Decrescita, termine equivoco

Sono due i motivi per i quali compro ogni mattina «Il manifesto»: per tenere in vita il giornale e perché è uno dei pochi luoghi ove sia possibile leggere analisi e proposte per una riforma della società e dell'economia più eque ed ecologicamente compatibili.

Fra i tanti interventi che compaiono su questi argomenti, mi trovo spesso ad apprezzare e condividere quelli di Guido Viale. L'ultimo suo intervento, in ordine di tempo, l'ho letto sabato scorso («L'Ilva si controlla dal basso»). E' su questo suo intervento che mi voglio soffermare perché, pur condividendo la sua tesi di fondo (il controllo dal basso), mi ritrovo a dissentire sulla sua reiterata tesi di critica alla decrescita, assimilata alla categoria della «visione bucolica dello sviluppo».
Chi scrive fa parte del vasto e articolato movimento della decrescita, che è allo stesso tempo una provocazione e un'ipotesi di lavoro con molti padri (Georgescu-Roegen, Latouche, ecc.) aperta al confronto, per l'appunto «dal basso».
Allora, apriamolo pure questo confronto, cercando prima di tutto di trovare, se esiste, una base comune, una parte «hard» di questa ipotesi. Per me esiste e si basa su un'osservazione che mi sembra ovvia: «chi, in un mondo con risorse finite, pensa ad una crescita infinita è ......» .
A sostegno di questa osservazione riporto una frase di Georgescu-Roegen, che circa quarant'anni fa affermava, ragionando sulla necessità di pensare ad una economia con risorse finite: «E se questo ritorno diventa necessario, la professione degli economisti subirà un curioso cambiamento, invece di essere esclusivamente preoccupati di crescita economica, gli economisti cercheranno criteri ottimi per pianificare la diminuzione». Se siamo d'accordo su questa parte «hard» del discorso, possiamo allora avviare un confronto costruttivo sul software della decrescita (o altra etichetta, a questo punto) per immaginare percorsi di transizione che affrontino anche il tema del «qui e ora», come ama giustamente ripetere in molti suoi interventi lo stesso Viale. A questo proposito un primo appuntamento può essere offerto dalla terza Conferenza internazionale della decrescita (www.venezia2012.it) che si terrà a Venezia nei giorni dal 19 al 23 settembre.
Il sottotitolo recita: «La grande transizione. La decrescita come passaggio di civiltà».
Vediamoci in questa agorà e cominciamo a trovare soluzioni condivise.
Ferruccio Nilia

Sono sostanzialmente d'accordo con tutto il pensiero sotteso al programma della decrescita e tuttavia continuo a considerare il termine indigeribile, tante sono le precisazioni e le spiegazioni che uno deve dare per far capire che la decrescita non è quello che il termine indica, ma tutt'altro.
Latouche ha dovuto scrivere un libro di 150 pagine («Per un'abbondanza frugale») per spiegare che cosa non è la decrescita e ho letto da qualche parte che persino lui medita di cambiare nome al suo programma per evitare altri equivoci. Penso che il termine conversione ecologica, che non è mio ma di Alex Langer, esprima molto meglio lo stesso programma, senza dare luogo ad equivoci.
Tra questi equivoci non c'è solo l'interpretazione di chi, in buona o in cattiva fede, interpreta la parola decrescita come un programma di impoverimento e basta. C'è anche la visione di molti che la interpretano come un programma di completa deindustrializzazione (a favore del programma bucolico di cui ho fatto cenno nel mio articolo: turismo, cultura, agricoltura ecologica e poco altro). Questo è sicuramente un equivoco che va combattuto.
La conversione ecologica si fa a partire dall'assetto industriale esistente, decidendo caso per caso, e in base ai rapporti di forza che si vengono a determinare e al coinvolgimento dei soggetti che si riesce a mobilitare, che cosa va cambiato, che cosa va soppresso e che cosa va mantenuto; e con che tempi e in che modo. Insomma un work in progress in cui la politica gioca un ruolo determinante. E che coinvolge innanzitutto i comportamenti di ciascuno di noi.
Guido Viale


Fonte:  Il manifesto del 2012.09.06