Perché non voglio la testa di Lozano

Continuo a leggere sul manifesto la richiesta di processare, e condannare, il soldato Lozano, per aver sparato nella famosa notte in cui la Sgrena fu liberata e Calipari perse la vita.

Ora, posto che neanche il manifesto adombra più la tesi di un agguato premeditato, mi sembra del tutto povero cercare di colpevolizzare un 22enne militare che quella notte sparò a un auto non identificata in corsa verso la sua postazione. Si era nei dintorni di Baghdad, in piena guerra, e francamente non me la sento proprio di chiedere la testa di Lozano, che casomai è egli stesso vittima della situazione. Fece, quel militare, quel che avrebbe fatto qualsiasi militare nella stessa situazione (il livello di attentati notturni era altissimo): aprì il fuoco (non solo lui, sparò anche la mitragliatrice del mezzo blindato). Certo ha ucciso un innocente, ma non certo con premeditata volontà di far fuori Calipari. Sparò verso un'auto non segnalata, tutto qui. È un rischio che sia Calipari che il suo collega alla guida erano con sapevoli di correre. Lozano è colpevole quanto lo sono tutti gli altri militari in guerra, né più né meno.
(emilio de paolis)

Ancora oggi qualcuno mi scrive accusandomi di volere la testa di Mario Lozano, il soldato americano che sparò contro la macchina su cui viaggiavo a Baghdad la sera del 4 marzo del 2005 e uccise Nicola Calipari, oltre a ferire me e Andrea Carpani, l'agente del Sismi alla guida. L'occasione per riparlare del caso Calipari, ormai dai più dimenticato, è stata la rivelazione da parte di WikiLeaks delle pressioni fatte nel 2007 dall'allora vicesegretario di stato statunitense John Negroponte sul nostro governo perché bloccasse il processo contro il contumace Mario Lozano. Nei fatti il processo non è mai iniziato perché sia la Terza Corte d'Assise di Roma (presieduta da Angelo Galiani, un magistrato che compare nella lista della cosiddetta P3) che la Corte di Cassazione si sono limitate a stabilire la non giurisdizione dell'Italia a giudicare Lozano.
È vero, io avrei voluto quel processo convinta che l'Italia potesse far valere la propria sovranità e quindi il diritto di giudicare il soldato Usa. Tuttavia non considero Lozano il principale responsabile della morte di Calipari, tanto è vero che io avevo citato in giudizio anche il Dipartimento di stato Usa, che ha respinto l'atto di comparizione in quanto "stato sovrano" con riferimento a una risoluzione dell'Onu. Volevo il processo ma il mio obiettivo non era la condanna di Mario Lozano, pensavo infatti che un dibattito con tutte le garanzie di legge (Lozano, che non si è mai presentato, era indagato a piede libero) potesse contribuire a far luce su quanto era successo quella notte del 4 marzo 2005 a Baghdad e risarcire così moralmente, anche se in modo del tutto parziale, le vittime, in particolare la famiglia di Nicola. Una pia illusione? Forse. Probabile.
Non era questo l'unico obiettivo, soprattutto volevo che con un processo si mettesse fine all'impunità dei soldati americani (e alleati) per i crimini commessi contro i civili, in Iraq come in Afghanistan. L'Italia ha rinunciato ad esercitare la propria sovranità per non irritare l'alleato americano, che, ora si sa per certo, non era rimasto a guardare. John Negroponte deve conoscere bene i fatti, era l'ambasciatore americano a Baghdad. Anzi, quella sera la pattuglia mobile che ci ha sparato contro era stata dislocata nella zona, almeno ufficialmente, proprio per proteggere il passaggio dell'ambasciatore che andava a cena all'aeroporto. Negroponte tuttavia avrebbe preso un'altra strada e comunque quando ci hanno sparato era già arrivato a destinazione sano e salvo. Perché la pattuglia mobile non era stata smobilitata? Chi aveva detto, durante l'ultima telefonata del comandante della pattuglia al centro di comando avvenuta alle 20,30, che doveva rimanere perché dopo venti minuti sarebbe arrivato il "convoglio"? Quale convoglio se dopo venti minuti esatti siamo arrivati noi? Chi ha annunciato il convoglio non poteva avere dubbi.
Tutti interrogativi che emergono dalla lettura del rapporto della commissione d'inchiesta militare americana. Forse Lozano, interrogato dai giudici, avrebbe potuto chiarire, forse non avrebbe voluto, ma perché rinunciare alle testimonianze, a cercare la verità? Solo per non compromettere i rapporti con gli Stati uniti? Oppure anche le autorità italiane temevano la verità?
Non volevo che Lozano diventasse un capro espiatorio, anzi è stato lui a scaricare tutte le responsabilità delle sue disavventure personali su di me. Per me, che sono pacifista, Mario Lozano è una vittima della guerra, anche se continua a difendere la sua missione militare. L'avrei anche incontrato quando sono andata a New York nel 2006 a presentare il mio libro Friendly fire, se fosse stato disponibile. Ma lui non ha voluto. Ho sempre cercato di mantenere una coerenza con i miei principi, anche quando ho dovuto confrontarmi con fatti che mi hanno coinvolta personalmente. Non è facile.
Così come non è stato semplice affrontare la questione degli iracheni sospettati di essere coinvolti nel mio sequestro. Più volte mi sono state presentate delle foto di persone sospettate per vedere se riconoscevo i miei sequestratori. Non avrei mai immaginato quanto fosse difficile riconoscere delle persone che ti hanno fatto del male: cercare di ricordare volti che hai fatto di tutto per dimenticare, immagini da incubo che ti hanno ossessionato per un tempo che ti è sembrato interminabile. Sono loro e non li vuoi riconoscere oppure non sono loro ma forse non li riconosci perché hanno cambiato taglio dei capelli, barba o li vedi in un contesto diverso? Provo a concentrarmi solo sui loro lineamenti. Come lasciare libere persone che hanno cambiato la tua vita? Ma come condannarle se non sono loro? Comunque le foto che mi hanno mostrato erano di persone che non avevo mai visto.
Ad un certo punto vengo convocata alla sede del Comando operativo del vertice Interforze nell'aeroporto militare di Centocelle a Roma per una rogatoria internazionale, in collegamento attraverso una videoconferenza con un tribunale iracheno. La rogatoria deve servire al riconoscimento di uno dei sospettati complici del mio sequestro.
Il primo scoglio è il giuramento: la giudice italiana sostiene che devo seguire la formula in uso in Italia, quello iracheno che devo giurare sul Corano. La diatriba si conclude con un compromesso: giuro con la formula italiana e poi anche su dio (un dio qualunque, cosa che per me che non sono credente non ha alcun valore ma accontenta il giudice iracheno). Devo ripetere per l'ennesima volta la storia del mio sequestro, a loro la sparatoria non interessa. Alla fine mi viene chiesto se per la mia liberazione è stato pagato un riscatto. Il governo italiano ha detto di no, rispondo. Ma il giudice iracheno sostiene che un detenuto sospettato del mio rapimento ha confessato di aver ricevuto 10 milioni di dollari e di averli poi spartiti tra vari gruppi. Se lo dice lui... Allora lei vuole un risarcimento, mi chiede il giudice. Perché no, rispondo io. Soltanto in seguito avrei saputo che una mia richiesta di risarcimento avrebbe costituito la base giuridica per portare alla sbarra il personaggio in questione. Tuttavia il riconoscimento non c'è stato perché, a detta del giudice, non erano riusciti a trasferire il sospettato in tribunale. Strano, avevano organizzato una rogatoria proprio per questo. Non tanto strano, mi suggerisce qualcuno, il sospettato avrebbe potuto smentire la confessione di fronte al giudice italiano o sostenere che gli era stata estorta con la tortura, come già successo. Comunque alla fine mi fanno vedere una foto, ma io non riconosco il personaggio in questione. Del resto non penso di aver mai visto i responsabili del mio sequestro in viso. I due che vedevo erano i miei guardiani, manodopera.
Circa un mese fa sono stata nuovamente convocata per una rogatoria, questa volta all'ambasciata americana. Perché, chiedo, visto che gli americani si devono ritirare dall'Iraq e dovrebbero ormai aver trasferito i prigionieri agli iracheni e hanno già riconsegnato anche Tareq Aziz? A quanto mi dicono invece alcuni prigionieri sarebbero ancora nelle mani degli americani, e poi pare che gli americani non si fidino molto degli iracheni e preferiscano gestire loro i satelliti. Ora ricordo: c'era un militare Usa che gestiva il collegamento anche durante la precedente rogatoria. Questa volta però gli americani non riescono a stabilire il collegamento e la videoconferenza salta. Il motivo della rogatoria era ottenere il mio consenso perché «le Autorità giudiziarie irachene procedano nel giudizio contro gli indagati per il reato di cui sono stata vittima».
Sono esterrefatta: per un reato di terrorismo - penso che in questo modo l'abbiamo classificato le autorità irachene e anche gli americani - sono io a decidere se processare o meno i sospettati? Evidentemente non basta la mia vaga richiesta di risarcimento. È la legge irachena, mi rispondono le persone interpellate. Sarà.
Non ci dormo per alcune notti. Perché scaricare su di me questa responsabilità? Non dovrebbero essere le autorità irachene a combattere la violenza? E quelli che ritengono responsabili - a me danno un solo nome seguito da un etc. - sono veramente coinvolti nel mio sequestro? Visto il funzionamento della giustizia irachena e degli arresti in massa degli americani i dubbi sono leciti. Se ci fosse un processo con tutte le garanzie di difesa e di accertamento della verità non avrei dubbi sul rinvio a giudizio, ma queste garanzie oggi in Iraq non ci sono. Ma è soprattutto una notizia a sciogliere tutti i miei dubbi: in Iraq l'anno scorso sono state eseguite 77 condanne a morte e 1.254 erano i detenuti in attesa dell'esecuzione capitale a fine 2009. Sono contro la pena di morte per chiunque e penso che nessun processo democratico possa iniziare sulla forca. Persino l'esecuzione di Saddam Hussein è diventata un orrendo spettacolo e io non voglio assistere a simili rappresentazioni. Così ho deciso di non dare il mio consenso alle Autorità irachene.
(giuliana sgrena)

Fonte: Il Manifesto del 8/8/2010