La lettera uccide, lo spirito dà vita

Agli amici.

Ecco la mia letterina di fine anno, per gli auguri di buon 2022 (ne abbiamo tutti bisogno), rivolta ai miei pochi amici che avranno il tempo di leggerla. Ma sono comprensivo e lascio loro tutto il tempo che vorranno per finirla, al termine la lettera sparirà così come i messaggi che si inviano via internet con We-transfer. E nemmeno condannerò chi non lo farà, ci mancherebbe altro, l’importante è che la conservino, essendo un regalo anche se piccolo, diciamo un pensierino (filologico). Chiedo anche perdono se la lettera arriva solo per la Befana, ma ho avuto il PC infettato dal virus, anche lui.

La lettera uccide, è il titolo dell’ultimo libro di Carlo Ginzburg (Adelphi, 2021), che sottintende la frase di Paolo di Tarso “la lettera uccide, lo spirito dà vita”, nella Seconda lettera ai Corinzi, e che è riferita per la prima parte alla legge giudaica e per la seconda al cristianesimo. Chiaramente l’autore si dilunga sull’argomento attraverso diversi saggi, con tanti collegamenti e digressioni, nel suo stile affascinante, per me. Lo fa da filologo qual è, e che è divenuto (penso) dopo esser stato prima storico. Anch’io nel mio piccolo ho qualche ambizione limitata (dato più che oggettivo) di filologia, per la quale uso la definizione del Tommaseo, il dizionario di cui più mi fido: “Studio delle lingue e delle relazioni ch’elle hanno colle idee, co’ costumi, con la storia de’ popoli. La filologia è alta letteratura nelle sue relazioni con la civiltà”. (Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Vallecchi, Tascabili 21, vol. D-L, p. 670, voce 1507).

Poi da sempre sono innamorato della definizione che ne diede Friedrich Wilhelm Nietzsche, che fu prima filologo e poi filosofo:

“La filologia infatti è quell'onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento , in quanto è un'arte e una competenza di orafi della parola, che deve compiere soltanto lavori finissimi che richiedono cautela e non raggiunge nulla, se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai e proprio perciò ci attira e ci affascina assai fortemente, nel cuore di un'epoca del «Lavoro», voglio dire: della fretta, dell'indecente e sudaticcia precipitazione, che vuoi «sbrigarsela» subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro: essa stessa non se la sbriga così facilmente con una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati”. (da Aurora - pensieri sui pregiudizi morali, 1881, (ma la frase è in una prefazione del 1886), in Nietzsche, Opere 1870-1881, Newton Compton, 1993, p. 902)

 Sarò lungo, è ovvio, per questo come Nietzsche invito tutti a diventare filologi, sicuro del fatto che chi mi conosce non mi eviterà, ma mi seguirà. Qualche neofita sbufferà: “tutte queste note! e rinvii bibliografici, troppo pesante il testo!”, ma spero che anche quel qualcuno non si arrenderà. Del resto io non posso rinunciarvi proprio ora che ho letto il libro di Ginzburg il quale, nelle sue note, più e più volte per alcune citazioni usate, addirittura precisa: “testo così modificato nella edizione dell’anno…”, rivelandosi davvero ammirevole filologo di razza superiore.

Le note poi mi hanno sempre affascinato. Ad un esame di storia medievale, a Pisa (1974-75 o giù di lì) col prof. Michele Luzzati, che si basava su un corso e dispense relative all’assedio di Pisa da parte di Carlo VIII re di Francia 1494 (passato anche da Massa ed ospitato nel Castello, come riferisce la cronaca di Venturini, in Apuane n. 33-1997, p. 46). All’esame si portavano anche due e tre testi collaterali al programma, suggeriti dallo stesso professore, che alla fine del colloquio invitava a parlare di uno di tali libri, e a scelta dell’esaminando di un suo particolare argomento o parte. Io scelsi il libro di Ruggero Romano (che mi raccomando di non confondere con Sergio Romano, che non apprezzo come storico, e vedrò di spiegare il perché): Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Einaudi, PBE, 1971. “Bene! - Disse Luzzati - e di cosa hai scelto di parlare”. “Delle note del libro e degli elenchi dei Giudizi Universali” - risposi io secco. Guardai i suoi occhi, e la piccolissima smorfia delle sue labbra, che erano già complici, e capii che solo per quella risposta, oltre che per l’esame, aveva già deciso di darmi 30. Ottenere la lode fu facilissimo. Le note di Romano erano anche e soprattutto divertenti. Per esempio vi ridicolizzava Mons. Giovanni della Casa, autore del Galateo, che nella sua veste di avvocato voleva e non voleva raccomandare un reo di eresia, come gli aveva chiesto di fare Pietro Aretino (p. 184 nota 41). Oppure vi prendeva in giro Francesco Flora, autore di una famosa Storia della Letteratura Italiana del 1941: “Sbaglieremmo dice Flora, ma in realtà non si sbaglia affatto” (p. 182 nota 11). Poi gli spiegai i Giudizi Universali che conoscevo, tra quelli citati nel libro. Poco ci mancò che mi abbracciasse. Eccome se le note contano!

Ginzburg ha scritto un libro fondamentale per la mia formazione storica che si intitola Il formaggio e i vermi - il cosmo di un mugnaio del ’500, uscì nel 1976 per Einaudi, e ricostruiva la storia del processo per eresia a Domenico Scandella detto Menocchio. L’autore spiegava che quella storia rappresentava un frammento di cultura delle classi subalterne (in quegli anni ci si esprimeva ancora così), con fervore affermava che la cultura popolare non era inferiore a quella egemonica, e che esprimeva contenuti alternativi fondati non su libri (che pure il mugnaio leggeva e assimilava a modo suo), ma su una tradizione orale antichissima che esprimeva una visione del mondo propria, anch’essa razionale, seppur di diversa razionalità. In tal modo Ginzburg fondava (con altri) la microstoria, che rispondeva ad un dettato sintetico e davvero universale “Dio è nel particolare”, la citazione è di G. Flaubert e A. Warburg (informa Ginzburg). Menocchio dagli atti del processo emerge nella sua straordinarietà, nei modi intelligenti con i quali risponde alle osservazioni del giudice. Basti ad esempio la sua straordinaria cosmogonia:

“Io ho detto che, quanto al mio pensier e creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece massa, aponto come si fa il formazo nel latte et in quel deventorno vermi, et queli furno gli angeli; e la santissima maestà volsi che quel fosse Dio et li angeli, e tra quel numero de angeli v’era anche Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesimo tempo, et fu fatto signore con quattro capitani, Lucibello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volsi farsi signore alla comparazion del re, che era la maestà de Dio, e per la sua superbia Iddio comandò che fosse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, ed il populo in gran moltitudine per impir quelle sedie degli angeli scacciati. La qual moltitudine non facendo li commandamenti de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso […] e lui si lasciò crucificar, ed era uno dei figlioli di Dio, perché tutti semo fioli de Dio, et di quella istessa natura era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa […]”.

C’è tutto il brodo primordiale ed il big bang che crea la massa (anche se non si sa con quale tipo di caglio), la vita e gli angeli e gli uomini che nascono dai vermi prodotti nella fermentazione, la terra ed il mondo che ne conseguono. A legger bene vi appare già anche la questione delle sedie e della loro occupazione che sarà il tratto della vita sociale tra gli uomini nei secoli di storia che seguirono, fino ancora ad oggi, e finanche il concetto della moltitudine di Negri. Che voler di più. Tanto che il giudice spaesato chiese a Menocchio se “parlava da dovero o pur burlando”. Troppo bello! Ma purtroppo non mi posso “addilungare” oltre, ci sono altri testi da affrontare. Devo però accennare allo storico del Corriere della Sera Sergio Romano (ed anche diplomatico, giornalista, saggista e accademico italiano), che nella Presentazione dell’opera in più volumi Storia Universale, edita dal Corriere nel 1994, nel primo volume (non suo), dedicato all’Egitto, se ne uscì a pag. IX, con una accusa agli storici di “aver concentrato la storia sulla lotta di classe nelle città medievali, sulla fluttuazione del prezzo del grano nel Seicento, sui movimenti ereticali del Medioevo, sulla caccia alle streghe o su vicende personali sepolte nelle cancellerie dell’Inquisizione, facendo sparire la grande storia e diventare la microstoria materia di insegnamento universitario […]”. Ma finalmente - affermava entusiasta - “la grande storia sta tornando”. Mi spaventai, e pensai: questo vuol mettere di nuovo al rogo il mio Menocchio, intendo il libro non il mugnaio, e da quell’anno non lo lessi più, e nemmeno più lo seguii in TV.

Sempre di Ginzburg, devo parlare anche del saggio: Spie. Radici di un paradigma indiziario, uscito nel 1979, nel volume a più voci curato da Aldo Gargani, Crisi della ragione - Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi. Un volume che recensii (ho sempre recensito fin da bambino, sempre per conto mio, e solo a volte anche per un pubblico ristretto, di piccole riviste), e di questo libro ne scrissi appena uscito nel 1979, sulla rivista massese Nuova Alternativa, curata da alcuni amici, tra cui Gianfranco e Antonietta (dei quali la memoria ormai mi nasconde i cognomi). Durò poco, era scalcinata, aggettivo non dispregiativo, in quanto vuol far intendere solo l’assoluta assenza di finanziamenti, che nel mondo odierno son diventati l’unico caglio con il quale gira il mondo. Comunque magnificai il saggio di Ginzburg, del quale mi sentivo ormai un allievo, e mi dichiarai innamorato del suo stile letterario, appunto filologico, tanto da prefigurargli un futuro da romanziere. Ed in effetti i suoi lavori sono sempre opere di un grande narratore, affabulatore.

Nel saggio “Spie. Radici…”, se ne uscì fuori con la storia di Giovanni Morelli, un critico d’arte italiano che, sul finire dell’Ottocento, inventò un metodo di attribuzione dei quadri antichi che si basava sull’analisi di particolari minimi. Famoso fu il suo studio dell’orecchio nei quadri di Botticelli. Un particolare realizzato in modo diretto e spontaneo, cioè naturale, non progettato, che appunto per questo si ripeteva fedelmente nei quadri scaturendo di per sé dalla mano, e rivelando alfine il senso vero dell’autore, il suo segno, il suo sintomo, il suo sentimento. Un metodo quello di Morelli che si qualifica come indiziario, e che Ginzburg equiparava a quello di Artur Conan Doyle per il suo Sherlock Holmes, e a quello di Freud per le sue analisi, il quale giovane Freud vedeva nei saggi di Morelli la proposta di un metodo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, che erano rivelatori del carattere. Ginzburg parla per tale metodo di paradigma indiziario o divinatorio. E fa l’esempio del cacciatore capace di riconoscere le “tracce mute” degli spostamenti di una preda, in base a indizi infinitesimali e nascosti, e di risalire quindi da dati trascurabili ad una realtà complessa. Per questo il cacciatore è stato il primo uomo a essere capace di raccontare storie, cioè un narratore. Un esempio per me bellissimo dato che cacciatore lo sono stato, e so bene che i cacciatori davvero son capaci di narrare racconti fantastici, ed anche di ingigantirli. Mi vien da ridere a pensare che io ho un amico, Maurizio, che ha lo stesso cognome dello studioso d’arte, ci ho lavorato assieme ogni giorno per 5 anni, durante i quali ogni tanto gli raccontavo del critico Morelli e dell’orecchio di Botticelli, ma a lui, che pur aveva fatto l’Istituto d’Arte, la cosa non interessò mai. Era giovane, pensava ad altre cose, viveva veloce e non lento, e non sono mai riuscito a fargli ambire la filologia, nondimanco gli voglio ancora bene. All’opposto ho un altro amico collega di nome Silvano Soldano che è un vero e proprio filologo dell’arte, tanto che a lui è dovuta l’attribuzione a Bernardino del Castelletto di un trittico un tempo ritenuto del Lippi, e oggi conservato al Museo diocesano di Massa. Silvano, tra le sue diverse opere e saggi, di argomento artistico, ha scritto un volume: Col tempo - Scritti di storia dell’arte, Massa, 2018, dedicato a tutti gli artisti del comprensorio apuano, dal medioevo ad oggi, descritti con attenzione filologica sia per la loro vita sia per la loro arte. In esso, in relazione a degli affreschi di una sala del palazzo Ducale di Massa, ha sviluppato la sua analisi sulla base dei dettagli delle figure, e a tal fine ha richiamato proprio la teoria, che ritiene illuminante, del critico Morelli, “quando scrisse che sono i particolari di comune pratica, di mestiere, a darci sovente il segno di una ripetitività identificatoria”. (Soldano, Cultura…, cit. p. 336).

Ginzburg termina il suo saggio spiegando che la decadenza del pensiero sistematico ha visto il sorgere di quello aforistico (e cita Nietzsche e Adorno) che è appunto il tentativo di dare giudizi sull’uomo e sulla società sulla base di sintomi e indizi, appunto solo e sempre tracce.

Poi ha scritto un altro libro correlato a quelli trattati: Nondimanco. Machiavelli, Pascal, Adelphi, 2018. In esso la filologia è già nella virgola, che divide i nomi dei due pensatori e le loro filosofie. La virgola ha valore congiuntivo e disgiuntivo, ed in questo caso entrambi. Sono esperto del peso della virgola tanto che mi posso citare, è questa certo una digressione, mancava, nondimanco quindi provvedo, è un divertimento letterario scritto anni fa su un blog pubblico molto seguito, eccolo:

- “Le frasi relative cambiano valore in dipendenza del fatto che siano, o non siano, separate con la virgola dalla frase reggente. Basti un esempio. Se scriviamo: “i cittadini, che credono in lui, lo seguono”, con la virgola abbiamo introdotto una frase relativa che è definita “esplicativa” in quanto facciamo in tal modo intendere che “tutti i cittadini lo seguono perché credono in lui”. Mentre se scriviamo: “i cittadini che credono in lui lo seguono”, l’assenza di virgole introduce una frase relativa definita “limitativa” per la quale facciamo intendere che a seguirlo non sono tutti i cittadini, ma solo quelli che credono in lui. Nel primo caso l’insieme dei cittadini è generale, se non universale, nel secondo caso è certamente più limitato. Cosa trarne da tutto ciò? Beh! Per me, Grammaticus, la cosa è abbastanza chiara se non addirittura ovvia: domenica e lunedì 28 e 29 marzo 2010 non bisogna usare assolutamente le virgole! La cosa sarà sufficiente a ridimensionare il seguito dei suoi affiliati e a far apparire finalmente mister B. nei confini reali della limitatezza del suo insieme, cioè del suo universo.” -

Rispetto a Machiavelli e Pascal, Ginzburg spiega che li tiene insieme la “Teologia Politica” per la quale rispolvera il famoso inizio del primo capitolo del libro ad essa dedicato da Carl Schmitt: “Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione” (Nondimanco, cit. p. 11), e capiamo subito che l’asserto ci servirebbe molto anche oggi per lo stato d’emergenza. Ma di seguito rispolvera anche l’inizio del terzo capitolo dello stesso libro: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, ad esempio “Il Dio onnipotente è divenuto l’onnipotente legislatore”, e “Lo stato d’eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo nella teologia”. E qui fa entrare in gioco un pensiero di Pascal, che anticipa nel tempo tutto ciò: “gli stati perirebbero se non facessero piegare le leggi alla necessità”, ma dice che la religione non ha mai ceduto a questo ed ha rimediato “con accomodamenti o miracoli”. Quindi ben prima di Schmitt anch’egli paragona eccezione politica e miracolo. Ginzburg sviluppa il ragionamento su questo pensiero di Pascal per il quale non ha dubbi che fosse conosciuto da Schmitt, ma pensa che questi “si guardò bene dal citarlo”, e che “chi non l'ha presente sono i lettori e seguaci di Schmitt”. Pascal fu anche colui che attaccò, nelle Lettere Provinciali, del 1656, la casistica nella teologia morale, cioè la classificazione dei problemi morali che nascono nella vita, quindi i casi di coscienza, perché la riteneva tanto cavillosa da creare lassismo morale. Machiavelli studiò l’eccezione e la regola, diventando forse sinonimo dell’accomodamento con i vocaboli che da lui scaturirono: machiavellico e machiavellismo, e osservò che i grandi condottieri del passato per le loro conquiste usarono sempre debitamente la forza, tanto che “i profeti armati vinsero e i disarmati ruinorno”, e nella situazione dell’Italia del suo tempo, “più stiava che li Ebrei, più serva che e’ Persi, più dispersa che gli Ateniesi” (metaforicamente quasi ancora la situazione dei nostri tempi), invitava il “suo Principe” ad usare la forza.

Nondimanco è avverbiouasi ancora di negazione avversativo, o anche congiunzione coordinante avversativa (così precisa per “nondimeno”, che è equivalente, Luca Serianni, Italiano - le Garzantine, ediz. ristampa 2013, p. 563). Quindi di fatto introduce una negazione, diciamo meglio una eccezione, e così la usa Machiavelli, per cui il nondimanco introduce la realtà di fatto, che è l’eccezione di contro a quella morale, oppure ancor meglio introduce “quello che si fa” di contro a “quello che si dovrebbe fare”. Nel suo Il Principe il nondimanco appare in tal senso per 23 volte. Io ho una edizione vecchia de Il Principe e i Discorsi, credo del 1926 (data della introduzione), della Casa Edit. Nerbini di Firenze, curata da Adolfo Oxilia. La uso da sempre, e ci sono affezionato, per lo strano nome del curatore, e perché è tutta sottolineata, appuntata e scarabocchiata, non penso proprio solo da me, ma la sento cosa mia. La ricerca delle presenze di nondimanco l’ho fatta però con il pc su una copia virtuale, presa da Liber Liber, che è la trasposizione di una edizione Einaudi del 1972. Quando è così utile il computer non può essere condannato. E se qualcuno domanderà a cosa serva sapere il numero delle presenze di una parola, vorrà dire che non si è ancora ben addentrato nella filologia.

Con stupore e rammarico, che mi hanno fatto rimanere anche un po’ male, ho costatato che nondimanco non appare nel Tommaseo, almeno nel mio, che è una edizione economica, cui però tengo molto. Cita, infatti, solo “non di meno”, e anche l’equivalente “nulla di meno”, che ritiene più forte e mi par di capire prediliga. Mi sembra doveroso segnalare che nei due testi del Principe che ho indicato appare sempre e comunque “non di manco”, con le parole separate, ma in un’altra edizione che ho, forse più affidabile essendo della Treccani, appare invece sempre nella forma unita “nondimanco”. (I classici del pensiero italiano - Niccolò Machiavelli, Biblioteca Treccani, 2006, pp. 7 e ssgg)

Una postilla al nondimanco la merita la copiazzatura forse inconsapevole e quindi involontaria che ne ha fatto Valter Veltroni, con il suo “Ma anche”, che è stato giustamente sbeffeggiato da Crozza, tanto da farlo diventare un modulo interpretativo il “ma-anchismo”. I comici, i grandi comici, meno male che esistono, da Benigni, a Crozza, a Luttazzi, a Bergonzoni, un tempo anche Grillo, sono tutti dei filologi, curatori della parola, delle locuzioni, degli incisi, delle congiunzioni, delle sospensioni, e delle virgole. Ma Veltroni ha pisciato fuori dal vaso, il suo “Ma anche” è congiunzione avversativa che non avversa mai niente ed include invece sempre tutto, nel suo falso buonismo, incapace di distinguere tra morale e fatto, e di rilevare l’eccezione. Io poi sono prevenuto con Veltroni almeno da quando disse che non era mai stato comunista. La notte del suo annuncio mi vennero a trovare, per denunciare la rivelazione e chiedermi di essere portavoce della loro protesta (perché mi stimavano come compagno senza aggettivi), tutti i miei amici grandi comunisti fornesi, morti e vivi. Erano stati tutti diffusori domenicali dell’Unità, che hanno sempre letto da cima a fondo, fino ai necrologi, e chiaramente alle virgole, quindi tutti di fatto esperti filologi. Il più grande fu Rodolfo Alberti, padre del mio amico Ezio (entrambi non ci sono più) che dilapidò per cinquant’anni le sue ferie nel servizio alle feste del Partito. Il suo nume fu Togliatti che mi spiegava essere un latinista e chiaramente un grande filologo, ed anche Rodò studiava con lui le parole, e nelle lunghe discussioni che facevamo era solito intercalare sempre un: “Hai letto cosa ha detto a riguardo il compagno Ercole (Togliatti)?”, che lui considerava come una Bibbia, io di certo no, tantomeno quindi lo leggevo. Non sono mai stato del PCI, poi venne il Sessantotto ed i riferimenti cambiarono per tutti anche per i comunisti. Però a dir il vero, a metà anni Settanta, a Pisa una mia amica di università se ne uscì fuori con un: “Dè, l’hai letto l’ultimo articolo della Seroni?” (chiaramente sull’Unità). Rimasi interdetto e allibito, ma la perdonai perché era una compagna di Livorno, e poi anche bellina. Io son stato comunista da giovane, ma devo confessare che ciò avvenne in modo che si può definire leggendario, nel senso di campato per aria, o ancor più concretamente senza basi. Con più proprietà e coscienza, con attenzione filologica alle parole, mi sono poi considerato un compagno “socialista libertario”. Così si definì peraltro, dietro mia credo asfissiante domanda, il mio amico e maestro Luciano Della Mea, che nondimanco aveva a suo tempo fondato una “Lega dei comunisti”. Luciano mi regalò un libro del suo amico Sebastiano Timpanaro (che ho letto esser stato anche amico di Ginzburg), Sul materialismo, (Nistri Lischi, 1975, 2a ediz.), autore che fu materialista engelsiano e poi infine leopardiano. Il libro ha una meravigliosa dedica (di Luciano a me) sulla pagina di guardia, per cui lo conservo come un oracolo. Ma ci sono legato anche per il modo miracoloso in cui lo lessi. A caccia portavo sempre dietro un libro, e un giorno di gennaio (non ricordo l’anno) in località Pian dei Santi, avevo quello e mi misi a leggerlo. Mi catturò tanto che lo finii d’incanto, ma verso l’imbrunire la luce era cominciata a scarseggiare e ad impedirmi di leggere, però mi avvidi che sulla costa della Corsica, che avevo di fronte, si cominciarono ad accendere le luci, in maniera numerosa ed insolita, e che tali luci si rifrangevano sul mare piatto e lucido, tanto che un raggio di luce riflesso, per angolo strano di rifrazione, giungeva fino in Pian di Santi. Così riuscii a finire il libro e soprattutto (questo il vero miracolo) a capirlo tutto. Nel buio lo chiusi, lo riposi e mi avviai a casa, e vidi che tutte le luci della Corsica al contempo si spensero. Pensai d’istinto che ad accenderle erano stati i miei paesani fornesi socialisti, comunisti ed anarchici, che era fuggiti in Corsica durante il fascismo, e che lo avevano fatto per aiutarmi a leggere e capire un libro sul materialismo. In tanti sono rimasti là, e io me li vedo che sul far della sera puntano sempre i loro occhi, ed i loro binocoli, verso le Apuane, e in tal modo mi intravvidero quel giorno. Saluto la Corsa-Fornese Maria Balloni, che è una di loro. Sono stato sempre un grande sognatore, nondimanco lo sono ancora, ma un po’ meno.

Ginzburg ha scritto decine e decine di altre opere, tra cui per esempio: Il giudice e lo storico - Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, 1991, che meriterebbe un po’ di attenzione, soprattutto per mio interesse particolare, ma anche per tale libro purtroppo non c’è tempo, nondimanco un appunto correlato lo posso citare. Al processo fu sentito anche il mio amico Roberto Torre, deceduto all’inizio del 2021, come teste per la vicenda di un brindisi in un bar di Massa che fu fatto il giorno 17 maggio 1972, alla notizia del Calabresi morto, brindisi a cui partecipò anche Bompressi, altro mio amico, che fu accusato di esserne stato l’assassino materiale, e poi condannato, e poi alla fine per fortuna graziato, da Napolitano (che un merito dunque ce l’ha). Torre fu sentito su quel brindisi, e appunto sulla presenza di Bompressi, che se era lì all’ora dell’aperitivo, non poteva essere certo a Milano poche ore prima. Torre confermò la sua presenza. La sua deposizione, che ho risentito solo in questo periodo, la si trova facilmente su Internet digitando “Torre Testimonianza processo Sofri”, strumento, questo internet, davvero essenziale per una ricerca filologica che voglia dirsi tale. In essa Torre tenne a puntualizzare tre cose: 1 - che non era amico di Bompressi; 2 - che non era di Lotta Continua; 3 - che di Bompressi, pur conoscendolo, aveva anche un po’ di soggezione. Torre era uno storico, si era laureato due volte sempre a Pisa, la prima agli inizi degli anni Settanta e poi negli anni Duemila. Per me conoscendolo volle lasciare in tal maniera degli indizi, voleva far capire che c’era una distanza tra lui e Bompressi, e i giudici la dovevano scoprire da soli, in modo da credere che la sua non fosse solo la testimonianza di un amico. Certo i processi e le aule di giustizia sono veramente il fondaco nel quale si possono attingere tutti gli elementi per creare e narrare storie, più dei territori dei cacciatori.

Ma veniamo, o meglio ritorniamo al libro dell’inizio: La lettera uccide.

Non pensavate mica per caso che la mia lettera di fine anno fosse finita già qui? Comunque il ritiro è ammesso, lo concedo, non sono certo un dittatore, anche se è peggio per voi che rinunciate alla possibilità di divenire filologi, ricordate “l’acquisire la lentezza in un mondo che la disprezza”, “l’andare lenti” di Franco Cassano, e del suo Pensiero Meridiano, (Laterza, 1996) “il riguardo per le cose”, “nel doppio senso di aver riguardo per esse e di riguardarle”, come avviene per i libri che hanno la pagina di guardia, o sguardia, o risguardo e che ogni tanto si riaprono e si rileggono.

Ebbene, come accennato all’inizio lo spirito del libro La lettera uccide, si inquadra compiutamente nella locuzione più ampia: “la lettera uccide, lo spirito dà vita”, che è riferita per la prima parte alla legge giudaica e per la seconda al cristianesimo. Ginzburg dipana l’argomento in diversi saggi, che cerco di riassumere nei loro dettami essenziali, sicuramente in modo incompleto.

In La latitudine, gli schiavi, la Bibbia - Un esperimento di microstoria, cita il motto di Mies van der Rothe “Less is more”, che sta a significare “il meno è più”, nel senso che se si circoscrive l’ambito di una analisi si può arrivare a capire di più, e “questo duplice processo cognitivo è stato evocato per definire la microstoria” (p.5). E per far capire che la microstoria è il tentativo di “strappare all’oblio definitivo le vite dimenticate di individui marginali, o addirittura sconfitti”, narra quella di Jean-Pierre Purry “precoce profeta della conquista del mondo da parte del capitalismo” (p. 24), che elaborò agli inizi del Settecento una teoria di colonizzazione di terre per la coltivazione del vino in base alla loro latitudine, indicando in 33 gradi, quella migliore per produrre il vino (p. 8). E Ginzburg nel far ciò viaggia nelle citazioni dalla Bibbia, a Marx, a Max Weber, etc.

In Rivelazioni involontarie. Leggere la storia contropelo, si parla della Apologia della Storia di March Bloch, che paragonò lo storico ad un detective che cerca indizi (p. 26), e inquadrò l’importanza dell’antiquaria per lo studio della storia, o meglio per l’etica della storia, per la capacità documentaria, l’esigenza di classificazione, la lotta alle falsificazioni, etc. (p. 30). Poi sviluppa un raffronto tra Bloch e Vico, al quale attribuisce la ricerca di norme per cavar fuori verità dalle storie e dagli scrittori, sulla base di rivelazioni involontarie (p. 42). Il metodo di leggere testimonianze tra le righe per cogliere rivelazioni involontarie serve a “riconoscere la forza dei miti e delle menzogne, e a smascherarli”, cosa tra l’altro utilissima “nei nostri tempi di fake news” (pp. 43-44).

In La lettera uccide - Su alcune implicazioni di 2 Cor, 3, 6, in pratica si parla di quelle che appaiono come assurdità dell’Antico Testamento se ci si basa su una loro interpretazione letterale, metodo che di fatto renderebbe l’uomo impossibilitato a seguire le regole della legge alla lettera, perché il farlo lo porterebbe alla morte, “la lettera uccide”. Il trucco per superare l’impasse consiste nell’interpretarle in modo non letterale, quindi anche allegorico, e ciò lo suggerisce il nuovo testamento che è legato non alla lettera, ma allo spirito cui rinviano le regole della legge, come afferma Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai Corinzi: “La lettera uccide, lo spirito dà vita”. Ginzburg segue la disputa attraverso l’intervento di grandi religiosi come Sant’Agostino, San Francesco, Lutero, filosofi come Spinoza, e Hobbes, filologi come Lorenzo Valla e finanche scrittori come Kafka, oltre ad altri importanti esegeti della Bibbia. Il risultato di questo processo è la distruzione del carattere sacro della Bibbia, in quanto essa (provo a dirlo con parole mie) contiene sì la parola di Dio, ma scritta dagli uomini, e non quindi su tavole di pietra immortali, ma nell’animo di questi ultimi. Mi assumo la responsabilità di questa interpretazione alla quale sono giunto cercando di leggere tra le righe dei resoconti di Ginzburg, ma anche solo il naufragare nelle sue spiegazioni, i suoi rimandi, le sue citazioni è davvero un’avventura letteraria di per sé fantastica, da provare. Nondimanco (ormai a tale avverbio mi ci sono affezionato), essendo come San Tommaso sono riandato a rileggere il capitolo XII, citato da Ginzburg, del Tractatus Teologico-Politico che studiai ormai ben 45 anni fa a Pisa, per ottenere il titolo in Filosofia, di cui del resto mai mi sono pavoneggiato, non perché convinto di non sapere, ma proprio per mia indole umile, non da primo della classe, che se anche lo ero preferivo sempre ricoprire il ruolo di secondo (c’ho anche una spiegazione di ciò, ma è troppo lunga). Ebbene in quel capitolo Spinoza scrisse con grande chiarezza: “Quanti considerano la Bibbia, come una lettera di Dio inviata dal cielo, grideranno che io ho commesso un peccato contro lo Spirito Santo, ho stabilito infatti che la parola di Dio è difettosa, lacunosa, adulterata e autocontraddittoria […] e infine che il documento originale del patto che Dio strinse con i Giudei è andato perduto. Ma cesseranno di gridare [esaminando veramente la questione] giacché sia la ragione sia le sentenze dei profeti e degli apostoli proclamarono che la parola eterna, il patto terreno di Dio, nonché la vera religione sono scritti a caratteri divini nei cuori degli uomini, ossia nella mente umana, e la mente degli uomini è il vero documento originale di Dio […]. Ai primi Giudei la religione fu trasmessa come legge scritta, perché li si considerava nello stato dell’infanzia. Ma in seguito Mosè (Deuteronomio 30, 6) e Geremia (Geremia 31, 33) preannunciarono per essi un tempo futuro, in cui Dio scriverà le sue leggi nei cuori. Perciò ai soli Giudei […] spettava, un tempo, battersi in difesa della legge scritta sulle tavole, ma per nulla a quanti la portano nelle menti”. (Baruch Spinoza, Tractatus…, in “I Classici del pensiero”, Mondadori, p. 246). Piccola nota: mio figlio fa Baruch di secondo nome, io volevo darglielo come primo, ma la famiglia si oppose e mi arresi, ma io l’ho sempre però chiamato come avevo scelto. Ho anche continuato negli anni a leggere di filosofia, e penso lo farò ancora, per arrivare a capire qualcosa, ma l’ho fatto soprattutto con maestri intellettuali del mio paese, dei quali ho anche scritto in un libro, quindi popolari, depositari di quella saggezza che serve a capire, ma anche ad andare avanti nella vita, quindi filosofi sommi, anche se senza cattedra. Come non ricordare, uno per tutti, il mio amico Gino il Tenore che ogni volta che veniva a trovarmi mi portava un nuovo pensiero di Sant’Agostino, che assieme dovevamo interpretare, o come diceva lui con maggior precisione: “ratificare, recensire o meglio ancora declinare”, in modo chiaro e cristallino, come si declinano le generalità.

In Le nostre parole e le loro - Una riflessione sul mestiere di storico, sempre con riferimento a Bloch ed in omaggio a Galileo si spiega che “il linguaggio della natura è quello della matematica”, mentre quello della storia è umano, dell’uomo, e quindi la storia non è reale, non è la realtà, ma è “approssimativa” come appunto il suo linguaggio, perché le parole sono “inadeguate”. Così come l’opera dell’uomo, il suo lavoro, non rappresentava la libertà, e le parole per definirlo erano spesso “anacrostiche”, tanto che in antichità era definito forse più propriamente “opera servilia” (pp. 70-73). Oltretutto anche la stessa parola storia non è mai cambiata, ma nelle varie epoche ha rappresentato una cosa diversa. Nell’analisi della storia si contrappongono poi per Ginzburg due livelli: quello dell’osservatore (che è lo storico) e quello dell’attore (che è colui che la storia la fa), che definisce il primo “Etic” da phonetics (fonetica) e il secondo “Emic” da phonemics (fonologia), per la ricostruzione storica è necessaria una azione di comparazione e una prospettiva dinamica che riesca a collegare i due livelli. Compito difficile per cui spesso i risultati sono negativi. Lo storico poi si fa guidare da paradigmi interpretativi per cui alla fine trova nelle sue ricerche ciò che voleva trovare. Per quello che può valere, perché definirmi storico è sicuramente eccessivo, posso fare anche un piccolo esempio personale. Nei miei studi sulla Resistenza quando mi facevo influenzare dal paradigma della “responsabilità partigiana” alla fine uscivano fuori, quasi costrette in un qualche modo, testimonianze che la confermavano, quando al fondo, mai avrebbero costituito una componente essenziale, per non dire reale, del quadro d’insieme. Molti storici, che amano qualificarsi e soprattutto apparire tali, compiono di routine questo errore, che bisogna rilevare.

In Microstoria e storia del mondo. Ginzburg afferma chiaro che “la microstoria, che è storia analitica, non si contrappone alla storia del mondo, ne è anzi uno strumento indispensabile”, almeno per la storia comparata, che è quella da perseguire. Anche Wikipedia la definisce come “ricerca sulle culture regionali o comunque locali non considerate nella grande narrazione della genesi della civiltà occidentale”, un indirizzo che “ha prodotto contributi teorici e pratici e innovativi nella storiografia, a partire dalla di fine Novecento”. Viaggiando come al solito da Vico a Marx, fino a Croce e Gentile, Ginzburg spiega che la microstoria parte da casi singoli “scelti in maniera artificiosa”, e “li analizza da vicino”, “attraverso congetture sottoposte a verifica e poi magari anche scartate”, realizzando così una prospettiva storica nuova e sperimentale (pp. 105-106) Questa in sintesi la sua definizione completa, che serve a far capire che “microstoria e macrostoria, analisi ravvicinata e prospettiva globale, non si escludono, anzi: si rafforzano a vicenda” (p. 116).

In Etnofilologia” - Due studi di caso.

Il primo studio riguarda Gòmez Suàrez de Figueroa, che poi prese il nome di Garcilaso de la Vega, detto “el Inca”, che nacque a Cuzco nel 1560, figlio di un conquistatore spagnolo e di una principessa Inca. Tornato in Spagna si diede alla letteratura, imparò l’italiano e il latino, ma non dimenticò la duplice origine etnica e linguistica. Tradusse dall’italiano i Dialoghi d’amore di Leone Ebreo, e scrisse I Commentari reali degli Inca. Mori a Cordoba nel 1616. Nei Commentari contesta l’errore degli spagnoli che avevano interpretato la parola “huaca” nel senso di “idolo”, come prova dell’idolatria dei popoli delle Ande, quindi sulla base di un fine. E obiettò che oltre a idolo la parola “huaca” era usata per tutte le cose che emergevano per bellezza o eccellenza, ma anche quelle più brutte o mostruose, o eventi straordinari come i gemelli, o guerci, comunque segnati dalla natura. Insomma anomalie, ma anche fenomeni naturali imponenti. Tutte cose ammirate sempre con rispetto, la cui diversità era rappresentata solo da una differente pronunzia, senza mutare né lettera né accento. Garcilaso è ritenuto oggi “un antropologo indigeno che smascherò la cieca arroganza dei colonizzatori”, attraverso la precisazione di regole linguistiche, un “Inca filologo”. (p. 121 e p. 131).

Il secondo studio riguarda John David Rhys, nato in Galles nel 1534 e morto nel 1619. Studiò e si laureò in medicina a Siena, poi insegnò latino a Pistoia e latinizzò il suo nome in Johannnes David Rhoesus. In Italia pubblicò un libro sul latino, in italiano, ed un libro sull’italiano, in latino, il tutto per gli stranieri che volevamo imparare correttamente l’italiano, attraverso la pronuncia, in una prospettiva comparata. Per esempio la pronuncia di gn in tutte le lingue, il suo studio era rivolto quindi al suono delle parole. Un po’ come “el Inca” per il suono di “huaca” e come lui dopo aver scritto grammatiche di italiano e di latino, studiò la sua madrelingua, gallese. L’Italiano era all’epoca, informa Ginzburg, la lingua internazionale, come oggi l’inglese. Entrambi gli autori sono quindi simboli straordinari della etnofilologia, una materia nuova che hanno contribuito a creare. Un racconto straordinario!

In Conversare con Orion, si parla “dell’intreccio nella ricerca storica tra caso e presupposti”. Orion è il nome del programma su cui si basa il catalogo della Recearch Library della University of California, che serve a Ginzburg a spiegare come si diverte da matto (giudizio benevolo) nella ricerca a caso, che usa con il lancio di una parola “per trovare ciò che non cerco affatto, anzi ciò di cui non sospetto nemmeno l’esistenza”. Viene spontaneo dire: “Proprio matto questo Ginzburg”, che però è ben cosciente e sa anche, come già i filosofi antichi, che “la meraviglia, la sorpresa generano la conoscenza” (pp. 135 e 139).

In Plasmare il popolo - Machiavelli, Michelangelo. Si riferisce che Jakob Burchartdt, nella sua La Civiltà del Rinascimento, definiva i Condottieri “il primo gruppo nella storia moderna di criminali liberi da scrupoli etici e religiosi” (p. 146), che dovevano la loro grandezza ad un individualismo sfrenato. Questo stesso individualismo si espresse nell’arte soprattutto attraverso Michelangelo, ma la travalicò e divenne segno della soggettività dello spirito moderno per i successivi tre secoli (p. 146). “Lo Stato come opera d’arte”, è il capitolo iniziale del libro citato di Burchardt in cui si analizza il nesso tra arte e politica, tra “bontà e malvagità”, che preclude di fatto lo spazio alla morale. L’unione di forza, talento e spregiudicatezza, Machiavelli la chiamò virtù, con la quale il Principe plasma il popolo, come lo scultore plasma il marmo. In entrambi i casi si da vita a una “forma”, in un caso uno stato, la Repubblica, nell’altro una statua, un’opera d’arte. A Machiavelli si torna sempre nel parlare di politica!

In Il segreto di Montaigne, ci si riferisce alla “identità di Montaigne, marrano, o mezzo ebreo, oppure né l’uno né l’altro” (p. 173), e di un suo “nucleo criptogiudaico”, per il quale “Sainte-Beuve aveva scritto divertito: “Può anche essere sembrato un ottimo cattolico, a parte il fatto che non è mai stato cristiano” (p. 174). Ginzburg poi si sbizzarrisce sul suo giudaismo mascherato, parlando di maschere e teatro, sul suo “contrasto tra pubblico e privato”, sul fatto che gli rimane sempre “la convinzione che tutto sia una farsa”, e che “il mondo intero pratica l’arte della commedia”, citazione che fu ripresa anche da Shakespeare, in “Come vi piace”: “Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne solo giocatori” (p. 175). E infine le belle citazioni dai Saggi, sulla melanconia, sul filosofare che significa “imparare a morire”.

In Ancora sui riti cinesi - Documenti vecchi e nuovi, si parla della celebre “disputa sui riti cinesi”, cioè sulla condanna della strategia delle missioni gesuitiche in Cina. Nel 1715 il papa Clemente XI aveva vietato ai cinesi convertiti al cattolicesimo di partecipare al culto dei morti, soprattutto a quello di Confucio. I Gesuiti sostennero invece la legittimità di quelle cerimonie. Nel 1742 la Chiesa pose fine all’esperienza dei padri gesuiti in Cina. La Compagnia di Gesù fu poi soppressa nel 1773, e rinacque nel 1814, ma fu una istituzione diversa e in un mondo cambiato (pp. 186-192). L’argomento permette a Ginzburg di narrare da par suo di un grande personaggio gesuita italiano Matteo Ricci, figura nota e importantissima, matematico, cartografo e sinologo, che guidò la prima missione dei Gesuiti in Cina nel 1582, raggiungendola dall’India. E pensare che era nato a Macerata nel 1552, e morì a Pechino nel 1610, lasciando un manoscritto sulla sua esperienza, che fu pubblicato solo nel 1911, e che fu fonte di dottrinali dispute teologiche. Nel 1583, con permesso formale delle autorità cinesi, si stabilì a Zhaoquing, ad ovest di Canton, assieme al confratello Michele Ruggieri, un linguista di Spinazzola - Bari, che già nel 1584 pubblicò un Catechismo cinese, considerato forse il primo libro scritto in cinese da un europeo. Furono gli esploratori di una strada asiatica per la religione cattolica, che è ancora da compiersi. (pp. 215-218)

In Verso la fine del mondo - Sull’ultimo progetto di De Martino, si dice che Il Mondo Magico, è il libro più originale di Ernesto De Martino. Renato Solmi spiegò che “la magia ha “contribuito in maniera decisiva all’origine del sé, o della presenza individuale”, e segnalò una convergenza tra il libro di De Martino e Dialettica dell’Illuminismo, di Horkheimer e Adorno. Affermò poi che “i problemi legati a struttura e sovrastruttura sono microstorici”, mentre “il problema dell’origine del sé è un problema macrostorico”. De Martino precisò che “l’emergere del sé, del sé nel mondo, rende possibile la storia”. Ginzburg ha proposto di mettere il libro di De Martino e quello di di Horkheimer e Adorno, assieme a quelli di Walter Beniamin, di Marc Bloch, di Raimond Quenau, e di Carlo Levi, tutti scritti negli anni Quaranta del Novecento, quando “la minaccia di una possibile vittoria del Nazismo generò l’impulso a ripensare la storia dalle radici”. (p. 202) De Martino scrisse che il profilarsi della catastrofe nel mondo, come possibilità reale, ha evidenziato “due terrori” che presidiano l’epoca contemporanea: “perdere il mondo” ed “essere perduti nel mondo” (p. 211)

In Non esiste un Dio cattolico, Ginzburg riferisce una frase di Papa Francesco del 2013: “E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico, esiste Dio” (p. 214), e poi accomuna al Papa il cardinale Carlo Maria Martini che ha scritto: “Non si può rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti”. (p. 214). Ginzburg si confessa con chiarezza: “Sono ebreo, non ho ricevuta nessuna educazione religiosa, non conosco (purtroppo) l’ebraico. La persecuzione durante la guerra ha fatto di me un bambino ebreo. Le religioni mi appassionano. Sono ateo”. Sul suo esempio, prendendo un po’ di coraggio, mi confesso anch’io: “Non posso dirmi ateo, termine per me troppo impegnativo, ma non credente sì, ho ricevuto del resto l’insegnamento del catechismo cattolico, quella del Dio crocefisso, e non quello (purtroppo) che i gesuiti Ricci e Ruggieri esportarono (tentarono) in Cina, del “Cristo bello, magnifico, vestito con abito cinese”, che aveva annunciato il regno di Dio. Nondimanco, guarda caso, ho letto le encicliche di papa Francesco, il gesuita Bergoglio, per le quali Raniero La Valle ha parlato di “cambiamento epocale”. Ed ho letto anche il cardinale Martini, che in Il discorso della Montagna - Meditazioni, (Mondadori, 2006) ha scritto come il rigore del “Discorso” sia cosa impossibile da seguire per l’uomo. Per finire Ginzburg ritorna all’umiltà (un filologo del resto non può non esserlo) e conclude: “Mi guardo bene dal fare previsioni su ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi” (p. 218).

In Svelare la rivelazione - Una traccia. Ginzburg ritorna a Spinoza che definì “Profezia o rivelazione la conoscenza certa di qualcosa svelata da Dio agli uomini”, e “Profeta colui che interpreta le rivelazioni per coloro che possono solo accettare per mera fede le cose rivelate” (p. 221). Ne consegue che la parola rivelata consiste nell’obbedire a Dio. Questo è l’insegnamento dell’Antico Testamento, che Paolo di Tarso rinnova nella Seconda lettera ai Corinzi, annunciando un nuovo patto con Dio, basato non sulla lettera, ma sullo spirito, “la lettera uccide, lo spirito dà vita”, e forti di questa speranza gli uomini possono comportarsi con maggiore “franchezza”, e non più coprirsi il volto con un velo, come fece Mosè dopo aver spiegato agli Israeliti i comandamenti di Dio. Quel velo è il limite dell’antico testamento, rimosso solo da Gesù, rimozione che costituisce appunto lo svelamento, la rivelazione. (p. 225)

Il filologo Ginzburg rende chiari anche i discorsi teologici più discussi e complessi della dottrina cristiana.

---

In una lettera di fine anno, è necessario di fatto, non è cioè un imperativo morale, pensare cosa ci sia da salvare di questo tragico 2021, che ha visto scomparire troppi amici e conoscenti.

Il compito è difficile, ma io ho un piccolo fatto che mi ha colpito, perché mi accontento sempre di poco, e in ciò forse sta il segreto per non essere proprio del tutto pessimisti.

Vado sempre alla fontana della Rocca a prendere l’acqua, mi serve quella per questioni di salute. E lì quest’anno ho conquistato una nuova parola, non mi sembra cosa da poco dato che si parla di filologia. Se nei prossimi dieci anni conquisterò una parola all’anno, alla fine ne avrò 10 in più, che compenseranno quelle che perderò per difetto di memoria, cosa che sta purtroppo già avvenendo. Un giorno di dicembre c’era a prendere l’acqua con la sua Apetta un uomo anziano, ma di solo qualche anno più di me. Prendendo un bottiglione l’ha guardato e ha detto: “Porco cane c’ha la carpitola, l’han lasciato al sole”. Ed io: “E cos’è la carpitola?”. E lui: “È il verde di muffa che fan le bottiglie, non pulite e asciugate”. A casa ho consultato di Emidio Mosti e Mario Nancesi (due amici che non ci sono più) il Dizionario Encicopledico del vero dialetto massese, Ceccotti, 2005, dove è qualificata come un “lichene, un muschio, anche come erba presepina”, e quindi ci siamo. Enrico Novani (altro amico) nel suo Vocabolario del dialetto massese, Massa, 2005, 2a ediz, in maniera più dettagliata parla di “Muffa, muschio o quanto si genera in condizioni di ombra e umidità”, e cita anche l’etimologia tardo latina “carpia, muschio, borracina”. Ho poi sentito anche il mio amico Calmo Fialdini, con il quale avevamo progettato 40 anni fa il Vocabolario della lingua fornese, senza ancora esserci arrivati in fondo. Lui mi ha detto che in fornese carpitola non esiste, e che è parola propria del massese, forse perché a Forno l’acqua scorre, e quindi non crea depositi di sporco. Non per niente sulla fontana pubblica di piazza Martiri della Libertà a Forno, con un certo orgoglio di paese, abbiamo inciso una frase di Eraclito che recita “dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima”, così i pellegrini che si abbeverano e la leggono penseranno di sicuro, sorpresi e incuriositi: “Però che filologi questi fornesi!”

Invero nel 2021 ho poi anche un fatto grande da ricordare, questo è infatti di carattere morale e civile.

Un fatto importante che credo non dimenticherò più. Si tratta della vicenda del bambino molto piccolo disperso per due notti nei boschi, vicino casa, nel Mugello, e poi ritrovato da un giornalista (davvero miracoloso caso di un giornalista che non riferisce solo commenti, per non dire chiacchere, né la morale, ma compie addirittura dei fatti). Io l’ho tengo impresso nella mente soprattutto per tre motivi: a - per come il bambino si è avvinghiato alla madre quando l’ha rivista; b - per il modo in cui la madre lo ha coperto e protetto in silenzio; c - per la laconica risposta che il padre ha dato ad un giornalista (un altro, non il buon Samaritano) che gli domandava assertivo e petulante, prefigurando diatribe e dibattiti infiniti: “Certò è stato un grave errore non controllare il bambino…”, al che (e sottolineo lo “al che”, che vale di sicuro il nondimanco, e che mi ha insegnato il mio maestro di filosofia teoretica Mireno, figlio di Cesare, e nipote di Mamerto, tutti Alberti, una razza fornese di filosofi-filologi); dicevo, al che il padre, nemmeno un poco infastidito, né tantomeno incazzato, per il microfono invadente sotto il mento, ha risposto calmo, ed anche rassicurante (verso il giornalista): “Sì, è stato un errore”. Così senza puntini, né patemi.

Io penso che quella famiglia, che sta vicino ai boschi, per conto proprio, rappresenti una civiltà antica ma viva, e l’unica cultura popolare che ci potrà salvare, noi ed il mondo. Ma è una cultura difficile, bisogna vincere l’ansia di apparire, l’unica ansia che a me fa proprio paura, e che fa andare tutti di furia, e che si può riconquistare solo con l’andare lento, come insegna la filologia, con valenza in tutti i campi della vita, non solo in quelle linguistico.

--

Non venite a dirmi: “Ma per chi hai scritto? E per cosa?”

Scrivo sempre e solo per me, e per mettere ordine, se poi qualcuno si aggiungerà a leggere sarà chiaramente il benvenuto, mai io sono già contento così, di aver raggiunto un fine, e nel farlo di aver seguito correttamente un solco, forse anche una via. Ma anche solo il solco mi basta ed avanza, perché è comunque sempre un’impronta, una presenza.

Massimo Michelucci