Sulla pista dei naufraghi

In Puglia, lungo una striscia d’asfalto da dove 25 anni fa si alzavano gli aerei militari diretti in Bosnia, ora è raccolta una comunità di immigrati(1.200 in inverno, 3.500 in estate) in attesa di un lavoro e dunque di una vita migliore. Un’attesa spesso infinita. L’aspettativa delusa, insieme con i traumi del viaggio, favorisce il dilagare di forme di disagio mentale che un manipolo di operatori di Intersos tenta di contrastare

«Il Documento» è come il Messia: una questione di fede o magari solamente una chimera. Chissà se un giorno arriverà. Nel frattempo per guadagnarsi il paradiso bisogna passare attraverso l’inferno, sperando almeno in una promozione al purgatorio: dal lavoro nero a un contratto stagionale, sebbene sotto i minimi sindacali. Insomma, dalla schiavitù allo sfrutta mento. Senza perdere la testa.

Alla Capitanata, nelle campagne del foggiano dove, senza la manovalanza di migliaia di «invisibili», il raccolto non arriverebbe ai supermercati del nord (per lo meno non a prezzi economici), il mal di mare del viaggio iniziato mesi, anzi, anni prima a sud del Sahara, non accenna a finire, «perché è come se fossimo ancora sul barcone», spiegano, frastornati, gli eterni naufraghi.

In fondo alla pista, battuta 25 anni fa dagli aerei mili tari della Nato nel loro andirivieni con la Bosnia, adesso c’è il nulla, soltanto l’infinita attesa di una chiamata: per qualche giorno di fatica sottopagata nei campi o, se mai Dio volesse, per l’inarrivabile permesso di soggiorno. Ai lati della vecchia striscia d’asfalto gli «insabbiati» ghanesi, nigeriani, sudanesi, senegalesi si organizzano per sopravvivere aspettando. Così sono nati i ghetti della provincia, «insediamenti spontanei» per usare un eufe mismo, e La Pista è il più evidente di tutti: una baraccopoli che include moschea, chioschi, botteghe, bazar, barbieri, officine. Una favela multietnica, non sempre tranquilla, ai margini dei centri di accoglienza.

L’assistenza sul campo è affidata alle organizzazioni umanitarie, come Intersos, che già da un paio d’anni dedica due cliniche mobili e un team di tre medici, quattro mediatori culturali poliglotti, una protection officer, alla popolazione di 3.500 immigrati durante l’estate (1.200 in inverno), vigilando sulla loro salute fisica e mentale. E la seconda è ancora più a rischio della prima, avverte Alessandro Verona, referente medico dell’unità migrazione di Intersos e responsabile del programma di collaborazione avviato a marzo con l’agenzia regionale Aress, la Asl, prefettura di Foggia e ministero del Lavoro: «Man mano che svanisce il sogno di una vita migliore — spiega — subentrano il senso di fallimento e di abbandono, la depressione e la frustrazione. Sono persone sempre in viaggio, da Rosarno a Castel Volturno o nel siracusano, a seconda del periodo di raccolta: pomodori, asparagi, olive, arance. Cambiando regione non possono iscriversi al sistema sanitario. Per le istituzioni non esistono nemmeno nell’emergenza Covid. Due terzi di loro sono qui mediamente da quasi 6 anni e vivono spesso nella paura di essere aggrediti, presi a sassate mentre vanno al lavoro in bicicletta. Subiscono la violenza e non vogliono denunciarla. Si chiudono in loro stessi, non dormono per paura di incursioni e, se non lavorano, cercano evasione nell’alcol».

Martina Martelloni, reporter di Intersos, ha pazientemente superato la barriera di sfiducia e diffidenza. Con lei si confida anche il solitario ghanese venticinquenne, che per collana ha un rosario di plastica rosa e per compagni soltanto alcuni grossi, devoti cani randagi: «Documenti? Non li ho. Lavoro? Farei qualsiasi lavoro nei campi ma non c’è. Amici? Lui è Lion — fa le presentazioni il ragazzo, mentre l’incrocio di labrador dal pelo nero spruzzato di grigio gli poggia affettuosamente una zampa sul braccio — ma ho altri come lui a casa, sono 5». La casa è una delle baracche di quell’enorme imbuto senza uscita della Pista di Borgo Mezzanone, da dove spera comunque di non essere cacciato: «Perché sennò ho solo la strada». Nessuno meglio dei suoi inseparabili amici può capirlo.

Adam sa invece che questo luogo non può essere una zattera di salvataggio. Non a lungo e non per suo nipote, che «stava bene quando è arrivato due mesi fa — racconta a Martina — ma poi è cambiato, parla da solo, si arrabbia forte. Qua ce ne sono tanti così. Prima stanno bene, poi cambiano».

Le metamorfosi non sorprendono un’altra dottoressa di Intersos, Alice Silvestro, sul terreno da 4 mesi: «Si parla di malattie e si dimentica che dietro ci sono perso ne. Ci occupiamo di assistenza sanitaria di base, non abbiamo uno sportello specifico per

il supporto psichiatrico. Nella pratica quotidiana — si rammarica — vediamo come i disturbi fisici siano associati a disequilibri psichici. Abbiamo in cura persone isolate, respinte dal re sto della società e che devono riuscire a trovare almeno una forma di integrazione fra di loro. Ma la comunicazione non è facile all’interno della Pista. Potrei fare ben poco senza l’aiuto dei mediatori culturali».

Uno di loro è Mamadou Dia, arrivato dal Senegal 10 anni fa: «Ho fatto il bracciante in Calabria, in Puglia, nel Saluzzese. Ho vissuto la stessa esperienza dei miei fratelli africani alla ricerca di lavoro, documenti, salute, un tetto. Io non ho quello che a loro serve. Così vado oltre. Li incoraggio: è difficile, complicato, ma non impossibile». Lasciando i loro villaggi non sapevano quanto sarebbe stato difficile: «Certo, nessuno di loro poteva immaginare gli ostacoli. Se non hai mai visto il mare non puoi sapere quanto sia pericoloso — aggiunge — ma in Africa noi vediamo la morte in modo diverso. Se sei nato, devi per forza morire un giorno, e quel giorno non si può rinviare. Si parte pensando: se Dio vuole, arriverò».

Dio, e gli aguzzini che incontrano lungo il tragitto. «Nessuno — conferma Alice Silvestro — accetta di parlare dei traumi del viaggio. Andrebbero affrontati ma con strumenti idonei. Non vogliamo aprire parentesi che non possiamo chiudere. Il lavoro resta l’unico antidoto all’abuso di sostanze. In agosto pochi si ubriaca no. Quando si presentano alla visita in stato d’ebrezza la giustificazione è sempre la stessa: ovunque qui solo problemi, e con la birra io non penso». Al buio oltre la Pista.

Lo scenario

Sono circa 6.500 gli immigrati braccianti che vivono negli 8 ghetti della provincia di Foggia in estate (2.000 in inverno) e soltanto 1.268 hanno presentato nei termini, in agosto, domanda di regolarizzazione, in virtù delle norme varate in maggio dalla ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova. Le organizzazioni e associazioni umanitarie sul campo avevano segnalato la macchinosità del percorso burocratico finalizzato a far emergere il lavoro nero e lo sfruttamento. Che infatti non ha funzionato come si sperava. Intersos è presente con staff multidisciplinari nel foggiano dal maggio del 2018, sostenuto dal settore sociale di Banca Intesa

Sanpaolo, dalla Diaconia Valdese, dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. E, più recentemente, dal progetto Su.Pr.Eme. Italia (Sud Protagonista nel superamento delle Emergenze) cofinanziato dalla Commissione europea, ministero del Lavoro,

Regione Puglia. Il progetto riguarda oltre alla Puglia, Sicilia, Campania, Basilicata, Calabria. Intersos ha identificato tra i migranti di ogni insediamento delle persone più attente al tema della salute che collaborano alla sensibilizzazione sull’emergenza Covid e su tutte le condizioni patologiche più diffuse in questa popolazione

Fonte: Da LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA LUNEDÌ 28 DICEMBRE 2020 - Sulla pista dei naufraghi di ELISABETTA ROSASPINA