Medio oriente. La comunità nazionale come rimedio alle identità settarie

Due anni di retorica a proposito della sconfitta di dittatori, rivoluzione, libertà, onore, dignità, democrazia – senza risultati.

Ma attori di peso relativamente nuovi sulla scena araba come Qatar e Turchia hanno visto nella situazione un’occasione unica per affermare una leadership nella regione. Washington, Riyad, Parigi, Londra – sono in corsa per impedire che l’area sfugga al loro pluridecennale dominio e abbracci l’antimperialismo dell’asse della Resistenza. Il risultato è stato un susseguirsi di interventi. Con ogni mezzo disponibile. Denaro, spionaggio, propaganda, armi, omicidi e il divide et impera di coloniale memoria. Il gioco principale è tuttora ispirato alla vecchia guerra dei blocchi, Iran contro Stati Uniti, e gli altri incolonnati dietro. Poche le sorprese: i nuovi giocatori come Turchia e Qatar si sono ben allineati sul lato statunitense, mentre i cosiddetti BRIC hanno messo il loro notevole peso sul lato dell’Iran. L’Iraq sembra seguire quest’ultima formazione e quanto ad Hamas, tuttora non sa bene che fare e oscilla fra i due. E’ una partita dura, che influenza ogni decisione sociale, economica e politica nella regione. In questa apparente paralisi cova il fuoco. Una pentola a pressione pronta a esplodere.

Re sunniti vecchi e nuovi, pro-occidente

Dopo essere stati marginalizzati per decenni da dittatori laici e filoccidentali, i Fratelli musulmani (Ikhwan) e altri partiti islamisti sono stati catapultati al potere in diversi stati. Va detto che essi si sono accodati al blocco statunitense, ansiosi di compiacere o quanto meno tranquillizzare quegli stessi poteri che erano alleati dei loro oppressori. Sembra un matrimonio contro natura, e quanto più a lungo durerà quest’unione, tanto più i partiti islamisti si allontaneranno dal proprio elettorato – seguendo la strada dei loro autocratici predecessori.

E c’è un altro contesto volatile – del tutto regionale – che gioca a scapito dei nuovi poteri islamisti: Qatar contro Arabia Saudita, ovvero sunniti contro sunniti.

A lungo gli Ikhwanisti sono stati foraggiati dagli arrivisti del Qatar, spina nel fianco dell’altro e più grande stato wahabita del mondo arabo, l’Arabia Saudita. I sauditi, d’altra parte, imbottiscono di dollari i salafiti in tutti i paesi dove vogliono contrastare l’influenza degli Ikhwan e partiti assimilati.

Ma ora Qatar e Arabia Saudita esportano aggressivamente la loro personale competizione in altri Stati arabi: Libia, Egitto, Siria, Tunisia, Palestina. Una competizione che ha preoccupato gli Emirati arabi uniti, la Giordania e il Kuwait, di fronte alla spinta da parte del Qatar verso l’ikhwanizzazione della regione. E ha determinato una sorta di cannibalismo da parte della Lega araba, che ha divorato la sovranità di paesi come Libia e Siria, e la Palestina che un tempo dichiarava di voler proteggere.

Il Qatar è sostenuto dalla Turchia dell’Akp, ma il tutto preoccupa gli Stati Uniti . I quali in segreto temono che i Fratelli musulmani siano più duri da tenere sotto controllo, rispetto ai salafiti sponsorizzati dai sauditi. Molta di questa paura viene dal fatto che il cardine in ogni calcolo statunitense di politica estera, lo Stato di Israele, confina con l’Egitto fortemente ikhwanizzato, Gaza e la Giordania – e nessuno di questi tre ha dato prove sufficienti di lealtà all’idea che l’egemonia regionale spetti a Israele.

Ma la vittima principale della competizione qataro-saudita potrebbe essere lo stesso Islam politico.

La sua ascesa– un inevitabile sottoprodotto della democratizzazione – è arrivata troppo decisamente, troppo in fretta, promossa, sponsorizzata, armata da Qatar e Arabia Saudita. Ora, hanno perso credibilità e sostegno non solo i suoi mentori ma anche molti dei loro protégés politici in Yemen, Egitto, Tunisia, Libia, Siria e Palestina.

Vogliono lo status quo

Quel che le potenze globali di ieri vogliono dall’attuale classe di politici islamisti è il mantenimento dello status quo, che comprenda fra le altre cose l’alleanza con Israele e l’ostilità verso l’Iran. Ma un’aperta dichiarazione di questo tipo è impossibile da parte degli Ikhwan e dei partiti similari: la loro stessa legittimità deriva infatti in parte dalla denuncia dell’esperimento sionista in Palestina.

Sciiti verso sunniti. Cristiani verso musulmani. Svilire l’”altro” è usuale nei conflitti, specialmente quando ci sono animosità o tensioni storiche fra sette, nazionalità, comunità. Ma fin dall’inizio delle sollevazioni arabe c’è stato uno sforzo concertato di provocare una escalation nel contrasto fra sciiti e sunniti, legandola a quello fra mondo arabo e mondo iraniano.

Con la fine dei dittatori in Tunisia ed Egitto, Washington non ha perso tempo nel formulare una strategia alla divide et impera, per mantenere i propri interessi regionali. Il Comando centrale militare statunitense (Centcom) per il Medio oriente si è assunto il compito applicandosi in segreto a dividere arabi e iraniani nel marzo 2011.

Canali televisivi nelle mani dei paesi del Golfo hanno cominciato a sventolare la minaccia iraniana, con svariati predicatori estremisti a emettere fatwe sempre più bellicose nei confronti degli sciiti. Su questa base, sono iniziate in tutta la regione le violenze sui civili sciiti, mentre si sventolava la “minaccia” dell’Iran e di Hezbollah – e ci sono state pochissime proteste od obiezioni da parte della comunità internazionale.

Quando però hanno cominciato ad attaccare, assaltare, uccidere i cristiani in Egitto e Siria, la questione del settarismo – che si accompagna invariabilmente all’estremismo – è esplosa ed è diventato impossibile nasconderla. Il risultato è stato interessante: la maggior parte degli arabi non vogliono prendervi parte, allo stesso modo in cui decenni fa hanno ripudiato al-Qaeda. In molti respingono questi divisioni, spinti anche dallo shock per i livelli di violenza che ormai si associano al settarismo.

Dall’Egitto al Kuwait, dal Bahrain alla Siria, giovani arabi sentono parlare – molti per la prima volta – di donne violentate a causa della loro appartenenza religiosa, di teste tagliate, di arti amputati, di corpi bruciati. Roba da film dell’orrore.

Il contraccolpo è già cominciato. Mentre cresce il settarismo violento, cresce anche l’idea che c’è un altro fattore emergente oltre alla rivalità sunniti-sciiti e musulmani-cristiani.

Un nuovo nazionalismo antisettario

Per semplificare, si sta formando nella regione un nuovo paradigma che non esisteva quando l’Iraq era il solo a patire le conseguenze della carneficina settaria. Oggi, in tutto il Medio oriente, sciiti, sunniti, musulmani e cristiani “settari” si trovano sempre più di fronte a sciiti, sunniti, musulmani e cristiani “antisettari”.

Questo offre a milioni di persone un’identità comunitaria alternativa a quella che obbliga a “difendere la setta prima di tutto”.

E’ interessante che tanti tendano ad abbracciare un’identità comunitaria rappresentata dall’identità nazionale: “sono bahreinita, non sciita o sunnita”.

In Bahrein, malgrado gli sforzi per dipingere la protesta popolare che dura da due anni come un “progetto iraniano” per aizzare la popolazione in maggioranza sciita contro il governo minoritario sunnita, i bahreiniti agitano la bandiera nazionale a più non posso, sfidando le caratterizzazioni settarie del loro progetto di democratizzazione “nazionale”.

In Libano, dove il settarismo è legato agli eventi nella vicina Siria, finora ogni incidente è stato contenuto da sforzi intercomunitari a livello nazionale, e da un desiderio crescente nella popolazione di rafforzare l’esercito “nazionale”.

In Siria, il disgusto per quella che è la manifestazione più violenta di settarismo nella regione è sfociato in un nuovo linguaggio nella definizione del conflitto. Invece di dichiararsi pro o contro il governo o l’opposizione, molti siriani adesso dichiarano in primo luogo la loro fedeltà alla Siria. Malgrado l’intenzione da parte della comunità internazionale di dipingere il conflitto come settario, molte figure del governo e dell’opposizione respingono decisamente questa idea. In particolare molti siriani pro-governativi sono velocemente passati da una sostanziale apatia politica a un nazionalismo spinto, e non sono d’accordo nell’essere definiti “pro-Assad”.

“E’ una definizione troppo riduttiva”, dice un siriano ostinatamente laico. “Qui non è questione di una persona o di un governo, ma di un paese e della sua unità”, dice un’altra, sunnita praticante che appoggia gli sforzi del suo esercito nazionale per spazzare via ribelli in gran parte islamisti.

Insomma, proprio il “settarismo” incoraggiato da islamisti in competizione e dai loro alleati nel perseguire obiettivi politici nella regione sembra aver prodotto questa reazione. A lungo in Medio oriente il nazionalismo è stato nemico dell’Islam politico, e il nazionalismo può seppellirlo un’altra volta.

Nel mondo arabo, le minoranze e i gruppi non settari si stringono insieme per proteggersi contro gli elementi più fanatici dell’Islam politico, creando importanti coalizioni civiche che formeranno la struttura dei nuovi movimenti di opposizione di base in questi paesi: un ruolo che prima era dei soli islamisti.

Essi si opporranno a tutti gli interventisti che cercano di mantenere lo status quo, e a quelli che impediscono il progresso. Possono crescere poco alla volta, oppure anche un bel giorno esplodere a livello nazionale o regionale. Il déjà-vu potrà solo accelerare il loro arrivo.

Ed è un bene. Questi contraccolpi saranno le rivoluzioni che credevate fossero già avvenute nei due anni scorsi.


Sharmine Narwani è analista politica ed editorialista per il Medio oriente.
Traduzione di Marinella Correggia per il Centro Studi Sereno Regis
Originale in: http://english.al-akhbar.com/blogs/sandbox/mideast-backlashes-yet-come

Fonte: Centro Studi Sereno Regis