Forze nonviolente

Un'immagine vale più di mille parole, dicevano gli antichi cinesi. Per parlare di uno stile di presenza, di atteggiamenti, di differenze nel comunicare e nello stare in relazione da parte delle forze dell'ordine prendiamo avvio da un cortometraggio, che alcuni anni fa è stato premiato nel corso di importanti festival di settore, come Linea d'ombra, Lo sbarco dei corti, Capalbio film festival, Fano Film Festival.

Parte dal mettere in evidenza la distanza che un brigadiere di polizia riesce ad attraversare tra l'approccio oggettivante, centrato sui fatti, e la sensibilità umana che man mano trapela, e si manifesta non tanto nel contenuto delle parole, ma in piccole sfumature della voce, della mimica, in microscopici gesti, che umanizzano la presenza del funzionario di polizia fino a diventare empatia e disponibilità ad ascoltare e a comprendere. Senza mai uscire dal ruolo, anzi rafforzandone la componente più importante, quella di contenimento e di sostegno. In una decina di minuti, ci racconta come si passa dalla burocrazia all'empatia e come l'umanità delle vittime può incontrare l'umanità delle forze dell'ordine. Cercate su you tube «Piccole cose di valore non quantificabile» con Gianni Ferreri e Fabrizia Sacchi, scritto e diretto da Paolo Genovese e Luca Miniero.


Ordini, distanza e disumanizzazione


Qualunque essere umano è soggetto a diventare crudele, in certe circostanze, quando perde la percezione dell'umanità della vittima, quando si allontana emotivamente da ciò che sta facendo e si deresponsabilizza per obbedire ad un ordine. Lo hanno dimostrato già molti anni fa famosi esperimenti, tra cui quello di Stanley Milgram (Yale, 1963) dove alcuni studenti universitari, sorteggiati per infliggere scosse elettriche da 15 volt ad altri volontari, per facilitare l'apprendimento di certe nozioni (così prevedeva l'esperimento), non esitarono a farlo con molta maggiore intensità una volta sollecitati dai responsabili dell'esperimento, per arrivare a 450 volt senza batter ciglio, nonostante le urla dei destinatari del trattamento. Philp Zimbardo a Stanford nel 1972 ha dovuto sospendere dopo solo sei giorni l'esperimento che aveva organizzato, perché i volontari che avevano accettato di assumere il ruolo di guardie avevano perpetrato atti di sadismo e violenze inaccettabili sui volontari incaricati di impersonare il ruolo detenuti. Le «guardie» avevano ricevuto pochissime consegne, tra cui quella di chiamare i detenuti con il numero anziché per nome, ed evitare ogni contatto interpersonale. In un altro esperimento famoso (Darley e Bat-son, Princeton, 1973), anche studenti di teologia incaricati di tenere una lezione sul buon samaritano non si sono fermati a soccorrere lungo la strada un «ferito» agonizzante, e la differenza tra i pochi che hanno prestato soccorso e gli altri che hanno tirato dritto non l'ha fatta il contenuto cognitivo della lezione da tenere, ma la percezione del tempo a loro disposizione. Quelli a cui era stato assegnato solo il tempo materiale di arrivare a far lezione hanno tirato dritto, preferendo la puntualità al valore etico di un comportamento che sarebbe stato pure fortemente congruente con la loro formazione.

Cosa ci mostrano questi esperimenti? Non esistono i buoni e i cattivi. Chiunque di noi, in certe condizioni, può essere l'uno o l'altro. La necessità o il vantaggio di obbedire ad una autorità, incarnare un ruolo in modo totalizzante, svolgere un compito in modo cieco, standard e automatico senza pensare più alle conseguenze che produrrà su chi ne è il destinatario, possono far diventare crudeli la maggior parte delle persone. Allora forse può valere la pena di lavorare perché altre condizioni rendano possibile il contrario, cioè si può pensare ad educare i comportamenti in modo nonviolento.

Ipotizziamo che le forze dell'ordine possano esser messe in condizioni di uscire dalle icone stereotipate che l'immaginario collettivo attribuisce loro, che non debbano essere costrette a difendere il proprio ruolo e la propria missione rispetto alla sfiducia dei cittadini e all'impotenza delle istituzioni educative e di prevenzione. Allora forse sarebbe più facile per i responsabili e gli agenti, della Polizia di Stato, dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia Penitenziaria, della Guardia Costiera, e di tutte le altre forze dell'ordine, mantenere un equilibrio tra operatività e umanità nelle situazioni di stress e tensione estrema a cui a volte sono sottoposti, mantenere un ruolo di interlocutore sociale, anziché prevalentemente di tipo reattivo e repressivo? Quanto conta la situazione di militarizzazione della maggior parte delle forze dell'ordine, dove l'impostazione è gerarchica e dove l'obbedienza è un dovere da non discutere mai? E quanto contano le regole di ingaggio e le formule di selezione?


Forze al servizio della polis


Polizia ha la stessa radice di politica, entrambe si riferiscono alla città, alla coabitazione civile e alle sue necessità di autotutela, alla risoluzione dei conflitti e alla possibilità di ristabilire l'osservanza delle regole che fondano la comunità e sostengono concretamente la giustizia, scrive Rocco Pompeo, direttore del Centro Studi Nonviolenza, centro territoriale di Livorno, nel numero di gennaio-febbraio 2015 della rivista Azione Nonviolenta, che invitiamo i nostri lettori a consultare, perché è dedicato dalla prima all'ultima pagina al tema della formazione delle forze dell'Ordine alla nonviolenza. Non si tratta, continua Rocco Pompeo, di insegnare agli agenti il loro mestiere, si tratta invece di mettere a loro disposizione risorse teoriche e pratiche per poter affrontare i conflitti in modo costruttivo e affrontare in modo diverso i problemi della sicurezza personale, civile e sociale.

Gerarchia e partecipazione non sono necessariamente contrapposte ed escludenti l'una rispetto all'altra, si può andare oltre la banalità della logica dominate/sottoposto, che fa perdere di vista il problema, l'obiettivo e il contesto, mentre induce invece a concentrarsi sul posizionamento, in osservanza non più del fondamento civile della giustizia e della legge, ma in omaggio cieco alla logica del più forte.

Rivestire un ruolo professionale, reso visibile e riconoscibile da una divisa, non significa uccidere la propria umanità, e rappresentare una istituzione al servizio dei cittadini significa essere prima di tutto cittadini e membri di una comunità sociale.

Essere Istituzione non significa allontanarsi dalle persone, ma anzi si concretizza meglio e più efficacemente nella prossimità.

Tutto questo non può essere insegnato in modo autoritario e con formule standard e centralizzate.

La coerenza tra mezzi e fini, centrale nel pensiero nonviolento, è cruciale in percorsi di questo tipo, che possono essere efficaci solo se sono localizzati, partecipati, e gestiti in una logica di affiancamento e dialogo di competenze.

Ci sono già parecchie esperienze, in varie città d'Italia, che hanno coinvolto corpi diversi, dalla Polizia Municipale alla Polizia di Stato, e il lavoro più grande è quello di decostruire gli stereotipi e i pregiudizi che da essi conseguono, per approcciare in modo nuovo la visione antagonistica che contrappone polizia e cittadini da una lato e cittadini e polizia dall'altro, schiacciando gli uni nell'immagine di servi del potere, e gli altri in pericolosi provocatori.

Si lavora sulle rappresentazioni, che implicano emozioni e schemi di comportamento molto potenti e pervasivi, e si attraversano i vissuti, le esperienze e le storie delle persone che vivono dentro le divise, e da qui si può cominciare ad approfondire, discutendo insieme sulle narrazioni, e individuare molte diverse possibilità di azione, più ampie e più efficaci della povertà e degli automatismi che ogni rappresentazione stereotipata genera.

Il lavoro sulle competenze all'ascolto e al dialogo a questo punto è aperto, e può generare atteggiamenti e comportamenti più differenziati, più evoluti, più utili alla tutela convivenza civile.

Sulla lunga distanza, questo tipo di approccio cambia l'immagine percepita delle forze dell'ordine, sia all'interno dei diversi corpi di polizia, che osservano se stessi con ottiche trasformate, sia da parte dei cittadini, che vedono azioni diverse e modalità di approccio più congruenti col compito di tutela.

Nulla di tutto questo produce cambiamenti immediati: la forza intrinseca di questi percorsi è generativa anche e soprattutto nel medio-lungo periodo, come la sottoscritta ha avuto modo di osservare in percorsi formativi condotti alla fine degli anni 90 per la Polizia Penitenziaria e altri progetti di sensibilizzazione e formazione anche di durata molto breve svolti per i Funzionari delle Questure e per la Polizia Giudiziaria a contatto con i migranti richiedenti asilo a Roma, Firenze e in altre città italiane.

Cambia la percezione dell'interlocutore, si articola una diversa consapevolezza delle tante componenti del proprio lavoro, ed entra man mano, prima nella mente e nelle emozioni, e poi nelle azioni e nei comportamenti, una possibilità nuova e più ampia di problem solving e gestione delle situazioni di tensione e conflitto. Un vero e proprio potenziamento di risorse personali e di gruppo, che attiva una diversa sensibilità senza che questo comporti alcuna perdita nell'efficacia operativa e nella centratura sul compito istituzionale. Allargare la propria visuale e acquisire ulteriori strumenti operativi non solo produce un allargamento della propria visione, ma sostiene l'autostima e la fiducia in se stessi, attenuando l'impellenza delle reazioni meramente difensive


Formazione e codice etico


Andrea Cozzo («Quaderni di Satyagraha», Gandhi Edizioni, 2007), nel suo manuale di formazione dedicato alle Forze dell'Ordine, Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione, racconta e restituisce la struttura di percorsi formativi ispirati a quello che Peppe Sini, direttore del bollettino telematico «La nonviolenza in cammino» aveva tenuto a Gubbio (Pg) per gli operatori della Polizia Municipale. I corsi, svolti a Palermo per la Questura, la Guardia di Finanza, l'Arma dei Carabinieri e i Vigili Urbani, e a Pescara per i Vigili Urbani, hanno avuto una durata di poche decine di ore, ma sono partiti da esigenze immediate e concrete da parte delle forze dell'Ordine. Gestire la conflittualità urbana, le situazioni di tensione, dalla violenza domestica a quella di piazza, fino alle ingiurie e alle minacce nei confronti degli agenti, sono temi cruciali nel lavoro quotidiano, come anche è cruciale saper riconoscere e migliorare le proprie risposte alle condizioni di stress emotivo, al burn out e alla traumatizzazione vicaria a cui si è soggetti nel sentir raccontare e vivere costantemente l'esposizione a episodi di violenza e illegalità.

Lezioni teoriche, sviluppo della consapevolezza dei propri processi di pensiero e di azione, allenamento alle tecniche comunicative e di gestione delle emozioni della pratica nonviolenta, narrazione di casi e di vissuti professionali e confronto coi colleghi, elaborazione di strategie creative volte a superare la logica del vincitore/perdente: strumenti preziosi, accessibili, consolidati, e soprattutto semplici e chiari, che magari all'inizio possono generare una certa dose di diffidenza, ma di cui subito si apprezza la potenza. Strumenti che si affiancano a quelli tipici della propria categoria professionale, ma che alla fine fanno la differenza tra disumanizzazione, alienazione, e una migliore efficacia, coniugata a migliori condizioni di benessere professionale e personale.

Il Codice Europeo Etico per la Polizia - Ree (2001) 10 del Comitato dei Ministri -, afferma che il personale di Polizia dovrà essere dotato di capacità di giudizio, apertura mentale, maturità, imparzialità, capacità di comunicare. Servono anche capacità di leadership e competenze gestionali, più una buona comprensione delle problematiche sociali e culturali delle comunità. E la formazione deve esser centrata sui valori fondamentali della democrazia, dello stato di diritto e della tutela dei diritti umani. Viene ribadita la necessità di disobbedire ad ordini illegali e di denunciarne gli autori, e viene definito con chiarezza il confine dell'uso della forza, perché ogni corpo di polizia «non deve infliggere, istigare o tollerare atti di tortura, trattamenti o pene inumane o degradanti» e può far uso della forza «solo se strettamente necessario e solo nella misura necessaria al raggiungimento di un obiettivo legittimo».

Molto molto lontano da Rambo, e molto vicino all'immagine di poliziotti come funzionari di pace, disarmati come i poliziotti islandesi, che potranno svolgere un'opera più efficace se saranno messi in grado di lavorare a livello di comunità invece che di repressione, riducendo la distanza sociale e la lettura oppositiva dei bisogni tra la polizia e le situazioni in cui essa è chiamata ad intervenire.


Rosella De Leonibus

Pubblicato sulla rivista "Rocca" della Pro Civitate Christiana Assisi il 1 giugno 2015, nella rubrica "I volti del disagio"