più di un anno viviamo, ma al tempo stesso mi domando quali scelte alternative potessero essere fatte.

Ma ancor più che la situazione contingente, o forse proprio partendo da questa, non posso non osservare le troppe fragilità del nostro sistema, frutto di scelte scellerate che abbiamo fatto negli anni passati: dall'indebolimento della sanità e della scuola pubblica scegliendo poi di sottrarre alla formazione dei ragazzi quella dimensione di socialità, di crescita, di acquisizione del senso critico privilegiando invece un'idea aziendalistica della scuola con un rapporto stretto tra scuola e mondo del lavoro, che rischia di introdurre una nuova visione classista nei percorsi formativi.

Il mio punto di vista è privilegiato, perché io, in qualche modo, appartengo alla fascia delle persone garantite, che alla fine del mese lo stipendio lo percepiscono, ma non per questo non posso non osservare ed ascoltare il grido disperato di chi, a causa di questa pandemia, si trova su un baratro.

Ma a questo grido dobbiamo dare risposte concrete e sopratutto prospettiche rispetto a quello che vogliamo costruire domani: cavalcarlo e basta significa essere politici delinquenti.

Non ho mai criticato il distanziamento sociale che ci è stato posto, perché non sono in grado di sapere se ci potessero essere strade alternative: mi pare solo di osservare come tutte le volte che abbiamo abbassato la guardia la pandemia sia riesplosa (l'ultimo caso è quello della Sardegna passata da zona bianca a zona rossa).

Mi pare, tuttavia, come risultino altrettanto evidenti alcune scelte sbagliate nella gestione della pandemia, sopratutto a partire da questa estate, ma, sopratutto, le scelte il modello di welfare, di sanità e di scuola che abbiamo realizzato in questi ultimi decenni, frutto di quella cultura liberista alla quale abbiamo aderito acriticamente.

La prima fra tutte l'aver per anni avviato un processo di indebolimento della pubblica amministrazione in generale, che ora nella pandemia mostra tutta la sua importanza. Parlo di pubblica amministrazione in generale, sapendo che la grossa fetta riguarda la sanità e la scuola.

Il piano pandemico non adeguato, le strutture di ricerca non finanziate, la riduzione dei posti letto nei nostri ospedali riservati solo agli acuti, il non potenziamento della sanità di prossimità, una scuola che abbiamo sempre di più voluto fatta di classi affollate per risparmiare sui costi (perché i costi sono diventati più importanti delle persone)... edifici scolastici abbandonati... e poi i problemi vengono al pettine... tutte le contraddizioni tornano a galla e ci chiedono il conto.

Di fronte alla pandemia la debolezza del sistema di assistenza territoriale, la riduzione dei posti letto, il non potenziamento della medicina di base l'abbiamo pagata cara.

Nella scuola aver pensato ai banchi, e non invece a dividere le classi, affittare se necessario nuove aule, aumentare il corpo dei docenti e investire nel sistema dei trasporti, ricorrendo magari anche al privato è la colpa più grave nell'immediato che mi sento di fare al governo.

Nell'approccio alla pandemia non ho visto un altrettanta valutazione critica delle scelte fatte negli ultimi anni, rispetto alle quali molti di noi hanno combattuto e lottato.

Le chiusure possono anche essere necessarie, possono essere anche un sacrificio da accettare se però vengono messe in campo, accanto all'obiettivo di tutelare a salute di tutti, anche scelte di sostegno che indichino un cambiamento profondo.

Risulta evidente che il “debito pubblico” è una variabile intrinseca in un sistema in cui si vuole difendere la persona più fragile costruendo un welfare avanzato... non possiamo pensare di riuscire ad uscire da questa crisi pensando che si possa abbassare il debito pubblico, forse deve diventare un elemento strutturale del bilancio di uno stato.

Dobbiamo aumentare le classi delle scuole per diminuire il numero di alunni per ciascuna, operando una scelta educativa precisa, in cui si privilegia il porre attenzione alle persone più fragili... ed allora dobbiamo aumentare il numero di insegnanti, di operatori scolastici, di figure di sostegno... e non possiamo pensare che la scuola possa autofinanziarsi in questo, magari con un rapporto con le imprese: ci deve pensare lo stato che in questa dimensione formativa deve investire risorse ingenti.

Dobbiamo potenziare la medicina di base e di prossimità, i servizi alla persona, i servizi agli ultimi e tutto questo ha un costo che deve per forza ricadere sul bilancio pubblico... ma a questo uno stato deve pensare e su questo deve investire.

Dobbiamo mettere in campo non ristori, ma scelte precise: bloccare i licenziamenti, sostenere il guadagno mancato per gli autonomi e imprese, sostenere gli affitti dei piccoli commerci, assicurare una cassa integrazione a tutti gli aventi diritto... ma non possiamo fare interventi a pioggia, dobbiamo privilegiare anche qui i più fragili.

Non si tratta di elargire un contributo una tantum, significa garantire a tutti un minimo di reddito per superare questa fase, intervenendo appunto sugli affitti, sulla cassa integrazione, sui mutui fatti, sulla mancanza di guadagno che impedisce di avere un minimo vitale... e che coinvolga proprio tutti dai lavoratori dipendenti di tutti i settori, ai lavoratori autonomi... una sporta di reddito minimo di cittadinanza, sapendo che questi interventi dovranno durare per un periodo non breve.

Scelte costose, ma inevitabili per salvare le persone.

Solo così anche le chiusure possono diventare accettabili, e forse solo così potremmo togliere un po' di forza ai complottisti che guadagno sulla disperazione delle persone.

Certo da adulto mi manca la socialità, la cultura, l'impegno … ma posso anche accettarlo se vedo un'azione di sostegno a queste chiusure, e sopratutto vedo un impegno per andare incontro alle persone più fragili.

Se il mio distanziamento sociale serve affinché anziani e ragazzi possano condurre una vita più normale, sono disposto a pagarne il prezzo. Così sono disposto a viverlo sapendo che vi è un'attenzione generale a sostenere la crisi in cui versano milioni di persone.

Questo significa anche pensare a questa crisi come ad una opportunità per una inversione del cammino, verso un modello di sviluppo che tuteli le fragilità, che rimetta in campo solidarietà, comunità...

Una comunità è tale non solo perché è capace di abbracciarsi, ma perché riconosce nell'impegno a difendere e proteggere la persona più debole il suo obiettivo principale.

Non vivo come criticità il pensare che mi stanno imponendo un sacrificio di socialità, vivo come criticità il fatto che tutto ciò non venga vissuto come un'occasione di cambiamento profondo.

Non ci vedo un complotto di quale forza segreta in questa pandemia, ci vedo però il fatto che i poteri forti stanno continuando ad essere sempre più forti, che la politica non è in grado di segnare una inversione di tendenza nel cammino che stiamo facendo.

La stessa campagna vaccinale, per altro che stenta, la viviamo all'insegna del prima noi. Ci scandalizziamo se gli inglesi dicono prima gli inglesi, se gli americano fanno altrettanto, ma anche noi europei facciamo la stessa cosa.

Abbiamo detto, anche il nostro illuminato presidente del consiglio, prima gli italiani e poi gli altri, senza dimenticare che da una pandemia globale si esce davvero tutti insieme: chi vaccinerà le persone che vivono in Africa, in Asia, in America Latina? Ancora una volta accetteremo come è successo con AIDS che il profitto prevalga sulla necessità di salvare tutti?

Nonostante quello che è successo, nonostante i morti, nonostante le sofferenze, nonostante il disagio non vedo nessun passo nella direzione di un cambiamento radicale, di una lettura critica delle scelte fatte in questi ultimi decenni, che non sono certo una causa secondaria delle conseguenze di questa pandemia.

La lotta e l'impegno non è contro il distanziamento sociale, ma semmai contro quelle scelte economiche, sociali, di organizzazione del sistema che esclude e non include, contro quella cultura che esalta l'egoismo delle persone e non la solidarietà, contro quei poteri che tendono a dividere per continuare a governare indisturbati, contro un sistema formativo che tende ad annullare i processi di crescita del senso critico... uniformando tutto verso un pensiero unico, contro i processi di esclusione delle persone fragili, degli ultimi... dei senza voce... una lotta questa che da tempo molti di noi l'hanno già iniziata, ancor prima della pandemia, anzi, denunciando il baratro verso il quale ci stavamo dirigendo.

Ma questa non è conseguenza della “dittatura sanitaria” come viene detto, è conseguenza delle scelte politiche fatte in questi ultimi decenni, rispetto alle quali dobbiamo lottare se vogliamo un cambiamento.

Perché la pandemia ci pone di fronte ad un bivio: pensare di continuare a camminare nel solito sentiero, sapendo che ciò significa assicurare un futuro di ingiustizia e disuguaglianza (pensiamo solo che con un po' dei soldi del Recovery Plan tutte le forza politiche hanno deciso nelle rispettive commissioni parlamentari di finanziare l'industria delle armi), oppure cogliere l'occasione per una lotta affinché il sentiero venga cambiato, affinché si inverti il nostro procedere, sia in chiave nazionale, che europea che di rapporti geopolitici.

Ecco perché penso che l'approccio debba essere nella consapevolezza di una complessità che va affrontata, non è semplicemente la risposta ad una situazione emergenziale, ma è qualcosa che pone in discussione molte delle cose del nostro modello di sviluppo.