Antifascismo

Sul tema, complesso ed articolato, sarò lungo! Ognuno legga se vuole, indicazione che definirei antifascista. Esser breve è difficile, mi considero anche preparato, ma non ancora a livello di produrre delle Tavole o un Tractatus, e ho timore di cadere dal semplice nel semplificato, che non apprezzo, perché è poi il gradino dal quale si precipita nella deriva delle parole d’ordine e degli slogan che ho sempre accuratamente evitato. Mi assumo quindi un compito umile, anche nell’antifascismo, ma non per questo da sottovalutare. Ognuno deve fare il suo, che è sempre quel che può.

 Il ragionamento storico-politico

 

C’è stato un momento nella storia italiana in cui l’antifascismo si è armato e quindi è stato ovviamente violento, avvenne nella Resistenza, e tale aspetto è quindi legato ad un preciso periodo storico, la caduta del fascismo, l’occupazione del paese da parte dei tedeschi e la nascita della RSI, la repubblica collaborazionista fascista di Salò. In tale contesto tale scelta fu oggettivamente necessaria, giusta e possibile, mi riferisco alla guerra partigiana definita giusta da Don Milani, ma anche alle motivazioni che ascoltai direttamente (io con altri giovani) da Giovanni Pesce per la sua attività di guerriglia dei GAP, che fu veramente cruda, ma che trovava appunto spiegazione nel contesto della guerra e di cosa rappresentò il fascismo. Anche nel ventennio, sin dall’inizio, la scelta armata sarebbe stata necessaria e giusta, ma non fu possibile.

 

Aladino Bibolotti, socialista e poi comunista massese, che divenne poi un Costituente, subì le vessazioni fisiche dai fascisti, la sua casa fu distrutta, fu costretto ad emigrare nel 1922, ma continuò la sua attività militante a Torino e Milano. Nel 1926 fu arrestato e finì con Gramsci, Terracini ed altri nel famoso Processone che si concluse nel 1928.

L’imputazione per gli esponenti del PCI arrestati fu di “aver, concertato e stabilito di commettere a mezzo del cosiddetto Esercito Rivoluzionario, composto specialmente di operai e contadini aderenti al partito, all’uopo segretamente ed in parte anche militarmente organizzato, con disponibilità di armi, munizioni e denaro provenienti perfino dall’estero, fatti diretti a far insorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, per instaurare violentemente la repubblica italiana dei Soviet”.

Durante il processo scrisse alla moglie che l’imputazione era assurda e ridicola in quanto impossibile nei fatti e ironicamente affermò che “nessuno, né in Italia, né altrove, si era accorto che nel 1926 ci fosse stato un tentativo per l’instaurazione della repubblica sovietica…”.

Tranquillo la rassicurò che quell’accusa sarebbe caduta e che l’avrebbero di certo condannato solo al Confino. Ebbe invece 18 anni di condanna, veniva subito dopo Gramsci e Terracini che ne ebbero 20.

Si può chiosare che gli antifascisti, anche quelli di grande preparazione politica, era ingenui, i fascisti di certo no. La qualifica di ingenuo, io la intendo come un merito.

 

Escluso il periodo della Resistenza armata l’antifascismo in generale, e in riferimento all’intera sua vita politica fino ai nostri giorni, non può essere considerato storicamente un movimento politico improntato alla violenza, mi riferisco alla sua sostanza, al suo essere. Fuori del periodo ha attraversato climi politici specifici nei quali (è riconosciuto) alcune componenti, che ad esso si riferivano, un richiamo alla violenza lo espressero anche nei fatti. Tali episodi, legati a periodi particolari, non sono giustificabili, perché la loro ragion d’essere non aveva una motivazione fondante di giustizia sociale come quella del momento resistenziale.

 

All’opposto il fascismo è ideologia violenta nel suo essere, che fa della violenza il metodo della sua azione politica, sia sul piano dei rapporti umani tra gli esseri, sia in quelli civili nella comunità su cui si vuole imporre, sia nei rapporti tra gli stati che ambisce a conquistare.

In questo senso il fascismo è una ideologia assolutamente negativa, questo il giudizio della storia, perché rappresenta dei propositi (basati su presunti valori) che la coscienza civile democratica (affermatasi nella società attraverso un lungo processo di crescita etica, cioè di religione civile, fino a diventare patrimonio comune di tutti, o quasi tutti) nella sua quasi totalità ripudia.

 

I cardini del male del fascismo stanno: 1) nel razzismo che si fonda sull’errato paradigma per il quale l’altro e diverso è un essere inferiore verso il quale tutto è concesso, sia esso persona , o popolo o stato, essendo appunto non un essere uguale, ma solo cosa, a piacimento sfruttabile e manipolabile ai propri fini, sempre legati ad utilità concreta e non certo a ideale spirituale; 2) nella illibertà per cui si nega ogni diritto di scelta, finanche di pensare in maniera diversa, organizzando un sistema di crescita e maturazione dei giovani e di controllo sociale della intera popolazione improntato e finalizzato ad un obbligatorio ed assoluto consenso; 3) nella violenza che diventa metodo dell’azione politica verso gli avversari che possono essere quindi addirittura perseguitati ed eliminati, e che ha il suo terminale assoluto nella guerra, come scelta di metodo dell’azione nella risoluzione dei rapporti internazionali, per cui si può parlare di regime guerrafondaio.

 

All’opposto l’antifascismo di per sé non è una ideologia, se non nell’intenderla come scelta di dire no ai valori negativi appena ricordati. Ma non è propriamente una ideologia nel senso politico, perché si configura più come una scelta etica, quindi forse come prepolitica, o a fondamento della politica, o se vogliamo di una politica di alto livello o anche, a voler ancora meglio sottigliare, di base. L’antifascismo in effetti è il rigetto del fascismo che scaturisce da una coscienza, più che da un ragionamento (anche se ci furono chiaramente anche scelte mature, razionali e politiche). È quindi il rigetto della violenza. Infatti, la scelta della Resistenza da parte di molti giovani partigiani, si può dire della grande maggioranza di essi, è definibile come esistenziale, un dire ed un urlare: “basta guerra!, no alla guerra!”, e ad essere giocoforza conseguenti a tale convinzione nelle scelte di vita.

 

Di fronte a questo quadro, che dovrebbe essere patrimonio di tutti, è davvero triste e purtroppo allarmante sentire parlare, in una strana equiparazione e relativa condanna comune, di fascismo e antifascismo (e di fascisti ed antifascisti), come una sorta di medaglia con due facce, entrambe anacronistiche e superate.

A negare questo assunto, certo creato e giocato politicamente in modo strumentale, dovrebbe bastare ricordare come l’antifascismo sia un patrimonio di tutti, del quale i cittadini e le istituzioni dovrebbero menare gran vanto come fece il Presidente del Governo De Gasperi, alla conferenza di pace di Parigi del 1946, quando annotò che “compariva in veste di ex-nemico”, ma che “quella non era la veste del popolo italiano”, al quale rivendicò appunto la Resistenza ed il suo antifascismo.

Ma l’autocritica sul fascismo non è processo ancora pienamente condiviso perché l’esame di coscienza sulla sua storia il nostro paese lo ha purtroppo sempre rinviato e non lo ha ancora fatto, sempre anche consolandosi con l’ennesimo falso mito degli Italiani brava gente, e anche bravi soldati!

 

Questo fatto è riprovevole e ad esso si deve rispondere che la verità da riconoscere è cosa invero facile, attraverso un ragionamento semplice e logico fatto di soli 3 passaggi: a - il fascismo è ideologia superata e negativa, condannata nella storia per i fatti negativi che causò; b - l’illibertà , il razzismo, la violenza e la guerra, che furono i suoi valori, primeggiano ancora nel mondo non solo in singoli paesi ma in grandi aree geografiche; c - la condanna di tali espressioni (che l’antifascismo rappresenta) è quindi ancora più che attuale, perché il pericolo del fascismo è addirittura in atto, e nemmeno si può escluderlo per il futuro.

 

Per questo si parla della necessità di una “riflessione permanente” sull’antifascismo, che deve portare ancora oggi ad atteggiamenti conseguenti rispetto al “fascismo quotidiano dei nostri giorni”.

Franco Cordero, letterato e giurista, ha magistralmente ricordato che:

“Fascismo e Resistenza non rappresentano solo due momenti storici, ma costituiscono due ‘antropologie’ radicalmente agli antipodi, divise da un’alterità incolmabile. Purtroppo, però, mentre l’antropologia fascista sembra parte integrante del corredo ‘genetico’ degli italiani, lo ‘spirito della Resistenza’ - che impone capacità critica, libertà di pensiero, autonomia - è stato un’anomalia per il nostro paese. Pensare, nel fascismo, era un vizio, come pericoloso era l’abito morale che implica dubbi, dissensi, scelte divergenti. La legge 19 gennaio 1939, n. 129 abolì la Camera dei Deputati e la sostituì con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni”, nella quale i voti erano sempre palesi e i componenti erano scelti per le cariche ricoperte nel PNF…”.

 

Questi termini della questione si rilevano ancor oggi nel dibattito politico quando si parla di fascisti e antifascisti mettendoli sullo stesso piano, quando si legge (spesso) “basta con i fascisti e gli antifascisti, sono superati”. Si dimentica volutamente che il fascismo è una parte, mentre l’antifascismo è il tutto, a cui tutti i cittadini appartengono.

 

Purtroppo il fascismo si ripresenta concretamente nei fatti con le stesse modalità del passato, l’uso della violenza nei rapporti politici, addirittura con episodi di squadrismo come la provocazione e l’assalto a sedi di partiti e di giornali, finanche con attentati a centri sociali alternativi, tutti segnali della pericolosità, che davvero suscitano il timore che possa ritornare pienamente nelle stesse forme del passato, quando gli avversari politici furono esclusi dalla vita politica, se non eliminati, e le loro sedi distrutte.

In questo senso sono da valutare positivamente tutte le prese di posizione che sono emerse nel quadro politico istituzionale che hanno espresso allarme sul pericolo del rigurgito, e che per fortuna riemergono dopo un periodo anche lungo nel quale tale attenzione era stata perlomeno sottaciuta, o passata un po’ sottogamba. Capisco anche che sotto a questo rinnovato interesse agisca anche un po’ di propaganda, ma l’atteggiamento è in ogni caso benvenuto. Troppo a lungo l’antifascismo è stato a lungo isolato e l’ANPI, che un po’ lo rappresenta quasi ufficialmente, nel suo ruolo di difesa della Resistenza ha avuto a fianco spesso solo i giovani cosiddetti alternativi, che erano a volte anche critici verso l’Associazione, ma sempre comunque da essa ben visti, costituendo oggettivamente una speranza per il futuro. Da loro in ogni caso è stato rafforzato il bisogno per la memoria di distinguere ancora. “La memoria distingue ancora”, fu il titolo di un manifesto per l’anniversario della strage di Forno, all’epoca della diatriba sui “ragazzi di Salò”. Era uno slogan lo ammetto, ma centrato davvero, oserei dire bello.

 

Il rendersi conto è un passo avanti per l’intero movimento antifascista democratico, e la cosa più importante è che l’antifascismo si configuri di nuovo e propriamente come scelta etica da perseguire, un fondamento per la vita sociale e politica dei nostri tempi. La condanna dei presupposti fondanti l’ideologia fascista, che ancora dominano il quadro politico, sotto variegati aspetti, ed in diversificati ambiti tematici, sociali, politici, culturali, e geografici (nazionali e non) è il modo di declinare oggi, con pieno diritto, l’antifascismo.

 

La riflessione personale

 

Il mio antifascismo, umile, consiste da anni in un’opera di difesa della memoria della Resistenza come elemento fondante della nostra coscienza democratica. Per tale ruolo ormai da 30 anni sono impegnato in attività con l’ANPI e l’ISRA (Ist. Storico Resistenza Apuana) che si realizza in studi, incontri pubblici, iniziative culturali e soprattutto nel confronto con i giovani nel tentativo di portare a loro conoscenza di cosa la Resistenza e l’antifascismo hanno rappresentato. A tal fine vado tutt’oggi nelle scuole a incontrare gli studenti. Un tempo in qualità di giovane discepolo lo facevo accompagnando maestri come Giulivo Ricci, Alessandro Brucellaria, Pietro del Giudice, Normanno Bagnoni, Gildo Della Bianchina, Renato Occhipinti, Giuseppe Antonini, Laurea Seghettini, e diversi altri partigiani che ora non ci sono più. Sento forte l’impegno a loro promesso di proseguire quando non ci fossero più stati e quindi non demordo. Nella loro scelta il tratto comune, e per me il loro lascito, e faccio notare come si tratti di persone con diverse posizioni politiche, fu il pensare sempre ad un mondo più corretto verso i più deboli, un mondo più pulito, un messaggio quindi di onestà, termine sul quale tutti loro insistevano sempre, tanto da configurarsi come un insegnamento fatto di rettitudine e di trasparenza nell’approccio alla vita, sia privata sia sociale, che per me ha ancora enorme valenza ai nostri giorni.

 

Quei partigiani erano tutti cresciuti in un’epoca in cui aveva dominato la necessità di apparire conformi, dove nei rapporti sociali aveva imperversato la paura, la diffidenza, la denuncia, la denigrazione, la calunnia, tutti atteggiamenti e categorie che opprimevano la libertà di crescere diversi. Una maestra annotò a fine guerra in un registro scolastico: È finita! ora potremo smettere di insegnare ai bambini a “simulare”, e così potranno crescere in libertà.

 

Legata alla lotta fu certo anche la violenza, ma io ho trovato nei miei studi (che ho sempre rivolto anche agli aspetti personali dell’approccio ai fatti generali), come la violenza fosse sempre stata considerata e subita come necessità. E ciò attraverso segnali anche piccoli come il partigiano che mi confessò “anch’io purtroppo ho sparato”, purtroppo! L’altro che a seguito di un eccidio emanò ordini di azione che escludevano operazioni nelle vicinanze delle frazioni. Od ancora l’altro che fondò una formazione dal nome altisonante di “I vendicatori”, salvo poi confessare: “e poi non abbiamo vendicato nessuno, per fortuna!”. Insomma la violenza fu un bisogno, non certo una pratica voluta o ricercata, né tanto meno un mito perseguito.

 

Certo i partigiani furono protagonisti anche di episodi negativi, la storiografia li ha ormai affrontati con analisi oggettive e critiche, e per essi rimando comunque al giudizio di Calvino che consapevole di essi ebbe a distinguere le responsabilità personali da quelle storiche, per le quali il giudizio sui partigiani rimaneva sempre positivo rispetto per esempio a quello sui giovani fascisti repubblichini.

Anche nelle vicissitudini del primo dopoguerra, nell’epoca delle vendette, che furono fisiologiche di ogni fine guerra e in tutti i paesi del mondo, ho trovato testimonianze di un etica diversa e positiva. Come il fucilato dai nazi- fascisti a Forno, a cui gli amici rivelarono poi di aver scoperto un fascista che nella strage ebbe delle responsabilità ed ai quali lui rispose: “Non ditemi il nome, cosa dovrei fare: ucciderlo, per poi vivere la mia vita nell’angoscia?”. O come nel capo di formazione che bloccò il giovane partigiano pronto a far giustizia da solo, e ne aveva ben donde perché i fascisti avevano ucciso il padre e deportato il fratello e bruciato la casa. O ancora, per portare un esempio più famoso, il Massimo Mila, poi importante musicologo italiano, che nel discorso di commiato alla sua formazione nel maggio 1945, per frenare l’impeto alla vendetta violenta dei suoi partigiani, ebbe a dire: “Il nostro compito l’abbiamo svolto, abbiamo dato, la violenza lasciamola ai fascisti, noi non siamo squadristi!”. Che mi sembra davvero un buon giudizio su come sia stata intesa la violenza dai partigiani.

 

Anche la violenza della Resistenza, che usarono i partigiani che combatterono i nazifascisti, quindi una violenza che si può quasi definire giusta, nel senso di legittima, lascia comunque sempre un amaro in bocca, per cui l’educazione più valida rimane sicuramente quella alla non violenza.

Nel piccolo rappresento una generazione che ha attraversato periodi di violenza sociale, nella quali fummo coinvolti, attraverso quello che un tempo veniva definito antifascismo militante, e si parlava anche, a slogan, di Resistenza tradita. Ebbene, anche gli episodi minori di violenza dei quali la mia generazione ha avuto esperienza diretta, mi riferisco a piccoli scontri fisici, non armati, considerati un tempo come sacrosanti in quanto qualificati e giustificati come autodifesa, a ripensarli poi negli anni, hanno ugualmente lasciato cicatrici negative nell’animo.

 

Come si sarà capito non sono un credente, e nemmeno un buonista, non lo sono mai stato, ma con consapevolezza derivata da un certa maturità, mi riferisco all’età, mi sento di dire che l’insegnamento che alla fine ne ho tratto a livello personale è che la violenza fa male non solo a chi la subisce, ma anche in chi la pratica, se pur sulla base di buone ragioni.

 

Anche nei nostri giorni di rigurgiti fascisti e di oggettivi pericoli del riaffermarsi addirittura del fascismo, almeno nei proclami dei suoi ideali, e di rimando nelle sue possibili conseguenze sociali e politiche, l’antifascista ha il compito di evitare comportamenti fascisti, intendo quelli che con lo squadrismo fecero della violenza una strategia politica.

Nell’attività con l’ANPI ho attraversato anche momenti di crisi perché ci sono stati anni in cui ci sentivamo anche un po’ soli, esseri di un’altra epoca, piccoli moscerini ancora vivi nel deserto della demotivazione, per cui abbiamo criticato e condannato anche quello che veniva definito l’antifascismo di maniera, quello cioè di facciata, che nei comportamenti non era conseguente alle proprie motivazioni, come invece, almeno pensavamo, lo eravamo noi nella nostra attività. Tanto da aver pensato, qui va a finire male, come antifascisti alla fine ci arresteranno.

Si potrebbe dunque concludere così: se l’antifascismo alla fine ridiventerà reato, dovremo rispondere come i nostri maestri, resistere, e ribellarsi dovrà considerarsi risposta giusta.

Sperando che non si arrivi a tanto nel frattempo io comunque continuerò ad andare nelle scuole a parlare della Moralità della Resistenza, è un compito piccolo lo so, ma ci tengo e poi sono convinto che se ogni antifascista agisse con simile spirito, anche solo nel proprio limitato ambito, cioè con una condotta che si richiami ai valori nei quali afferma di credere, di rigurgiti fascisti non se ne parlerebbe più, o almeno di sicuro per anni e anni a venire.