Ripensare i diritti

Gli autori dei due scritti che costituiscono questo volume (l'undicesimo) della collana "Alternative" sono entrambi noti studiosi del diritto internazionale dei diritti umani.
Ambedue sono anche da anni impegnati in organizzazioni internazionali di monitoraggio e protezione di tali diritti. Philip Alston e' uno dei massimi esperti mondiali nel campo dei diritti economici, sociali e culturali, ed e' stato per otto anni - dal 1991 al 1998 - presidente del Comitato dell'Onu su questi diritti. Antonio Cassese, giudice, autore di importanti lavori sui diritti umani, ha presieduto per cinque anni - dal 1993 a 1997 - il Tribunale dell'Aja sui crimini nella ex Iugoslavia (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia). Entrambi gli autori "prendono i diritti sul serio". Sono quindi perfettamente coscienti dell'uso puramente ideologico cui il linguaggio dei diritti molto bene si presta e della retorica dei diritti, spesso usata nelle giustificazioni ufficiali di interventi "umanitari" di vario tipo (da qualsiasi parte avvengano) allo scopo di stendere cortine di fumo su azioni in realta' mosse da ben altre ragioni e far accettare alla gente politiche che, nei migliori dei casi, con i diritti umani non hanno nulla a che fare e, nei peggiori, comportano gravi e ripetute violazioni di essi.
Ambedue gli autori concordano anche nel ritenere il sistema dei diritti umani, come concepito mezzo secolo fa, strumento sempre piu' inadeguato.
Muovendo da una concezione dinamica, essi evidenziano il bisogno di ripensare e ridisegnare il sistema dei diritti umani in funzione del susseguirsi sempre piu' rapido di avvenimenti che in pochi decenni hanno profondamente cambiato il mondo. Da questo punto di vista i due scritti in questo volume sono complementari l'uno all'altro. Alston auspica un ripensamento del diritto internazionale in modo tale che anche degli attori non statali siano trattati alla stregua di "soggetti" al pari degli stati. Cassese insiste sul problema dell'enforcing, additando come particolarmente importanti alcuni diritti "essenziali".

Una delle sfide cui il sistema dei diritti umani, tradizionalmente inteso su basi puramente statocentriche, si trova di fronte e' posta dalla drastica riduzione della sfera del potere statale e dalla parallela ascesa di potenti attori non statali, connessa con il modello neoliberista prevalente nell'attuale processo di globalizzazione dell'economia. Prevale la tendenza allo stato minimo (peraltro armato fino ai denti), "guardiano notturno" della legge e dell'ordine. Il resto e' lasciato sempre di piu' alle operazione di un mercato globale presupposto libero, in realta' fortemente dominato da diecimila multinazionali e da potenti istituzioni finanziarie internazionali quali la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
In questo modello, caratterizzato dalla deregulation del potere di attori privati mossi dalla logica dell'efficienza economica e della massimizzazione del profitto, favorevole alla privatizzazione anche dei servizi pubblici piu' essenziali, in cui le esigenze connesse al rispetto dei diritti sono sistematicamente messe in secondo piano (a meno che non si tratti di quelle che favoriscono le operazione del mercato e dello stato minimo), i deboli del mondo, coloro che non hanno potere contrattuale e potere di acquisto, sono destinati ad essere spazzati via. La logica in questo modello non e' quella di una benigna mano invisibile che assicura continui miglioramenti per tutti, bensi' piuttosto quella di un duro stivale - spesso assai visibile - che a grandi pedate relega i piu' poveri e i piu' deboli nei ghetti della poverta' assoluta.
La tesi centrale sostenuta da Alston nel suo scritto e' che, tale essendo la situazione globale, una delle grandi sfide per il sistema dei diritti umani e' quella di ristrutturare il diritto internazionale dei diritti estendendo la portata del principio di responsabilita' dagli stati ad attori non statali quali, in primo luogo, le imprese multinazionali e le grandi organizzazioni finanziarie internazionali. Infatti, a tutt'oggi, tali attori, in quanto attori non statali, non sono vincolati dalle norme del diritto dei diritti. La proposta di Alston puo' avere implicazioni piu' o meno radicali, e la fattibilita' di quanto implicato puo' essere piu' o meno realistica. Come minimo, essa comporta che le politiche di attori non statali del tipo menzionato dovrebbero essere monitorate da sistemi internazionali ufficiali di controllo e attuazione dei diritti (e non solo dal mondo delle Ong - Amnesty International, Human Rights Watch, ecc. - come avviene oggi).

La lista dei diritti umani e' molto estesa e nuovi si vanno aggiungendo. Alcuni di essi, come certi diritti civili e politici, sono diritti "negativi" nel senso che richiedono immunita' da certi tipi di interferenza; altri, segnatamente certi diritti economici e sociali, sono "positivi", nel senso che implicano una pretesa di interventi di un certo tipo. I primi si violano essenzialmente per commissione, i secondi anche per omissione. Si dice spesso che tutti i diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. E in qualche senso lo sono. Ma e' chiaro che essi possono confliggere, quanto meno nel senso che, come si continua a rilevare da varie parti, a causa della scarsita' di risorse non tutti possono venire pienamente attuati in breve tempo e per tutti.
Teoricamente, vi sono vari modi per risolvere conflitti tra diritti e tra politiche alternative che incidono variamente sui diritti umani di molte persone. Un modo e' quello di prendere tutti i diritti ugualmente sul serio e quindi di volta in volta (cercare di) individuare la politica che probabilmente conduce alla maggiore attuazione totale dei diritti - nel lungo periodo dato che, plausibilmente, i diritti di individui futuri contano tanto quanto contano quelli degli individui oggi esistenti. Secondo questo modo di vedere non vi sono diritti umani assoluti, che non e' mai lecito violare: tra i diritti vi possono essere trade-offs. Plausibilmente, e fino a prova contraria, sia il numero delle persone i cui diritti sono coinvolti, sia il numero dei diritti attuati rispettivamente non attuati o violati, sia i gradi di attuazione, non attuazione o violazione, sono fattori ugualmente importanti. Inutile dire che, dato il gran numero di persone e di diritti coinvolti, le stime necessarie per individuare di volta in volta le politiche piu' atte a massimizzare la fruizione totale dei diritti comportano calcoli e operazioni estremamente complessi.
Un modo di rendere il problema piu' gestibile consiste forse nel dare priorita' a pochi diritti che possono plausibilmente essere considerati basilari, ossia tali che l'effettiva fruizione di essi e' condizione necessaria per il perseguimento e la fruizione di tutti gli altri diritti.
Tra i diritti basilari vi saranno, plausibilmente, oltre al diritto alla vita, il "diritto alla liberta' dalla fame" (come sancito nel Patto sui diritti economici, sociali e culturali), e oggi si puo' certamente aggiungere, dalla sete; o piu' in generale, un diritto di "sopravvivenza", inteso come diritto a un nutrimento adeguato, acqua potabile, servizi igienici e sanitari essenziali, educazione di base, insomma un diritto a quelle risorse basilari necessarie per raggiungere quel tenore di vita materiale e mentale a sua volta necessario per poter perseguire qualsiasi altro valore, scelta o proprio piano di vita. Questa e' la via indicata da Cassese il quale appunto suggerisce che la "comunita' internazionale", al fine di non disperdere energie e poter agire piu' efficacemente nella promozione dei diritti umani, negli anni a venire dovrebbe focalizzare l'attenzione su un numero ristretto di diritti civili politici ed economici "essenziali", potenziando contemporaneamente il sistema di controllo e implementazione di essi.

I diritti umani pongono severi limiti alle politiche locali e globali sia degli attori statali sia degli attori non statali. Cio' vale forse in particolar modo per i diritti basilari, quale quello alla liberta' dalla fame. Se la gente in alcune parti del mondo muore di fame in seguito alle politiche economiche di certi stati, o di certe imprese multinazionali e certe istituzioni finanziarie internazionali, perche' questi stati, imprese, istituzioni non sarebbero da ritenere corresponsabili di violazioni massicce di siffatto diritto? Si considerino, a titolo di puro esempio, i due seguenti casi.
- Le sovvenzioni dei paesi ricchi dell'Occidente alla propria agricoltura, dell'ordine di 300 miliardi di dollari annui, e quelle alla produzione di tabacco, dell'ordine di 200 miliardi di dollari annui - da paragonarsi ai 52 miliardi di dollari annualmente devoluti all'assistenza nei "paesi in via di sviluppo" - producono, in questi ultimi, congiuntamente con le politiche doganali protezionistiche praticate dai primi, ulteriore disoccupazione, fame e miseria. Se tali sovvenzioni fossero drasticamente ridotte, e le politiche doganali radicalmente rivedute, tanti contadini del "Terzo Mondo" avrebbero ben altre possibilita' di esportazione dei loro prodotti, con conseguente diminuzione della poverta' e della fame tra di essi. Non comportano le politiche protezionistiche dei paesi occidentali violazioni di diritti umani?
- Se gli Stati Uniti, invece di praticare il dumping della sovrapproduzione delle proprie granaglie in Africa, comperassero quelle che ivi vengono prodotte e quindi usassero le proprie risorse nella loro distribuzione, cio' costituirebbe un grande stimolo per l'agricoltura africana proprio dove c'e' maggiore bisogno di esso, con conseguente riduzione di disoccupazione, poverta', fame tra le popolazioni locali. Le esigenze di attuazione di diritti umani basilari non fanno si' che il dumping praticato dagli Usa costituisca una violazione di tali diritti?

I diritti implicano obblighi, e se gli obblighi non vengono onorati i diritti rimangono parole nelle Carte. Diritti umani basilari come quello alla vita e alla liberta' dalla fame implicano un obbligo dei governi (specie quelli che hanno ratificato i patti e le convenzioni in cui siffatti diritti sono sanciti), nonche' della comunita' internazionale di creare leggi, norme e istituzioni per la realizzazione di quelle politiche necessarie alla loro attuazione - a livello globale.
Qui ci si scontra con un altro difficile problema per il sistema dei diritti umani, quello rappresentato dall'espansione dell'egemonia - specie militare - degli Stati Uniti nel mondo. Da piu' di mezzo secolo, la politica, tanto interna quanto estera, degli Usa viene ufficialmente presentata e giustificata come ispirata alla promozione dei diritti umani.
Nel gennaio del 1941 il presidente F. D. Roosvelt, in un famoso messaggio al Congresso, proponeva una nuova societa' mondiale fondata sul rispetto, "da parte di tutti", dei diritti alla liberta' di parola e di pensiero, alla liberta' di culto, alla liberta' dal bisogno e alla liberta' dalla paura.
Mezzo secolo dopo, alla Conferenza mondiale sui diritti umani che ebbe luogo a Vienna nel giugno l993, l'allora Segretario di Stato statunitense, Warren Chistopher, ribadiva l'impegno degli Usa nella difesa "della universalita' dei diritti umani" contro "gli aggressori di tutto il mondo e coloro che incoraggiano la diffusione delle armi", in base a un criterio unico di comportamento determinato dalla universalita' stessa dei diritti. E, immancabilmente, ogniqualvolta gli Usa sono intervenuti militarmente, da soli o alla testa di alleanze, sulla scena internazionale (interventi armati in Somalia, Bosnia, Kosovo, Iraq) essi si sono richiamati alla protezione dei diritti umani. Ma alle parole corrispondo di rado i fatti.
E' noto che gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi nel mondo. E' arcinoto che gli Usa non hanno ratificato vari Patti e Convenzioni intesi a dare maggiore concretezza ai diritti sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Non hanno ratificato ne' il Patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 (ritenendo che parlare di tali diritti sia un nonsenso - una "lettera a Babbo Natale" aveva a suo tempo ironicamente caratterizzato questa categoria di diritti l'ambasciatore statunitense all'Onu Jeanne Kilpatrick), ne' la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione della donna del 1979, ne' la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del l989 (unico paese al mondo, assieme alla Somalia, a non averla ratificata). Inoltre, pur avendo ratificando il Patto sui diritti civili e politici, essi hanno formulato precise riserve nei confronti dell'articolo 6(5) che proibisce la pena di morte per reati commessi da persone antecedentemente al loro diciottesimo anno di eta', sancendo che "nella legislazione presente e futura" degli Usa la pena capitale puo' essere comminata anche a persone per reati commessi quando erano minori. (Sedici stati mantengono a tutt'oggi una legislazione che permette l'esecuzione capitale per reati commessi da minori: tra questi, l'Arkansas e il North Carolina pongono il limite a quattordici anni, la Louisiana e la Virginia a quindici, il Mississippi a tredici). Gli Stati Uniti hanno anche formulato precise riserve nei confronti dell'articolo 7 dello stesso Patto che proibisce punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, sancendo che gli Usa sono vincolati da questo articolo "soltanto nella misura in cui 'punizione o trattamento crudele, inumano o degradante' significa punizione crudele o inusuale" come proibita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Una simile riserva condiziona anche l'accettazione da parte degli Usa della Convenzione contro la tortura del 1984. Nel momento in cui sto stendendo queste righe gli Stati Uniti - che non intendono ratificare il trattato istitutivo della Corte penale internazionale - stanno allestendo tribunali militari speciali, incompatibili con ogni sistema democratico e stato di diritto, per giudicare i prigionieri tenuti a Guantanamo in condizioni che contravvengono le norme del diritto internazionale vigente.
Una sfida per il sistema universale dei diritti umani e' quella di impedire che con l'egemonia militare statunitense prevalga a livello globale anche la concezione riduttiva dei diritti umani di cui la classe dirigente di questo paese e' portatrice. La sfida puo' addirittura essere nientemeno che quella di impedire che il diritto internazionale venga di fatto sostituito da quello americano. E' sperabile che l'Europa firmataria del Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, voglia e sia in grado di prendere questa sfida sul serio.

Un'altra grande sfida per il sistema dei diritti umani nel XXI secolo e' quella - brevemente discussa da Cassese nell'ultima parte del suo scritto - concernente l'enforcing dei diritti - almeno di quelli essenziali. Come Cassese rileva, tale strategia si articola essenzialmente in due direzioni: da una parte, attraverso il perseguimento e la punizione (per scopi preventivi, non grettamente retributivi) di persone provate colpevoli di crimini internazionali (tortura, crimini contro l'umanita', genocidio) da corti nazionali, o da tribunali penali internazionali; dall'altra, attraverso il ricorso, come ultima ratio e in via del tutto eccezionale, all'intervento armato da parte della comunita' internazionale allo scopo di porre termine a violazioni sistematiche e massicce di diritti umani, o almeno di quelli indicati da Cassese come "essenziali".
Su questo ultimo punto il dibattito negli ultimi dieci anni si e' fatto sempre piu' intenso. Un numero crescente di voci, molte assai autorevoli, si sono alzate a sostenere o rispettivamente a contestare la tesi per cui il diritto internazionale deve essere sviluppato in modo tale da rendere possibile legittimare in base ad esso determinati interventi militari umanitari da parte della comunita' internazionale. Vari fautori di questa tesi auspicano addirittura la legittimazione di siffatti interventi anche senza l'autorizzazione dell'Onu - almeno in situazioni in cui l'Onu non sia in grado di agire e tutte le alternative diplomatiche e quelle di intervento non armato si siano dimostrate inefficaci. A sostegno di questa tesi si adducono talora vari precedenti di interventi fatti a scopo umanitario - o comunque ufficialmente presentati come tali - e avvenuti senza l'autorizzazione dell'Onu: l'intervento armato del Vietnam in Cambogia; l'intervento armato da parte dell'Ecowas (Economic Community of Western African States) nel l990 in Liberia dilaniata dalla guerra civile; l'intervento di truppe statunitensi, francesi e inglesi nel l991 nell'Iraq del Nord, giustificato ufficialmente come necessario per proteggere le popolazioni curde ivi residenti dopo il soffocamento della rivolta curda da parte dell'esercito di Saddam Hussein; i bombardamenti della Nato contro la Iugoslavia, e via dicendo. Il diritto internazionale non e' statico. Esso si trasforma continuamente attraverso nuove interpretazioni che non sono il risultato di conferenze diplomatiche internazionali, bensi' interpretazioni degli stati; e quando queste interpretazioni sono sostenute da grandi potenze e via via condivise da un numero sempre maggiore di stati, esse diventano in prosieguo di tempo consuetudine e un po' alla volta diritto vincolante (principio di effettivita'). Tuttavia, come Cassese rileva, non vi e' a tutt'oggi nel diritto internazionale consuetudinario una norma largamente accettata che sancisca interventi armati umanitari del tipo in questione. Sia in relazione al massiccio intervento armato della Nato in Kosovo nel 1999, sia in relazione all'intervento armato ancor piu' massiccio degli Usa e alleati contro l'Iraq (tutti e due gli interventi, come noto, sono avvenuti senza l'autorizzazione dell'Onu), la comunita' internazionale e' stata profondamene divisa.

L'attuazione dei diritti umani richiede potere. Ma si puo' lecitamente perseguire la loro attuazione attraverso operazioni militari che comportano esse stesse la violazione di diritti? Questo e' il dilemma. Nella sua trattazione vengono spesso tirati in ballo vari principi, quello di "proporzionalita'", quello di "discriminazione" tra perpetratori di violazioni di diritti e innocenti (tra combattenti e civili), e quello tra "violazioni dirette" (deliberatamente volute) e "violazioni collaterali" (previste o prevedibili, ma non deliberatamente volute) di diritti umani.
Ciascuno di questi principi solleva piu' questioni di quelle che in base ad essi si cerca di risolvere. Le violazioni di diritti debbono essere proporzionali: come, quanto, a che cosa? E chi lo decide quando lo sono? Come si traccia piu' precisamente la linea di demarcazione tra coloro che sono coinvolti in violazioni massicce di diritti (combattenti) e coloro che non lo sono (civili)? Che senso ha, da parte delle vittime, se loro fondamentali diritti sono violati direttamente o collateralmente? E perche' mai le violazioni collaterali di diritti sarebbero meno importanti (quanto?) di quelle dirette?
Qualcuno e' forse disposto ad avanzare seriamente la tesi per cui interventi militari come quelli della Nato contro la Iugoslavia o della coalizione Usa-Gran Bretagna (perche' di questa in effetti si e' trattato) contro l'Iraq, non comportano nessuna violazione di diritti? Ma gia' le politiche di sanzioni - comprese quelle decise in varie occasioni dal Consiglio di Sicurezza (da quelle contro la Repubblica Sudafricana al tempo dell'apartheid ufficiale, a quelle contro l'Iraq) - hanno avuto effetti devastanti sui diritti di milioni di persone. Come rilevato in un rapporto del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali - steso in base a un'analisi di vari tipi di sanzioni e del loro impatto nei vari paesi colpiti - "le sanzioni determinano spesso interruzioni nella distribuzione di cibo, prodotti farmaceutici e sanitari, compromettono la qualita' dell'alimentazione e l'accesso all'acqua potabile, colpiscono gravemente il funzionamento dei servizi sanitari di base e dell'istruzione, abbattono il diritto al lavoro". Se questi sono gli effetti sui diritti umani delle politiche di sanzioni, figurarsi quali sono quelli connessi con i massicci interventi armati "umanitari" verificatisi gli ultimi quindici anni! E allora?
Allora e' auspicabile che il diritto internazionale non legittimi, in nome della tutela di diritti fondamentali, massicci interventi armati di tal tipo. E se per mettere fine a vistose e reiterate violazioni di diritti umani fondamentali e' ritenuto necessario, come ultima ratio, l'intervento armato da parte della comunita' internazionale, e' ovviamente importante che chi decide sull'ultima ratio non sia questo o quello stato o alleanza di stati e che le forze militari da far intervenire non siano quelle di paesi che nell'area di intervento hanno grossi interessi economici, geopolitici, ecc. E' quindi auspicabile che un eventuale diritto di intervento armato umanitario rimanga di esclusiva competenza dell'Onu.
E' ben vero che in seno all'Onu le decisioni di intervento le prende il Consiglio di Sicurezza, che queste decisioni sono politiche e che, attraverso l'istituto del veto, possono essere bloccate. Ma e' altrettanto vero che politiche sono pure le decisioni di intervento di uno stato o alleanza di stati. Quello che occorre, oggi piu' che mai, e' potenziare il processo di riforma democratica e ulteriore rafforzamento dell'Onu. Nella regia di un'Organizzazione delle Nazioni Unite piu' democratica, piu' forte ed economicamente piu' attrezzata sono pensabili efficaci, e dal punto di vista internazionale piu' credibili, interventi umanitari alternativi a quelli armati: politiche di sanzioni molto selettive volte a colpire i responsabili di massicce violazioni di diritti umani e non intere popolazioni; impiego di vasti contingenti di verificatori (in Kosovo, per esempio, invece di ritirare i verificatori Osce in vista e/o preparazione dei bombardamenti, si poteva potenziarne fortemente la presenza portandoli da poche migliaia a decine di migliaia); impiego di forze di intervento non armate.

Comunque sia, l'introduzione nel diritto internazionale di una norma che sancisca, in determinate e ben specificate condizioni, "interventi armati umanitari" comporta l'evoluzione del diritto internazionale in direzione di una revisione dei principi di sovranita' e non-intervento. Ma cio' puo' avere implicazioni assai radicali. Se possono essere legittimati determinati e ben limitati interventi armati da parte della comunita' internazionale allo scopo di (cercare di) porre fine a massicce violazioni di diritti basilari perpetrate contro intere popolazioni dai loro governi o da fazioni coinvolte in una guerra civile, perche' non potrebbero parimenti essere legittimati interventi coercitivi (non dico armati!) da parte della comunita' internazionale nei confronti di stati - ma anche di attori non statali - le cui politiche economiche comportano palesi e gravi violazioni di diritti umani basilari tra le popolazioni del pianeta? E perche' non dovrebbero trovare legittimazione - sempre che sia possibile attuarle - misure volte a introdurre un sistema di tassazione coercitiva globale degli stati (e delle multinazionali) al fine di realizzare una ridistribuzione un po' piu' equa delle ricchezze e risorse del pianeta e garantire cosi' l'effettiva fruizione di diritti umani basilari per un numero crescente di persone? Cio' puo' a sua volta comportare una revisione del principio di sovranita' territoriale come sancito nell'articolo 1 comma 2 dei due Patti del '66 per cui "tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali". E' vero che questo articolo puo' essere visto come volto a tutelare dallo sfruttamento i popoli piu' poveri e deboli; ma e' parimenti chiaro che esso favorisce fortemente anche quelli che sono piu' ricchi, lo siano per fortuna naturale, o come frutto di passate immani violenze e violazioni di diritti nei confronti di altri popoli, o per ambedue questi fattori.
La funzione del sistema dei diritti - presi sul serio - e' quella di costituire una barriera alla violenza in tutte le sue forme, da quella militare, a quella strutturale, a quella culturale. La grande sfida cui tale sistema si trova di fronte nel XXI secolo e' nientemeno che quella di riuscire a imporsi a livello globale. A rischio, altrimenti, di rivelarsi un inganno di piu'.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo