Il servizio civile nazionale accessibile ai detenuti ?

Nel 1972 nasce in Italia il diritto all’obiezione di coscienza. Sotto la spinta delle azioni di protesta condotte dalle organizzazioni non violente, il Governo approva la legge n. 772: “Norme in materia di obiezione di coscienza”, che sancisce il diritto all’obiezione per motivi morali, religiosi e filosofici, e istituisce il Servizio Civile obbligatorio in alternativa al servizio militare.

Nel 2001 nasce il Servizio Civile Nazionale con la legge 64/01. Un servizio volontario destinato ai giovani dai 18 ai 28 anni, aperto anche alle donne, che intendono effettuare un percorso di formazione civica, culturale e professionale attraverso un’esperienza umana di solidarietà sociale. All’inizio i giovani che prestavano Servizio Civile erano coloro che si sentivano profondamente obiettori di coscienza, quindi persone politicamente e moralmente consapevoli, motivate, spinte da un bagaglio di riflessioni sensate e mature.

Ma, negli ultimi anni, molte associazioni testimoniano che le condizioni sono profondamente cambiate.

I giovani dai 18 ai 28 anni che oggi possono accedere al Servizio Civile sono, il più delle volte, disoccupati che cercano un impiego qualunque, anche se solo per un anno, ricevendo un contributo mensile di 433 euro elargito dallo Stato. In cambio essi dovrebbero dare una mano concreta nelle attività svolte dall’ente che li accoglie, il quale li forma per un anno su molteplici competenze che il giovane potrà spendere in seguito sul mercato del lavoro.

Molte realtà associative della città di Torino e Provincia, che erano state in passato molto “gettonate” dai giovani, nell’anno 2020 hanno assistito a una notevole diminuzione di aspiranti al Servizio Civile.

Molte di quelle associazioni hanno inoltre cominciato a non candidarsi più come enti disposti ad accogliere i civilisti. Il calo di richieste da parte del mondo giovanile, forse è dipeso dall’introduzione del reddito di cittadinanza.

Il calo di disponibilità da parte delle associazioni, forse è dipeso dall’eccessivo impegno che richiede, nella maggior parte dei casi, seguire e gestire i Civilisti di oggi che potrebbero rivelarsi alla fine più un problema e un peso che non un reale aiuto all’associazione.

Forse lo Stato dovrebbe prendere in considerazione un riconoscimento economico anche per gli enti che accolgono i giovani civilisti in quanto, di fatto, essi si accollano il compito di gestire e occuparsi comunque di loro, persone non di rado in qualche modo problematiche, spesso non in grado di fornire quell’aiuto pratico e concreto di cui l’ente avrebbe bisogno.

Ma una cosa nuova si potrebbe fare: aprire la possibilità ai detenuti di accedere al Servizio Civile Nazionale.

Attualmente il Servizio Civile è infatti precluso a coloro che hanno subito condanne, anche se frequentano percorsi trattamentali che vorrebbero condurli a una consapevolezza e a un inserimento. Questa preclusione forse è inutile e autolesionista verso l’interesse collettivo. La prova sono i numeri che impietosamente mostrano una recidiva media del 70% tra i detenuti tornati in libertà, a confronto con un ben più incoraggiante 12% tra quelli che escono, per esempio, dal carcere di Bollate, solitario e, purtroppo, non imitato esempio di istituzione carceraria. Il Servizio Civile allora potrebbe essere lo strumento per antonomasia verso una società migliore.

Nei casi, infatti, in cui un detenuto, dopo aver avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada operatori illuminati, volesse, nella parte residua della sua pena, dedicare le sue energie e il suo impegno a favore del prossimo, potrebbe impegnarsi con passione nel Servizio Civile ed essere un aiuto concreto all’associazione o all’ente che lo accoglie.

Il vantaggio per la collettività sarebbe quello di testare in anticipo l’assenza di pericolosità sociale del detenuto prossimo all’uscita.

Chi controlla può essere a volte assente, mentre nessuno può eludere la propria coscienza, qualora abbia avuto la possibilità di costruirne una.

Il Servizio Civile aperto ai detenuti, potrebbe dunque rivelarsi un ottimo investimento: per i detenuti, per i loro familiari, per le associazioni e gli enti che li accolgono e si impegnano nella loro formazione, per l’istituzione carceraria, per la società civile e, non ultimo, per le vittime, o meglio, per le future vittime, in quanto diminuire la recidiva significherebbe di conseguenza diminuire anche le vittime future.



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