Le popolazioni hanno bisogno di difendere la vita e il territorio

In molte regioni dell’America Latina gli stati nazionali non proteggono i loro cittadini, in particolare i settori popolari, gli indigeni, i neri e i meticci, i quali si trovano indifesi di fronte alla violenza del narcotraffico, delle bande criminali, delle guardie private delle imprese multinazionali e, benché appaia paradossale, delle stesse istituzioni armate dello Stato, come la polizia e le forze armate. Gli innumerevoli massacri che avvengono in Messico, come quello dei 43 studenti di Ayotzinapa del settembre 2014, non sono un’eccezione; come non lo è l’impunità per i più di 30.000 scomparsi e 200.000 morti da quando lo stato ha dichiarato “guerra al narcotraffico” nel 2007 [1]. Ciò che succede in Messico si replica, con alcune differenze, nella maggioranza dei paesi della regione. In Brasile muoiono di morte violenta 60.000 persone l’anno, il 70% delle quali sono di discendenza africana, che sono in maggioranza giovani poveri [2]. A fronte del contesto di violenza che mette a rischio la vita delle popolazioni più vulnerabili, alcuni dei settori interessati hanno deciso di creare forme di autodifesa e di contropotere. All’inizio sono forme di difesa, però, nel corso del loro sviluppo, arrivano a stabilire veri e propri poteri paralleli allo Stato. Uno dei casi più emblematici è la Guardia Indigena nel sud della Colombia, che è riuscita a difendere le sue comunità, in piena guerra dai paramilitari, dal narcotraffico, dallo Stato e dalla guerriglia.

La difesa della vita e la comunità

Le mobilizzazioni multicolori del popolo Nasa, nelle montagne del Cauca colombiano, si svolgono con un cordone di guardie che si posizionano davanti e ai lati, disposti in fila, a proteggere i membri della comunità, composti e armati di bastones de mando, bastoni di legno riportanti i simboli ancestrali (simbolo di autorità, ndt). La protezione e la difesa delle comunità è l’obiettivo della Guardia Indigena, che considera se stessa un organo di educazione e formazione politica.

Tutti gli anni si realizza nel nord del Cauca (nel sud della Colombia) una cerimonia di consegna del titolo a centinaia di guardie; uomini, donne e giovani dai 12 ai 50 anni che hanno partecipato alla Scuola di Formazione Politica e Organizzativa nella quale ci si forma in Diritti Umani e in “legge originaria” per adempiere ai propri compiti. La consegna del titolo è un evento dal profondo contenuto mistico che ha luogo in un centro di armonizzazione, ed è condotto dagli anziani saggi delle comunità insieme a cattedratici universitari e a difensori dei diritti umani (https://www.youtube.com/watch?v=PTrb/zZX5lc).

La struttura della Guardia Indigena è semplice e mostra in cosa consiste tale organizzazione: ogni comunità (vereda) elegge in assemblea dieci guardie e un coordinatore. Poi viene eletto un coordinatore per ogni territorio indigeno (resguardo) e un altro per tutta la regione. Nella Regione Nord del Cauca ci sono 3.500 guardie indigene, corrispondenti a 18 autorità locali (cabildos) elette nei territori indigeni. “Non abbiamo niente a che vedere con una polizia, siamo formatori di organizzazione, siamo protettori della comunità e difensori della vita, senza coinvolgimento nella guerra”, spiega uno dei coordinatori della Guardia Indigena [3]. La partecipazione nella Guardia è su base volontaria e non è remunerata; i vicini della comunità (vereda) e le autorità collaborano al mantenimento degli orti famigliari di ogni guardia eletta e in alcuni casi svolgono lavori collettivi (mingas) per seminare e fare la raccolta.

Le guardie vengono valutate una volta l’anno e possono essere mantenute nella funzione o sostituite da altre, perché l’organizzazione si basa sulla rotazione tra tutti i suoi membri. La giustizia comunitaria – che è il compito centrale della Guardia Indigena – cerca di mantenere l’armonia e gli equilibri interni; essa si basa sulla cosmovisione e sulla cultura nasa, e si differenzia dalla giustizia statale che separa e incarcera quelli che delinquono. La Guardia difende il territorio dai militari, dai paramilitari e dai guerriglieri che hanno assassinato e sequestrato centinaia di membri della comunità durante la guerra. Negli ultimi anni proteggono anche il territorio dalle multinazionali minerarie che contaminano e scacciano le popolazioni dalle loro terre.

Oltre a sostenere la formazione e la organizzazione delle comunità, le guardie promuovono la sovranità alimentare, danno impulso agli orti comunitari e alle assemblee di riflessione sul “proprio diritto”, come chiamano la giustizia comunitaria. Ogni sei mesi le guardie partecipano a rituali di armonizzazione, guidati dai medici tradizionali, come forma di “pulizia” individuale e collettiva.

La resistenza pacifica è uno dei tratti identitari della Guardia Indigena. In varie occasioni si sono concentrate centinaia di guardie, convocate dai fischietti tradizionali, per liberare un prigioniero sequestrato dai narco-paramilitari o dalla guerriglia. Per riuscire a liberare i sequestrati senza usare violenza, fanno valere il peso della loro quantità e della loro determinazione. In varie occasioni hanno persino affrontato le forze armate dello Stato [4].

Nel 2004 la Guardia Indigena ha ricevuto il Premio Nazionale della Pace che consegna annualmente un insieme di istituzioni, tra le quali le Nazioni Unite e la Fondazione Friedrich Ebert. La Guardia Indigena è diventato un punto di riferimento per altri settori della popolazione come i discendenti africani, e anche per i contadini e altri settori popolari che soffrono a causa della violenza statale o privata.

Autodifesa e movimenti sociali

L’esempio della Guardia Indigena non è un’eccezione. Buona parte dei movimenti latinoamericani si è dotata di forme di autodifesa per la protezione delle comunità e dei loro territori. La recente avanzata dell’ estrattivismo, con le sue imprese minerarie e monocolturali e le sue opere infrastrutturali, trova una risposta nelle popolazioni, che in alcuni casi si danno forme di controllo territoriale sulla base di gruppi che sono controllati dalle comunità.

Per spiegare cosa è l’autodifesa e che relazione ha con i contropoteri, descriverò brevemente quattro casi che sono complementari con quello già analizzato della Guardia Indigena del sud della Colombia: le ronde contadine del Perù, la Polizia Comunitaria nel Guerrero , e due esperienze urbane: i bivacchi di Cheran e le brigate della Comunità Abitativa Acapatzingo a Città del Messico.

1 – Nel decennio degli anni 70 in Perù, nelle aree rurali remote lo Stato era praticamente assente e i contadini si trovavano senza alcuna protezione di fronte ai ladri di bestiame. Erano comunità molto povere e fragili, allevatori di altura per i quali un furto poteva compromettere la propria economia di sussistenza. Decisero in assemblea di organizzare delle ronde notturne che avrebbero vigilato sui ladri di bestiame e si sarebbero fatte carico della sicurezza delle comunità. Le Ronde Contadine si formarono innanzitutto come ronde notturne a rotazione tra tutti i membri delle comunità, ma in seguito iniziarono a realizzare azioni a favore della comunità (sentieri e scuole, tra l’altro) e più tardi iniziarono anche a dispensare giustizia, agendo come poteri locali [5]. Le Ronde si riattivarono nel Cajamarca, nel nord del Perù, contro il progetto minerario aurifero Conga, per contrastare la contaminazione delle sorgenti di acqua dalle quali dipende l’agricoltura familiare. Decisero di chiamarsi Guardiani delle Lagune perché si accampano a 4.000 metri di altezza in zone inospitali, dive vive pochissima gente, per vigilare, per essere testimoni e per fare resistenza alla presenza delle multinazionali (https://www.youtube.com/watch?v=spghNSMFT7M).

2 – Il processo della Polizia Comunitaria nello stato di Guerrero merita alcune riflessioni. Il Coordinamento Regionale delle Autorità Comunitarie – Polizia Comunitaria (CRAC-PC) nasce nel 1995 in contesti indigeni per difendersi dalla criminalità. Inizialmente lo compongono 28 comunità, che riescono a ridurre gli indici di criminalità dal 90 al 95% (http://youtube.com/watch?v=cJm0XiJo6lk). Nella prima fase consegnavano i delinquenti alle autorità pubbliche, però, vedendo che queste persone venivano rilasciate dopo poche ore, una assemblea regionale decise nel 1998 di creare le Case di Giustizia, dove l’accusato può difendersi nella sua lingua, senza pagare avvocati né multe, dato che la giustizia comunitaria persegue la “rieducazione” del condannato, per cui nel corso del giudizio si cerca di arrivare ad accordi e alla conciliazione delle parti, coinvolgendo i familiari e le autorità delle comunità. La rieducazione del colpevole consiste in lavoro al servizio della comunità, perché questo tipo di giustizia non è di carattere punitivo, ma persegue la trasformazione dell’individuo sotto la supervisione e l’accompagnamento delle comunità. La massima autorità della CRAC-PC è l’assemblea aperta nelle località di pertinenza della Polizia Comunitaria. Le assemblee “nominano i coordinatori e i comandanti, così come hanno il potere di destituirli se sono accusati di non adempiere ai propri doveri; inoltre si prendono decisioni relative all’ amministrazione della giustizia di casi difficili e delicati, o su argomenti importanti attinenti all’organizzazione” [6]. La CRAC-PC non ha mai dato origine a una struttura di comando verticale e centralizzata, dimostrando di funzionare come potere differente da quello statale che identifichiamo come autorità comunitarie.

A partire dal 2011 l’esperienza della Polizia Comunitaria si è diffusa considerevolmente nello stato di Guerrero e nel resto del paese , di pari passo con l’aggravarsi della violenza statale e del narcotraffico contro i villaggi, e con la delegittimazione degli apparati statali. Nel 2013 si è prodotto un salto enorme che ha portato a che i gruppi di autodifesa fossero presenti in 46 degli 81 municipi del Guerrero e che coinvolgessero 20 mila cittadini armati.

Bisogna evidenziare le differenze tra polizie comunitarie e forme di autodifesa. Queste consistono in gruppi di cittadini che si armano per difendersi dalla delinquenza, però a differenza delle prime, i suoi membri non sono nominati dalle loro popolazioni né rendono conto a queste delle loro azioni; mancano di regolamenti e principi di funzionamento. Tuttavia la loro notevole espansione è dovuta alla crescita delle forme di autodifesa indigena stimolate dalla sollevazione zapatista del 1994, e riconosciute dal Manifesto di Ostula del 2009, approvato dai villaggi e dalle comunità indigene di nove stati nel corso della 25° assemblea del Congresso Nazionale Indigeno (CNI) che ha rivendicato il diritto all’autodifesa [7].

3 – Cheran è una cittadina di 15 mila abitanti nello stato di Michoacan, la cui popolazione è formata in maggioranza da indigeni Purépechas. Il 15 aprile del 2011 la popolazione si è sollevata contro i trafficanti di legname (talamontes), in difesa dei loro boschi di uso comune, della vita e della sicurezza della comunità contro il crimine organizzato protetto dal potere politico. A partire da quel momento, la popolazione si autogoverna attraverso i 179 bivacchi installati nei quattro quartieri che formano la città, e che sono il nucleo del contropotere indigeno (http://www.youtube.com/watch?v=DgI9_kKBwws).

La popolazione elegge col sistema di “usi e costumi” un Consiglio Supremo che è la principale autorità municipale riconosciuta, anche dalle istituzioni statali. Non si realizzano più elezioni con partiti, ma sono le assemblee che eleggono i governanti. I bivacchi sono estensioni della cucina nelle barricate comunitarie; sono diventate uno spazio di convivenza tra vicini, di scambio e di discussione, in cui “vengono coinvolti attivamente i bambini, i giovani, le donne, gli uomini e gli anziani”, e dove si prendono tutte le decisioni [8].

L’immagine del potere comunale a Cheran è un insieme di circoli concentrici: nella parte più esterna ci sono i quattro quartieri e nel centro c’è l’Assemblea Comunale sostenuta dal Consiglio Supremo del Governo Comunale, formato da dodici rappresentanti, tre per ogni quartiere. Poi ci sono il Consiglio Operativo e la Tesoreria Comunale, che rappresentano il primo circolo intorno al centro, cioè all’Assemblea. Intorno ci sono sei altri consigli: amministrativo, dei beni comunali, dei programmi sociali, economici e culturali, della giustizia, delle questioni civili e il consiglio di coordinazione dei quartieri. Come dicono a Cheran, si tratta di una struttura di governo circolare, orizzontale ed articolata [9].

4 – La Comunità Abitativa Acapatzingo è formata da 600 famiglie nella zona sud di Città del Messico e fa parte dell’Organizzazione Popolare Francisco Villa della Sinistra Indipendente. E’ il quartiere popolare più consolidato del Messico urbanizzato, con criteri di autonomia ed autorganizzazione. La base dell’organizzazione è costituita dalle brigate, formate da 25 famiglie. Ogni brigata nomina dei responsabili per le commissioni, che generalmente sono quattro: stampa, cultura, vigilanza e mantenimento. I suoi membri sono a rotazione e nominano rappresentanti per il consiglio generale di tutto l’insediamento , dove confluiscono rappresentanti di tutte le brigate.

Quando si presenta un conflitto, interviene la brigata, anche se si tratta di un problema intra familiare, e, a seconda della gravità del conflitto stesso, si può chiedere l’intervento della commissione di vigilanza, e perfino del consiglio generale. Ogni brigata si occupa, una volta al mese, della sicurezza del territorio; ma il concetto di vigilanza non corrisponde a quello tradizionale (di controllo), dato che gira intorno al concetto di autoprotezione della comunità, e il suo compito principale consiste nell’educazione della popolazione [10]. La commissione di vigilanza ha anche il ruolo di segnare e delimitare il dentro e il fuori, chi può entrare e chi non può farlo. Questo è un aspetto centrale dell’autonomia, forse il più importante. Quando avviene un’aggressione nell’ambiente domestico, i bambini escono fuori facendo suonare il fischietto, meccanismo che la comunità usa per qualunque emergenza. L’ambiente interno è sereno, tanto che è normale vedere i bambini giocare da soli in totale tranquillità in uno spazio sicuro e protetto dalla comunità, cosa che è impensabile nella violenta Città del Messico.

Potere comunitario e potere statale

Nei cinque casi illustrati, la chiave risiede nella comunità. Le forme di autodifesa sono decisive per la formazione di nuovi poteri diversi da quelli egemoni centrati nelle istituzioni statali, perché sono poteri ancorati nelle pratiche comunitarie. Tuttavia dobbiamo andare più a fondo, dare più dettagli, per poter decifrare in cosa consiste questa nuova tendenza dei movimenti sociali in America Latina.

La logica statale e la logica comunitaria sono opposte, antagoniste. La prima si basa sul monopolio della forza legittima in un determinato territorio e sulla sua amministrazione attraverso una burocrazia civile e militare permanente, non eleggibile, che si riproduce, ed è controllata da se stessa. La burocrazia garantisce stabilità allo Stato, dato che rimane inalterabile anche quando ci sono cambi di governo. Trasformarla dall’interno è molto difficile e presuppone processi di lunga durata. In America Latina si aggiunge un altro fattore che rende ancora più difficile cambiarla: le burocrazie statali sono creazioni coloniali, il cui personale è reclutato tra l’ élite bianca, istruita e maschile, in paesi dove la popolazione è in maggior parte nera, india e meticcia.

La logica comunitaria è invece basata sulla rotazione dei compiti e delle funzioni tra tutti i membri della comunità, la cui massima autorità è l’assemblea. In questo senso, l’assemblea come spazio/tempo per la formazione delle decisioni, deve essere considerata un “bene comune”. Tuttavia non considero la comunità come una istituzione, bensì come relazioni sociali che si dispiegano in uno spazio o territorio determinato. Da un punto di vista centrato sui vincoli, non possiamo ridurre ciò che è comune agli ettari di proprietà collettiva, agli edifici e alle autorità elette in assemblea che possono essere gestite da caudillos o burocrati. In sintesi, ritengo che esista la comunità come istituzione e la comunità come vincolo sociale, e che tale differenza è molto importante per la questione del potere. Nell’analisi che propongo, il cuore della comunità non è costituito dalla proprietà comune (anche se tale proprietà continua ad essere importante), bensì dai lavori collettivi o comunitari che sono chiamati nei più diversi modi: minga, tequio, gauchada, guelaguetza, e che non devono essere ridotti alle forme di cooperazione istituzionalizzata nelle comunità tradizionali [11].

I lavori collettivi sono il sostentamento di ciò che è comune, e la vera base materiale che produce e riproduce l'esistenza delle comunità vive, con relazioni di reciprocità e mutuo aiuto differenti dalle relazioni gerarchiche ed individualizzate proprie delle istituzioni statali. La comunità si mantiene viva non grazie alla proprietà comune, bensì grazie ai lavori collettivi che sono un fare creativo, che ri-creano ed affermano la comunità nella sua esistenza quotidiana. I lavori collettivi rappresentano il modo in cui i membri della comunità fanno comunità, la forma di esprimere relazioni sociali differenti da quelle egemoni.

Nel suo lavoro sociologico la guatemalteca Gladys Tzul, appartenente ad una comunità maya, afferma che nella società basata sul lavoro comune non c’è separazione tra l’ambito domestico, che organizza la riproduzione, e la società politica, che organizza la vita pubblica; entrambe si sostengono ed alimentano mutualmente. Nelle comunità vige la complementarietà tra i due ambiti attraverso il governo collettivo. “Il governo collettivo indigeno è l’organizzazione politica che garantisce la riproduzione della vita nelle comunità, dove il lavoro comune è la base fondamentale sulla quale poggiano e si producono questi sistemi di governo collettivo e dove avviene la partecipazione piena di tutti e tutte” [12].

I lavori collettivi li troviamo in tutte le azioni della comunità, sono quelli che permettono di riprodurre non solo i beni materiali, ma la comunità stessa come tale, dall’assemblea e dalla festa, fino al contenimento del dolore attraverso il lutto e le sepolture; e permettono anche di creare alleanze con altre comunità. Le lotte di resistenza che assicurano la riproduzione della vita comune, sono anch’esse ancorate nei lavori collettivi.

Mettere l’accento sulla molteplicità dei lavori collettivi ci permette di affrontare la questione del potere e del contropotere da un altro piano. In primo luogo, né l’uno né l’altro sono istituzioni, bensì relazioni sociali. In secondo luogo, trattandosi di relazioni sociali, possono essere prodotte da qualsiasi soggetto collettivo in qualsiasi spazio, poiché si separano dalla comunità, dalle relazioni di proprietà e dalle loro autorità, per riapparire laddove i soggetti o i movimenti realizzano questo tipo di pratiche ispirate al comunitario, anche se non sono comunità. In terzo luogo, focalizzandoci sulle relazioni sociali, possiamo avvicinarci ai flussi di potere, ai cambiamenti nelle relazioni di forza e, nel caso dei movimenti sociali, ai cicli di nascita, maturazione e declino che sono inerenti alla logica sociale collettiva. In questo modo non cadremmo nella tentazione di considerare come poteri delle istituzioni che sono in realtà delle maglie dell’ ingranaggio statale, come succede, ad esempio, con i consigli comunali del Venezuela.

In questo caso specifico, se ci atteniamo al discorso governativo e dei membri delle comuni, se ci focalizziamo nella legislazione, potremmo perdere di vista che si tratta di operatori dello Stato nei territori, nei quartieri periferici, come sostiene l’inchiesta minuziosa dell’antropologo italiano Stefano Boni. Nella sua inchiesta, egli sostiene che i consigli comunali dipendono dal finanziamento statale e che funzionano in chiave burocratica, che formano parte della struttura organizzativa dello Stato e che lo consolidano ma non lo trascendono, e che col passar del tempo registrano una crescente omogeneizzazione e perdita di indipendenza. Nonostante in Venezuela esista una forte cultura egualitaria nei quartieri popolari, dove l’orizzontalità e l’assenza di gerarchie sono la cultura, Boni conclude che le contraddizioni tra la base e il vertice si sono risolte con il predominio delle direzioni, che hanno ristretto e controllato gli spazi di egualitarismo [13].

Un grave problema per l’emancipazione, è rappresentato dal fatto che in tutte le culture esistono tratti più o meno forti di cultura gerarchica, alimentata dalle relazioni patriarcali e maschiliste. Anche nelle comunità indigene e negli spazi degli afrodiscendenti, dove il caudillismo, il personalismo e il paternalismo si riproducono in modo quasi “naturale”. E’ per questo che credo sia importante insistere nei vincoli sociali che si esprimono nei “lavori collettivi”, intesi in senso ampio, dall’assemblea alla festa. E’ nel lavoro vivo e creativo che c’è qualche possibilità di modificare culture e modi di fare, e non nelle istituzioni stabilite, che funzionano in base all’inerzia che riproduce le oppressioni.

Potere, contropotere e poteri non statali

In senso generale, possiamo affermare che i movimenti sociali sono contropoteri che cercano di equilibrare, o di fare da contrappeso, ai grandi poteri globali (le imprese multinazionali) e anche agli stati nazionali che tendono a lavorare insieme. Spesso tali contropoteri agiscono in modo simmetrico rispetto al potere statale, stabilendo gerarchie molto simili benché siano occupate da persone di altri settori sociali, di altre etnie e colore di pelle, da altri generi e generazioni.

Il concetto di contropotere ci rimanda a un potere che cerca di spodestare il potere esistente, e che si costituisce in modo molto simile al potere statale, così come lo conosciamo e lo subiamo per lo meno nelle società occidentali. Qui non si tratta di entrare in un dibattito teorico su potere, contropotere o anti-potere, tesi che difendono rispettivamente Toni Negri e John Holloway [14]. Credo che il problema principale di tali proposte sia che ignorano la realtà latinoamericana, dove i movimenti sociali non si contano in individui, ma in famiglie (quando si va in una comunità indigena, in un accampamento di contadini senza terra o di disoccupati senza casa, ti dicono sempre “siamo tot famiglie”). Questo ci riporta sempre alla comunità, però non alla comunità nella sua essenza, alla comunità-istituzione, bensì a relazioni forti e dirette, viso a viso, tra persone che hanno strette relazioni nella vita quotidiana. Nelle proposte delle sinistre che scommettono sul “contropotere”, è latente la tentazione di convertirsi in un nuovo potere, costruito a immagine e somiglianza dello Stato-nazione. L’esempio storico potrebbero essere i soviet russi o i Comitati di Difesa della Rivoluzione (CDR) a Cuba, che nel tempo si sono trasformati in parte dell’apparato statale, si sono subordinati allo Stato e sono diventati parte della sua istituzionalità.

Nella realtà delle comunità che resistono, da cui l’esteso resoconto sulle esperienze concrete, i poteri costruiti (siano forme di autodifesa o forme di esercizio del potere) hanno una base completamente differente da quella che predomina nelle grandi rivoluzioni o nei movimenti sociali. Nella cultura politica egemone, l’immagine della piramide che ispira lo Stato e la Chiesa Cattolica si ripete costantemente nei partiti e nei sindacati con una regolarità spaventosa. Il controllo del potere passa dall’occupazione del punto più alto della piramide e tutta l’azione politica incanala le energie collettive in quella direzione.

Esistono, tuttavia, altre tradizioni ben distinte nelle quali tutta l’energia della comunità è posta nell’evitare che i dirigenti abbiano potere, ovvero che si avvicinino ad un potere di tipo statale, come evidenzia l’antropologo francese Pierre Clastres [15]. La comunità è (una forma di) potere, include relazioni di potere, però queste hanno un carattere diverso da quello del potere statale. I consigli degli anziani, gli incarichi a elezione e a rotazione sono poteri trasparenti permanentemente controllati dalla collettività affinché non si autonomizzino, non si separino e non possano esercitare un potere sulla comunità; che è ciò che caratterizza lo Stato con le sue burocrazie non eleggibili, separate dalla società e collocate al di sopra di essa.

Quando nominiamo questo tipo di poteri dobbiamo differenziarli dalle altre forme di esercizio del potere, e pertanto propongo di chiamarli poteri – non – statali. Forse il caso più conosciuto è quello delle Giunte del Buon Governo delle cinque regioni zapatiste, che funzionano nei cinque caracol. Le giunte sono composte per metà da uomini e per l’altra metà da donne. Sono elette tra le centinaia di membri dei municipi autonomi. Tutta la squadra di governo (24 persone in alcuni caracol) cambia ogni otto giorni. Questo sistema a rotazione, come dicono le stesse basi di appoggio zapatista, fa si che entro un certo tempo, tutti imparino a governare. La rotazione avviene in tutti e tre i livelli dell’autogoverno zapatista: in ogni comunità tra le persone che la compongono; in ogni municipio autonomo tra i delegati eletti, revocabili e a rotazione; in ogni regione con la Giunta del Buon Governo. Si tratta di più di mille comunità, 29 municipi autonomi e circa 300 mila persone che si governano in questo modo.

Due questioni sono da sottolineare. La prima: è l’unico caso in tutta l’America Latina nel quale l’autonomia e l’autogoverno trovano espressione in tre livelli con la stessa logica assembleare e di rotazione che si trova nella comunità. Dei 570 municipi dello stato di Oaxaca, 417 sono retti da un sistema normativo interno, conosciuto come “usi e costumi” che permette loro di eleggere le proprie autorità in modo tradizionale, in assemblea e senza partiti politici. Però neanche in questo caso tanto esteso di autogoverno, si è riusciti a superare il livello municipale. La seconda caratteristica dell’autonomia zapatista è che non produce burocrazie, perché la rotazione delle funzioni la disperde, evita cioè che si congeli un corpo specializzato e separato. Qualcosa di simile succede a Cheran, tra la Guardia Indigena della Colombia e i Guardiani delle Lagune in Perù. Però nel caso colombiano esistono autorità locali (cabildos) che governano un territorio o resguardo, che è qualcosa di simile alle regioni zapatiste. Tuttavia l’ingerenza dello Stato attraverso piani educativi e sanitari, e soprattutto attraverso il finanziamento statale ai cabildos, ha portato questi a burocratizzarsi nonostante esistano controtendenze importanti come la Guardia Indigena, che rappresenta il cuore del potere dell’etnia Nasa.

L’importanza dei poteri non statali, tra i quali includo le diverse forme di autodifesa evidenziate, si basa nel fatto che attualmente i movimenti sociali latinoamericani hanno una doppia e complessa dinamica. Da un lato, interagiscono con lo Stato e le sue istituzioni, come hanno fatto tutti i movimenti della storia. Si tratta di un vincolo complesso e mutevole, a seconda dei paesi e delle realtà politiche. Resistono allo Stato e alle grandi imprese, pongono loro richieste ed esigenze, negoziano e in molte occasioni ottengono risorse e risposte alle domande formulate nelle piattaforme di rivendicazione. E’ la azione tipica dei movimenti sindacali, e della grande maggioranza dei movimenti. La seconda forma di azione è più recente ed è apparsa con forza nelle ultime decadi, soprattutto in America Latina. Insieme al legame con lo Stato, i movimenti creano spazi e territori propri recuperando terre che erano state loro espropriate, occupando terre incolte di proprietari privati o di istituzioni ufficiali nelle più diverse aree rurali e urbane. Circa il 70% della superficie delle città latinoamericane sono frutto di occupazioni, sulle quali i migranti rurali costruiscono le loro abitazioni, i loro quartieri e le infrastrutture sociali quali scuole, centri di salute e sportivi. Molti di questi spazi occupati illegalmente vengono legalizzati dalle istituzioni che offrono loro ulteriori servizi collettivi. Però altrettanti sono repressi, o i loro componenti hanno una intenzionalità differente, che consiste nel creare altre forme di vita, o “mondi altri” nel linguaggio zapatista. Si trasformano in “territori in resistenza” che, in alcuni casi, si avviano ad essere “territori di emancipazione” laddove le donne e i giovani giocano un ruolo rilevante nella configurazione del nuovo.

Ciò che risulta evidente è che il sistema spinge milioni di persone a creare i propri spazi e territori per poter sopravvivere, perché non hanno casa, sono disoccupati o soffrono di una qualsiasi forma di marginalizzazione. In questi spazi cercano di costruire quel diritto alla salute e all’educazione che il sistema nega loro, o perché è di scarsa qualità, o perché i servizi sono molto lontani o di difficile accesso. Nei 5.000 insediamenti rurali del MST (Movimiento Sem Tierra, ndt) del Brasile ci sono 1.500 scuole con insegnanti nate nelle comunità stesse e formatesi nelle scuole statali.

Tutte queste costruzioni devono essere difese. Non siamo di fronte a situazioni eccezionali. In questi giorni 30.000 persone (8.000 famiglie) sono accampate dal 2 settembre in una zona urbana della città di Sao Bernardo do Campo, a San Paolo: l’occupazione Popolo senza Paura sostenuta dal MTST (https://www.youtube.com/watch?v=3qBuPcOmKU4). Hanno bisogno di acqua, cibo e servizi igienici tutti i giorni. Però hanno anche bisogno di difendere lo spazio (alcuni vicini sparano contro gli occupanti), di creare una modalità per prendere le decisioni e per risolvere i problemi quotidiani. Hanno stabilito un regolamento interno per garantire la sicurezza e il lavoro in squadra [16]. Ciò li ha portati a creare un coordinamento interno, a eleggerne i membri e a sostenerli ogni giorno, per mesi. E’ un embrione di contropotere o di potere-non-statale. I percorsi non sono prestabiliti, ogni esperienza concreta prende la direzione che può o che i suoi membri definiscono.

 

Note:

1 El País (2016) “Año 11 de la guerra contra el narco”, in https://elpais.com/especiales/2016/guerra-narcotraficomexico/ (recuperato il 12 dicembre 2017).

2 IPEA-Instituto de Pesquisa Económica Aplicada (2017) “Atlas de Violencia 2017”, in http://www.ipea.gov.br/portal/ images/170609_atlas_da_violencia_2017.pdf (recuperato il 2 dicembre 2017).

3 Zibechi, R. (2008) “Autoprotección indígena contra la guerra”, in https://www.alainet.org/es/active/23367 (recuperato il 18 dicembre 2017).

4 Zibechi, Raúl (2014) “Autoprotección colectiva, dignidad y autonomía”, in Contrapunto 4 (5): 75-82.

5 Hoetmer, Raphael (2014) “Las rondas campesinas no son grupos terroristas”, in Contrapunto, 4 (5): 75-82.

6 Fini, D. (2016) “La Policía Comunitaria de Guerrero en México: una institución de los pueblos para la seguridad y justicia desde abajo”, in http://revistaefe.mx/la-policia-comunitaria-de-guerrero-en-mexico-una-institucion-de-los-pueblospara-la-seguridad-y-justicia-desde-abajo/ (recuperato il 18 dicembre 2017).

7 Congreso Nacional Indígena (17 giugno 2009) “Manifiesto de Ostula”, in

http://enlacezapatista.ezln. org.mx/2009/06/17/manifiesto-de-ostula/ (recuperato il 5 dicembre 2017).

8 Agencia SubVersiones (21 abril 2015) “Cheran K’eri: cuatro años construyendo autonomía”, in https://subversiones.org/ archivos/115140 (recuperato il 18 dicembre 2017).

9 Concejo Mayor de Gobierno Comunal de Cherán (2017) Cherán K ´eri. 5 años de autonomía. Cherán.

10 Pineda, C. (2013) “Acapatazingo: construyendo comunidad urbana”, in Contrapunto, 3 (10): 49-61.

11 Zibechi, R. (2015) “Los trabajos colectivos como bienes comunes material/simbólicos”, El Apantle 1 (10): 73-98.

12 Tzul Tzul, G. (2015) “Sistemas de gobierno comunal indígena: la organización de la reproducción de la vida”, El Apantle, 1 (10): 125-140.

13 Boni, Stefano (2017) “Il Poder Popular nel Venezuela socialista del ventunesino secolo”, Firenze, Editpress.

14 Negri, T. (2001) “Contrapoder”, in “Contrapoder. Una introducción”, Buenos Aires, Ediciones de Mano en Mano e Holloway, J. (2001) “Doce tesis sobre el anti-poder”, in “Contrapoder. Una introducción”, Buenos Aires, Ediciones de Mano en Mano.

15 Zibechi, Raúl (2010) “Dispersing Power. Social Movements as Anti-State Forces” , Oakland, AK Press: 66.

16 MTST (2017) “Um grito por dignidade”, in http://www.mtst.org/mtst/um-grito-por-dignidade-conheca-a-ocupacaopovo-sem-medo-sao-bernardo-do-campo/ (recuperato il 18 dicembre 2017).

 

Fonte: Mininotiziario America Latina dal basso, a cura di Aldo Zanchetta,

https://www.aadp.it/index.php?option=com_docman&Itemid=133