Resistenza civile

I. Forme di lotta

Con la significativa eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere, non esistono nella resistenza compiti o settori dove non compaiano donne. È così nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, la struttura delegata a sostenere i militanti in difficoltà e le loro famiglie. Dello schieramento resistenziale fanno parte anche le militanti dei Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà, l'organizzazione femminile di massa fondata nell'autunno '43 da alcune esponenti dei partiti del Cln.

Nell'opera dei Gruppi, e in una certa misura anche delle partigiane, rientrano molte pratiche tipiche della resistenza civile, un termine oggi usato per indicare l'area dei comportamenti conflittuali delle popolazioni che in tutta l'Europa sotto dominio nazista accompagnano, a volte precedono, la resistenza armata, e che si valgono non delle armi ma di strumenti immateriali come il coraggio morale, l'inventiva, la duttilità, le tecniche di aggiramento della violenza, la capacità di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico. Ma le donne attive in questo campo sono molte di più di quelle integrate nella resistenza e riconosciute come tali.

Il punto di inizio della resistenza civile italiana sono i giorni successivi all'8 settembre, quando i tedeschi si sono ormai impadroniti dei 4/5 del paese e decine di migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di sfuggire alla caccia degli occupanti. Ne nascono storie splendide, uscite dall'anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non più giovane donna torinese di classe operaia, che non esita a accogliere e rivestire in borghese i primi militari che bussano alla sua porta, ma che subito si rende conto del carattere di massa dell'emergenza. Fa allora incetta di indumenti borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carità, e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta dove sull'onda del passaparola gli sbandati si presentano sempre più numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento. Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita (Bravo-Bruzzone 1995).

Sebbene sia raro incontrare altrettanto spirito imprenditorale e altrettanta cura per la verosiglianza, in quei giorni un numero imprecisato ma vastissimo di donne - anche se non solo di donne - si impegna in una mobilitazione che imprime il suo segno nel paesaggio. Come scrive Luigi Meneghello, uno dei maggiori protagonisti/interpreti della resistenza, si vedevano "file praticamente continue di gente (...) tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete (...) Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva" (Meneghello 1986).

È una gigantesca operazione di salvataggio, forse la più grande della nostra storia (Galli Della Loggia 1991), che viene condotta in assenza di direttive politiche e in gran parte ad opera di donne cosiddette comuni; un fenomeno che non si ripeterà più con queste caratteristiche e dimensioni. Ma nei venti mesi successivi, la resistenza civile italiana prende altre forme. Tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali perseguito dai nazisti; tentativi di impedire la distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico, una pratica decisiva per minarne la tenuta psicologica; rifiuto da parte di magistrati e altri dipendenti pubblici di prestare giuramento alla repubblica di Salò. Spicca anche, ed è probabilmente l'aspetto più diffuso, la protezione verso chi è in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l'armistizio (Absalom 1991); l'aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile in tutta Europa; e, certo non da ultimo, l'appoggio alle formazioni partigiane attraverso infinite piccole e grandi iniziative - sarebbe dunque assurdo considerare la resistenza civile come separata e contrapposte a quella armata, anche perché almeno in alcuni casi non di rifiuto delle armi si tratta, ma dell'impossibilità di procurarsele.

È vero invece che il termine abbracccia un ventaglio di comportamenti eterogenei, apparentati essenzialmente dal fatto di essere compiuti senza armi e ad opera di soggetti a loro volta così diversi che a accomunarli è quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese: sono uomini di varia età, ceto, cultura, posizione professionale, politicizzati e non; a volte bambine e bambini; religiosi/e; ma soprattutto donne, proletarie e aristocratiche, contadine e borghesi, spinte all'esterno dalla necessità di provvedere a se stesse e alla famiglia e spesso più capaci di esporsi, anche perché contano, a volte illudendosi, sul minore sospetto che tradizionalmente desterebbe la figura femminile.

Riflettono questa molteplicità le motivazioni: contano la fede e le indicazioni politiche, ma spesso contano di più la stanchezza della guerra, la pietas cristiana, l'odio per tedeschi e fascisti, la solidarietà, a volte l'orgoglio patriottico, di gruppo, di mestiere, ideali anarchici e antimilitaristi, spirito di insubordinazione e di avventura. L'8 settembre per le donne c'è una sfumatura particolare: gli sbandati sono giovani uomini in pericolo che si rivolgono loro come a figure forti e salvifiche, vale a dire materne. E proprio a causa di questa vulnerabilità, le donne li considerano spesso figli virtuali, e per proteggerli danno vita a un maternage di massa che rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana.

Al suo interno spicca l'azione individuale. C'è chi opera in modo estemporaneo, come la parrucchiera che durante una retata nasconde un partigiano fra le clienti. Chi in modo continuativo, come la diciottenne impiegata di uno stabilimento ausiliario che va regolarmente al comando tedesco a chiedere i lasciapassare per gli operai, e regolarmente inserisce nell'elenco partigiani e qualche ebreo; se la sua collaborazione con il Cln resta informale, in altri casi il medesimo incarico può portare all'inserimento negli organici, a dimostrazione di quanto sia difficile in quell'orizzonte concitato e frammentato applicare criteri omogenei.

Frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte collettive sono per lo più non violente, ma non sempre: lo testimoniano gli assalti ai magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili e alcune aggressioni contro esponenti e favoreggiatori di Salò - in quest'ultimo caso però è difficile distinguere tra i fatti, le dicerie, le versioni amplificate.

Variano di molto le modalità organizzative. La mobilitazione può riecheggiare le parole d'ordine dei partiti antifascisti o dei Gruppi di difesa, può esserne il risultato diretto, può valersi dei loro canali; altre volte - è il caso di M. S. - nasce da forme di concertazione informale lontane dal circuito politico e fondate su un tessuto sociale di paese, di quartiere, di parrocchia, su reti parentali, di colleganza, di amicizia.

Variano anche i risultati: si salvano persone e si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio '44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri (Commissione pari opportunità Massa-Carrara 1994); si strappano miglioramenti delle condizioni di vita e si delegittimano le istituzioni di Salò. Ma l'azione è in ogni caso frutto di una decisione personale non meno difficile della scelta partigiana. Così come solo una minoranza prende le armi, solo una minoranza si impegna infatti nella lotta senza armi, e sarebbe ingiusto usarla per accreditare il mito di un'unanime mobilitazione antifascista e antinazista - vale invece la pena sottolineare che da noi la solidarietà verso gli ebrei scatta nel momento in cui è chiaro che è la loro vita a essere in pericolo, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra.

Su questo sfondo, il significato della resistenza civile trova ancora più risalto. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell'esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto di sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salò del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Alcune donne di Carrara vengono arrestate; alcune/i soccorritori dei prigionieri di guerra sono uccisi. La piemontese quindicenne Natalina Bianco, "colpevole" di aver portato viveri ai fratelli partigiani, finirà a Ravensbruck; così la studentessa padovana Milena Zambon, attiva in una rete che fa passare in Svizzera i prigionieri alleati (Gios 1987). Del resto, nell'ordine senza diritto imposto dall'occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a innescare ritorsioni gravi.

L'impegno nella resistenza civile può dunque contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Ma dei suoi protagonisti e del loro destino sappiamo ancora poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel '98 con la storia dell'agente di custodia di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossemburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini (...) soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (Laudi 1998).

II. La resistenza e la figura femminile

Consapevoli di quanto sia importante la conflittualità diffusa, le forze della resistenza la sollecitano in varie forme; la considerano, però, più un indispensabile complemento della lotta armata che l'espressione di un antagonismo che germina dalla società. Nelle interpretazioni allora più seguite, la politica si identifica infatti con l'azione delle avanguardie organizzate, non con la transeunte iniziativa popolare; la vera battaglia contro il nazismo è quella che si combatte con le armi in pugno, mentre le lotte inermi e "spontanee" sono ritenute una forma minore dell'antifascismo, una componente utile ma secondaria, in qualche caso guardata con diffidenza da chi ricorda le non lontane mobilitazioni reazionarie delle masse italiane.

Quanto alle donne, la resistenza offre loro la prima occasione storica di politicizzazione democratica (Mafai 1987; Guidetti Serra 1977), e dunque le contraddizioni sono ancora più forti. Sebbene la guerra sottoponga l'intera struttura sociale a tensioni fortissime, non ne smantella infatti l'impronta patriarcale: restano forti sia l'ideologia secondo cui le donne appartengono alla famiglia e al privato e sono incompatibili con la sfera pubblica e la politica, sia i luoghi comuni sull'inaffidabilità femminile. Partecipe di quella cultura anche se intenzionato a cambiarne molti aspetti, il movimento resistenziale da un lato teme l'"egoismo" familistico delle donne, dall'altro cerca di guadagnarle alla causa, ma soprattutto in quanto "madri e spose" (Pieroni Bortolotti 1978). Nasce da qui una prevalente ottica "continuista", che vede nell'opera delle donne il prolungamento di ruoli naturali di assistenza e di cura, espansi al di fuori del privato in deroga alla "normale" divisione degli spazi. Che a singole esponenti politiche siano assegnati incarichi di rilievo in qualcuno dei territori provvisoriamente liberati dai partigiani e amministrati dai Cln, è un segnale importante, ma coesiste con il fatto che in nessuna di queste zone viene riconosciuto alle donne il diritto di voto per l'elezione degli organismi di autogoverno.

Non solo: perdurano - ed è stupefacente se si pensa agli sconvolgimenti della guerra - l'assimilazione fra vita quotidiana e routine e quel suo risvolto simmetrico che identifica emergenza e caduta peccaminosa nel lassismo. Nessuna delle forze in campo si dimostra immune dall'uno o dall'altro stereotipo. La Chiesa rimprovera alle donne di sfuggire la domesticità con il pretesto della situazione eccezionale, di non saper più educare cristianamente le figlie, di indulgere a sregolatezze di ogni tipo, da abbigliamenti provocanti a frequentazioni scandalose. All'estremo opposto, in una lettera della XL brigata Matteotti "alle Compagne" (Archivio centrale Udi 1996) le si invita a impegnarsi per procurare quanto necessario alla formazione, "abbandonando la vita metodica e casalinga" (sic).

Che nella lettera della Matteotti ci si rivolga alle militanti di un organismo riconosciuto dal Cln mostra che i pregiudizi non colpiscono soltanto le donne cosiddette comuni. Ne scontano gli effetti sia le donne dei Gruppi sia le stesse partigiane, gran parte delle quali sono impegnate nel lavoro logistico, un insieme di compiti complesso e pericoloso senza il quale nessun esercito potrebbe esistere. Meno che mai quello resistenziale, in cui il rapporto fra chi combatte e chi è impegnato in compiti di sostegno supera di molto lo standard delle truppe regolari. Eppure le partigiane vengono comunemente definite con il termine vago e miniaturizzante di staffetta, il che non esclude affatto amirazione e gratitudine, ma conferma la difficoltà a vedere le donne fuori da un ruolo ancillare.

Quanto ai Gruppi di difesa, il loro intervento investe terreni cruciali per la vita materiale e simbolica della collettività e per una prospettiva di maggiore giustizia. Basta citare le lotte di fabbrica e contro le deportazioni, la già citata resistenza agli sfollamenti forzati, gli onori resi pubblicamente e collettivamente ai partigiani caduti e alle vittime dei tedeschi, la difesa intensiva delle condizioni di vita condotta con grande attenzione a principi di equità nella gestione delle poche risorse (Archivio centrale Udi 1995). È un'assunzione di responsabilità che mette in campo pratiche e attitudini storicamente associate alle donne e fatte proprie dal primo emancipazionismo; ma lo sforzo di trasformarle in compito politicamente riconosciuto rappresenta un passo in più, una opzione forte per la presenza femminile nei futuri organismi democratici. Peccato che questa potenzalità non trovi risposte adeguate (Rossi-Doria 1994).

I criteri che regolano il riconoscimento della qualifica di resistente dicono molto sulla cultura e mentalità dell'epoca. È dichiarato partigiano chi ha portato le armi per almeno tre mesi in una formazione armata "regolarmente inquadrata nelle forze riconosciute e dipendenti dal Comando volontari della libertà", e ha compiuto almeno tre azioni di guerra o di sabotaggio. A quanti sono stati in carcere, al confino, in campo di concentramento, la qualifica viene riconosciuta solo se la prigionia è durata oltre tre mesi. Almeno sei sono necessari nel caso di servizio nelle strutture logistiche, mentre a chi, dall'esterno delle formazioni, abbia prestato aiuti particolarmente rilevanti viene attribuito in qualche regione il titolo di benemerito. Resta dunque saldo uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza, che lega la sua esprressione più alta al diritto/dovere di portare le armi, facendo degli inermi per necessità o per scelta figure secondarie quanto meno sul piano simbolico. Si sancisce anche l'assoluta dominanza del legame politico - di partito, di gruppo, di organismo di massa - rispetto ad altri tipi di vincolo e mediazione. Nello stesso schieramento antifascista si fatica a prendere coscienza delle implicazioni di questo dualismo.

Vengono così esclusi molti soggetti, dai reduci dei lager agli oppositori non collegati alle formazioni ufficiali e ai partiti del Cln; e la grandissima parte delle donne. Le cifre ufficiali di 35.000 partigiane e 70.000 operanti nei Gruppi di Difesa sono ragguardevoli, a maggior ragione se si tiene conto che il desiderio/bisogno di sottrarsi ai bandi di arruolamento nelle truppe della Repubblica sociale non riguarda le donne; ma per ammissione ormai generale sottorappresentano ampiamente la presenza femminile.

Non mancano ambivalenze neppure verso le partigiane combattenti, protagoniste di una rottura tanto più perturbante perché segue al ventennio fascista di enfasi sfrenata sulle funzioni materne. Quanto allarme cresca intorno alla figura della donna in armi è mostrato dalle leggende che circolano tra tedeschi e fascisti come fra la popolazione, narrando di reali o immaginarie condottiere sempre bellissime e sempre ferocissime. È una riemersione dei miti sulla guerriera che ha il suo rovescio nella diffidenza con cui molti guardano alle partigiane concrete, donne per lo più giovani uscite dalla casa per entrare non solo nella sfera della politica, ma in quella della violenza armata, ritenuta massimamente incompatibile con la femminilità.

Può essere così anche fra i resistenti. Il coraggio con cui la dirigenza partigiana bolla come arretratezze i pregiudizi maschili (Pavone 1991) e apre alle donne, non azzera i dubbi sulla loro attitudine al combattimento nè i timori di promiscuità nelle bande, e convive con una pratica di divisione dei compiti modellata sulla gerarchia di genere. Per molte che combattono, poche accedono a ruoli politici o militari di rilievo, pochissime diventano comandanti o commissari politici (l'equivalente del vicecomandante). Il grado più alto attribuito alle donne è quello di maggiore, che riguarda comunque una piccola minoranza; quelli più diffusi, tenente e sottotenente. L'avarizia nell'assegnazione di riconoscimenti militari riguarda tutta la resistenza europea, ma nei paesi latini si arriva a casi limite: da noi una donna si vede attribuire la qualifica di soldato semplice proprio dal giovane partigiano che lei stessa aveva messo a capo di una formazione di quartiere quando esercitava in via provvisoria il comando del I settore della piazza di Torino; a un'altra classificata come partigiana semplice viene riconosciuto dal comando alleato il grado di ufficiale superiore e la liquidazione in denaro corrispondente (Alloisio-Beltrami 1981).

Nell'insieme, il modo con cui nel mondo resistenziale si guarda alle donne registra un interessante intreccio fra volontà ugualitaria, slanci innovativi e cedimenti ai vecchi stereotipi. Non per caso: sono in gioco la divisione sessuale dei compiti e la separazione degli spazi fra donne e uomini; nodi principali del sistema di genere resi più dirompenti dalle materie che investono: partecipazione politica, uso delle armi, rapporti uomo/donna nella vita di formazione e in prospettiva nel futuro. Della complessità della situazione non tutti si rendono conto; su come affrontarla si danno a volte indicazioni opposte. Emerge così un quadro movimentato, dove giocano in modo decisivo le differenze culturali, politiche, geografiche, ideologiche, e le inclinazioni personali. Gioca, soprattutto, la volontà delle protagoniste di contrattare spazi di autonomia e di autoaffermarsi di fronte ai compagni.

È significativo che i Gruppi di difesa della donna insistano di continuo per sostituire il termine staffetta con definizioni professionali (informatrice, collegatrice, portaordini, infermiera) utili per superare l'immagine indistinta della donna che aiuta, dà una mano, si presta; che invitino caldamente le militanti a esigere la presenza femminile negli organismi politici e in ogni struttura di base, a non aver paura di sbagliare, a agire di propria iniziativa, a sapersi imporre (Archivio centrale Udi 1995). È significativo che molte partigiane rivendichino uguali diritti e responsabilità, e che alcune accettino di curare i compagni feriti, ma rifiutino fermamente di servirli (Bruzzone-Farina 1976).

III. Il senso comune storiografico

Sebbene qualsiasi generalizzazione implichi una forzatura, si può dire che per decenni gran parte della storiografia ha aderito alle idee-base della resistenza, presentandola come un evento quasi esclusivamente armato e identificandone la politica nei partiti e negli organismi di massa. Quanto agli stereotipi sulla femminilità, gli storici sembrano averli vissuti in modo molto meno conflittuale e vitale che non i resistenti, tanto da aver quasi ignorato l'esperienza delle partigiane e ancor più quella dei Gruppi o delle "donne comuni".

Non che della presenza femminile si sia taciuto del tutto. È anzi raro che non venga nominata e magari insignita di aggettivazioni iperboliche; ma, appunto, semplicemente nominata, non assunta a tema di ricerca. Nella memorialistica se ne parla come di un aiuto provvidenziale ricordato a volte con tenerezza e commozione; nei lavori di sintesi compare come lo scenario della lotta armata, quasi una componente ambientale che aderisce, sabota o si astiene in una partita giocata tra fascisti e partigiani.

Il vuoto di analisi traspare dai vuoti di linguaggio. Si parla di "contributo", un termine che marca il divario fra l'atto fondativo e il suo contorno o supporto, e lascia talmente nel vago il suo oggetto che la medesima parola viene usata per indicare l'attività delle partigiane ma anche l'insieme delle pratiche femminili ritenute utili alla resistenza. Si parla di rapida politicizzazione (senza però minuziosamente verificarla) oppure di umanitarismo istintivo (una categoria che andrebbe a sua volta spiegata perché la solidarietà non scatta sempre nè per chiunque). E, ancora, di oblatività femminile, vale a dire materna. Ma una maternità tradizionale, vincolata al privato e allo spazio domestico, e destinata a tornarci finita l'emergenza.

Il risultato è che un intero universo di comportamenti resta confuso nel paesaggio della guerra civile, perché non esistono nè un orizzonte simbolico capace di accoglierli, nè un termine che li ricomprenda e li caratterizzi. Tra alcune figure esemplari - la partigiana eroica, la madre salvifica, all'estremo opposto la spia - e le donne come massa indifferenziata, non c'è posto per le protagoniste concrete, che non hanno nome nè identità riconosciuta, tanto meno una fisionomia politica. Le stesse divergenze fra partigiane, fra organizzazioni femminili e al loro interno, vengono lasciate fra parentesi in una immagine di quieto unanimismo (Rossi-Doria 1994), a conferma che per gli storici il rapporto donne/politica restava a dir poco ininteressante. È un elemento di continuità con il passato che in Italia viene acuito dalla prevalenza della cultura cattolica, da una mentalità debitrice della tradizione contadina e dalla tendenza ancora diffusa nelle sinistre a subordinare la cosiddetta questione femminile alla soluzione dei problemi sociali.

Un destino in linea di massima simile è toccato alla mobilitazione disarmata dei civili e alle iniziative autorganizzate, sulle quali, all'opposto di quanto è avvenuto per il partigianato e i gruppi politici, c'è stata pochissima ricerca e riflessione. Esaltato l'aspetto di prezioso sussidio alla resistenza armata, ignorati gli elementi di autonomia e i caratteri specifici, le lotte di questo tipo affiorano dalle ricerche in ordine sparso, mentre a partire dagli anni settanta, sono spesso sussunte nella categoria delle lotte operaie e popolari e in quella di mondo contadino.

Questa "distrazione" si tramanda per decenni, dagli anni cinquanta, quando il clima di processo alla resistenza mantiene in primissimo piano la lotta armata e i suoi valori, agli anni sessanta/settanta che vedono la concentrazione sul tema della resistenza tradita e sulla radicalità di classe. Più degli orientamenti politici e culturali di fase, pesa una forma mentale che neppure concepisce di poter estendere il titolo di resistente a chi non abbia portato le armi. Per gli Imi (i 65O.OOO militari internati in Germania dopo l'8 settembre) che rifiutano in stragrande maggioranza di arruolarsi nell'esercito di Salò, si parla di "resistenza passiva", un termine già in uso all'epoca, che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonato. Come si fa a definire "passivo" un no opposto ai nazisti dall'interno di un campo di prigionia?Lo scarto è ancora maggiore per la sistemazione storico/teorica. Sul nodo guerra di liberazione/guerra civile c'è stato e c'è tuttora un dibattito a volte aspro cresciuto intorno a un'opera spartiacque (Pavone 1991); il tema lotta armata/lotta non armata e il modello di cittadinanza uscito dalla resistenza sono rimasti - e per molti aspetti ancora rimangono - ai margini della storiografia accademica come della divulgazione.

Nell'insieme, l'esiguità di ricerca e celebrazione ha contribuito a dare l'idea che l'opposizione civile sia stata pressoché inesistente, e quella delle donne limitata a una "materna" azione di aiuto ai partigiani.

Tuttavia per le donne nella seconda metà degli anni settanta c'è una svolta. È allora che, in un felice interscambio con il femminismo e il nuovo interesse per gli "invisibili" della storia, alcune studiose e protagoniste denunciano, sia pure con diversa radicalità, i limiti della resistenza e dei suoi interpreti nei confronti delle donne, rivendicando il diritto di partigiane e deportate politiche al pieno accesso alla sfera del pubblicamente memorabile (Bruzzone-Farina 1976, Guidetti Serra 1977, Pieroni Bortolotti 1978, Beccaria Rolfi-Bruzzone 1978, Alloisio-Beltrami 1981). Negli stessi anni Lidia Menapace, partigiana e militante della nonviolenza, allarga il discorso alle donne che non hanno avuto alcun riconoscimento, e che non hanno neppure pensato a chiederlo: "Se si prende come metro di misura delle donne nella resistenza questa presenza (...), come si può valutare se dopo la liberazione la sua eco e il suo risultato siano stati adeguati?" (Rossanda 1979).

Grazie a questi studi, si apre la strada per nuove ricerche all'interno della storia delle donne intesa come disciplina autonoma e politicamente motivata. Una strada che in questi ultimi anni, e non solo in Italia, ha guardato sia alle partigiane sia alle donne cosiddette comuni, sia alle azioni collettive sia a quelle individuali e di piccolo gruppo, nel tentativo di comprenderne i significati rispetto al quadro complessivo e di ridefinire contenuti e confini del termine resistenza.

Perché il tema dell'opposizione nella società guadagni spazio bisogna invece aspettare la fine del decennio successivo, quando l'irruzione della storia sociale mette fine al lunghissimo predominio dei temi politico-istituzionali, e pone le premesse per una nuova sensibilità.

Un sommario sguardo all'oggi mostra una situazione fluida. Gli storici più avvertiti concordano sull'importanza anche teorico/politica di questi temi: che senso ha, per esempio, continuare a discutere sulla dimensione numerica della resistenza riferendosi ai criteri di oltre cinquant'anni fa? Ma c'è anche una diffusa tendenza a ritenere la resistenza civile "affare delle donne" - le protagoniste di allora, le ricercatrici del presente - eludendone il carattere di critica generale al senso comune storiografico.

IV. Il concetto di resistenza civile

Usato in precedenza episodicamente e senza un forte statuto storiografico, questo concetto è stato messo a punto alla fine degli anni ottanta dal francese Jacques Semelin, storico di formazione psicosociologica e militante della nonviolenza. Per Semelin (1993), la resistenza civile si identifica nelle iniziative conflittuali disarmate delle istituzioni politiche, professionali, religiose, o delle popolazioni, o di entrambe; e rappresenta la risposta specifica della società civile contro il dominio che il nazismo pretende di esercitare sulla sua vita e sulle sue strutture. Una collocazione di primo piano ha naturalmente il sostegno alla lotta armata, ma il fatto nuovo è che vengono assegnati un nome e una rilevanza inedita alle pratiche dell'autodifesa sociale, di cui l'autore offre una ricca casistica relativa al centro e nord Europa. Si va dai grandi scioperi minerari francesi e belgi del maggio-giugno 1941 contro il crollo dei livelli di vita, al rifiuto di aderire a qualsiasi associazione nazificata da parte di insegnanti, medici, funzionari e altri gruppi, compresi gli sportivi, che in Norvegia con il blocco di ogni attività agonistica contribuiscono ad aprire gli occhi a molti giovani; dalle denunce pubbliche di alcune Chiese nazionali alle lotte della primavera-estate '43 in Francia e Paesi Bassi contro la deportazione in Germania di centinaia di migliaia di lavoratori/trici, alla meravigliosa mobilitazione del popolo danese, che nell'ottobre '43 riesce a portare in salvo in Svezia la grandissima maggioranza dei "suoi" ebrei.

Consapevole di muoversi su un terreno delicato, Semelin fissa chiramente alcuni punti: la resistenza civile non è in competizione con la lotta armata, non ricomprende qualsiasi atteggiamento conflittuale ma solo quelli dotati di un'intenzione o di una funzione antinazista, non equivale automaticamente a lotta nonviolenta, e quest'ultima non è un dogma da seguire in qualsiasi contesto. Ma è altrettanto fermo nel rivendicare la matrice comune a queste lotte e la loro autonomia, e nel confutare le interpretazione che le riducono ad appendici del movimento partigiano; proprio per questo, le analizza nei primi anni dell'occupazione, quando l'aspetto armato era ancora assente o in nuce, e insiste sulla necessità di valutarne le differenze alla luce delle specificità nazionali e di fase, come il tipo di collaborazione praticato dai governi, le tradizioni locali, le modalità della politica nazista, la coesione sociale preesistente, vale a dire il grado di riconoscimento nelle istituzioni e i sentimenti di appartenenza alla collettività. Due obiettivi gli stanno soprattutto a cuore: "demilitarizzare" la resistenza, mostrando che si può lottare efficacemente in molti altri modi e su moltissimi terreni; indicare nella società il luogo di un antagonismo non interamente ricomprensibile e rappresentabile dalla lotta armata, facendo dei cittadini e dei gruppi sociali non i comprimari ma i protagonisti, portatori di obiettivi propri anziché cassa di risonanza dello scontro partigiani/nazisti.

Si offre in questo modo un solido terreno di unità a grandi lotte, comportamenti sparsi e a volte dati per scontati, episodi altamente creativi - è così ad esempio per i momenti di resistenza vissuti nella situazione estrema del Lager con la creazione di strutture politiche clandestine e più spesso attraverso lo sforzo di contrastare l'esperimento di controllo totale dei comportamenti perseguito dall'ideologia concentrazionaria. Per quanto riguarda l'Italia, trovano identità e visibilità innanzitutto i nostri deportati/e, gli Imi, ma anche molti soggetti imprevisti: come quegli impiegati/e pubblici che all'indomani dell'8 settembre riempiono centinaia di fogli di via con i nomi degli sbandati, per farli viaggiare verso casa come se fossero in regolare licenza (Ferrandi 1994); o quei dipendenti comunali romani che, ben prima di essere coordinati dal Cln, organizzano un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una "regolare" falsa identità, scegliendo per il domicilio edifici bombardati e evacuati, per il luogo di provenienza irraggiungibili comuni a sud del fronte, per gli stati di famiglia numeri d'ordine di serie anteguerra; e, ancora, quei loro colleghi/e che insieme agli sterratori del Verano disseppelliscono le bare dei fucilati cui i nazisti vietano di apporre segni di riconoscimento, le aprono, prendono nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, e le contrassegnano perché possano essere identificate in futuro (Lunadei 1996).

Per descrivere la parte avuta dalle donne in questa guerra, il concetto di resistenza civile è uno sfondo propizio. Lo è per la loro amplissima partecipazione; per gli strumenti, che sono quelli comunemente associati al femminile, resi più visibili dall'assenza delle armi; per i contenuti, che mostrano come fra tedeschi/fascisti e strati di popolazione esista un contenzioso su temi cruciali dell'esistenza collettiva e pertinenti ai ruoli e all'esperienza delle donne, per esempio il diritto a condizioni vitali minime, l'atteggiamento dei militari verso i civili, la tutela dei più deboli, il rispetto dovuto ai morti, i limiti che il conflitto non deve oltrepassare. Lo è anche per le motivazioni, dove non si stabiliscono gerarchie fra quelle politiche e quelle di altra natura, che del resto non affiorerebbero senza un precedente disconoscimento della legalità fascista e senza l'individuazione almeno embrionale di una legittimità altra. Lo è soprattutto se si tiene conto di come le caratteristiche dell'Italia del '43-'45 modellino il conflitto e l'azione sociale.

L'8 settembre il paese esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la "nazionalizzazione" delle masse; i sentimenti civici, già storicamente deboli, sono sbriciolati, le risorse miserrime; le vecchie istituzioni statali hanno perduto ogni credibilità, mentre i partiti e le nuove organizzazioni di massa mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze, una condizione che di per sè circoscrive il loro ruolo nella mobilitazione popolare (ma anche la loro capacità di direzione sulle prime bande).

Si capisce così perché la resistenza civile italiana appaia particolarmente discontinua, meno strutturata, meno "politica" di quanto non sia in Francia, Danimarca, Olanda. Perché, in altre parole, siano tanto importanti quelle iniziative informali e di piccolo raggio che spesso sono state ricomprese nella categoria seducente quanto vaga di  spontaneità, quei già ricordati comportamenti fondati su parentele, quartiere, caseggiato, parrocchia, comunità, precisamente gli ambiti in cui le donne sono storicamente più presenti e autorevoli: donne che hanno saputo far continuare la vita nei tre anni di guerra ricavandone esperienza e consenso sociale, molto spesso madri dotate di un solido potere nella famiglia e di un'influenza particolarmente forte sulla condotta dei figli.

Non si tratta di esaltare l'"impoliticità", ma di ribadire come proprio questa accentuata compresenza di iniziative solitarie, di gruppo, di massa, questo affiancarsi di reti politiche e di forme di concertazione diverse rappresenti una delle ricchezze della nostra resistenza civile. È anche ciò che rende complicato definirla, perché è complicato valutare l'incidenza di ciascuna modalità, soprattutto dell'accordo informale, che può a volte coincidere con il legame politico, a volte essere utilizzato per mascherarlo; che, soprattutto, ha lasciato ben poche tracce nella documentazione. L'importante è assumere questi e altri problemi come oggetti storiografici di spicco, parte eminente di un movimento che non è nè il braccio disarmato della lotta partigiano nè un sottoprodotto dei partiti, e neppure un limbo inorganizzato, impolitico, istintuale.

Se si pensa alla difficoltà degli storici a superare un'interpretazione "maternalista", e alla difficoltà delle stesse donne a pensarsi fuori dai ruoli familiari e di cura, si tratta di un passo decisivo. Si potrebbe anzi dire che la resistenza civile si addice alle donne, e viceversa, tanto che rischiano di essere lasciate in ombra la sua componente maschile e persino l'esperienza delle partigiane combattenti.

V. Resistenza civile e resistenza delle donne

Dopo essere state le prime a misurarsi con il concetto, (alcune) storiche hanno però messo in guardia da una identificazione troppo stretta fra resistenza civile e resistenza delle donne. Sgombrare il campo dalla gerarchia armati/inermi è solo un primo passo. Se anche nella resistenza civile le donne, numerosissime nelle realtà di base, raramente prendono parte ai processi di consultazione e decisione, e ancora più raramente sono cooptate nelle leadership, non è solo perché un'organizzazione clandestina o semiclandestina non può rispettare criteri di avvicendamento della dirigenza, nè regolari meccanismi di confronto e controllo. Conta anche il pregiudizio sulle capacità politiche femminili, che non viene smontato di per sè dalla scelta non armata o addirittura nonviolenta.

Ma persino ai livelli più informali agiscono strutture in cui le donne possono scomparire. Innanzitutto la famiglia, che nell'Europa occupata è il bersaglio delle deportazioni, dello sfruttamento diffuso, del terrore, e nello stesso tempo un luogo primario di iniziativa e reclutamento; lo è tanto più facilmente in Italia, data la particolare forza e estensione dei legami familiari.

Può allora succedere che una donna, spinta e legittimata a esporsi in nome e per tramite della famiglia, venga assorbita dalla sua immagine di unità organica, di soggetto unitario che "compare" come protagonista in sua vece, mentre la figura di moglie e madre torna a sovrastrare quella della resistente, e la sua iniziativa a essere classificata come contributo.

Non solo: se ci si attenesse alla formulazione originaria del concetto di resistenza civile, lo stesso numero delle donne considerate attive scemerebbe radicalmente. Semelin riservava infatti quel termine alle iniziative tendenzialmente di massa e organizzate, preferendo nel caso di piccoli gruppi sparpagliati la categoria più debole di disubbidienza o dissenso. Lo stesso vale per quella modalità largamente femminile rappresentata dall'azione solitaria, su cui pesa per di più il debole riconoscimento assegnato per decenni alla lotta individuale, vista come surrogato poco pregevole di quella collettiva.

È un paradosso della resistenza civile antinazista usare pratiche associate al femminile, e uno stile politico e modelli organizzativi tipicamente maschili.

Anche in questo universo bisogna allora mettersi in cerca dei luoghi e modi delle donne per farli emrgere laddove non trovino visibilità e per distinguerli dallo sfondo che potrebbe offuscarne le caratteristiche. Tra queste, una delle più evidenti è la capacità di "usare" una contraddizione tipica del tempo di guerra, in cui sfumano i confini già mutevoli tra sfera privata e sfera pubblica e nello stesso tempo si rafforza il legame simbolico che identifica la femminilità con la prima, la mascolinità con la seconda. Molte azioni nascono proprio nella zona a statuto incerto fra pubblico e privato e si realizzano grazie a rapporti a loro volta di confine. Donne - una minoranza di donne - scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza. Stringono relazioni a partire dalla vita quotidiana trasformandole in circuiti magari provvisori di inziativa antinazista. Coinvolgono parenti e vicine. Frequentano i mercati facendo insieme spesa e propaganda politica. E sistematicamente fanno del riferimento al privato e al familiare il massimo strumento di diversione e manipolazione del nemico: contrabbandano le riunioni per incontri amicali, trasformano una militante politica in una parente sfollata, un ricercato in figlio, marito, amante - come la brava moglie torinese che per proteggere un antifascista sorpreso a casa sua dichiara di avere una relazione amorosa con lui, e affronta il processo e la perdita della rispettabilità (Bravo-Bruzzone 1995). Fanno di un libro il contenitore per una rivoltella, del proprio corpo il nascondiglio di documenti, di un fiore un simbolo o un segnale. Assumono la maschera della ragazzina ingenua o della giovane bella e svagata.

Il fatto è che molte hanno intuito uno dei punti deboli del nemico, il bisogno di sottrarsi momentaneamente al clima di muro contro muro per godere di un simulacro di rapporti svincolati dalla guerra: fame di privato, si potrebbe chiamare. E di questa intuizione fanno un uso sapiente, spostando nell'universo delle armi le armi della sfera privata e personale: seduzione, capacità di recitare più ruoli, appello agli affetti, fragilità esibita, impudenza calcolata, spesso la tattica del piccolo dono - un pezzo di pane bianco, una sigaretta - offerto al nemico in segno di pace. C'è precisamente questo raffinato gioco delle apparenze alla base degli episodi infinite volte narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni - piene di politica e di guerra - esibendo i simboli della routine domestica o della femminilità inoffensiva.

A venire in primo piano è soprattutto il registro materno. Può essere il maternage individuale o di massa che tutela le vite in pericolo. Può essere il lavoro di cura indirizzato ai resistenti dall'interno e dall'esterno delle formazioni partigiane, o l'assistenza alle popolazioni promossa da gruppi femminili. Può essere l'uso tattico dei simboli della maternità, o il richiamo al suo carattere universale, in nome del quale si autolegittimano l'intervento presso tedeschi e fascisti per ottenere un rilascio o la rinuncia a una rappresaglia, ma anche la sfida, la riprovazione, lo scoppio di collera vendicativa in cui riaffiora il tradizionale diritto delle madri a insorgere in difesa della comunità (Bravo 1991).

È altrettanto importante guardare a organizzazioni come i Gruppi di difesa, sia per il loro programma di affermazione di diritti e opportunità, sia perché una struttura politica interessata a rivendicare la titolarità delle iniziative femminili rappresentava già un argine all'assorbimento delle donne nella famiglia e un tramite per valorizzare le iniziative sparse: nelle Direttive dei Gruppi del novembre 1944 che invitano alla mobilitazione per impedire la partenza dei treni destinati alla Germania, "liberare i soldati nelle caserme" e "nelle carceri i detenuti condannati alla deportazione", ci si richiama esplicitamente all'8 settembre come modello da seguire e come patrimonio femminile.

Nonostante la maggior attenzione di questi ultimi anni, lo stato della ricerca non permette una valutazione definitiva. Segnala piuttosto che è urgente mettere insieme una casistica più ampia, senza rinunciare allo spartiacque dell'intenzione e della funzione antinazista ma valutando in quale modo fossero vissute dalle donne di allora; ché è importante rendere visibili le rotture e le continuità, le tradizioni di saperi femminili attivate nel faccia a faccia con la guerra, senza cedere alla mitizzazione del materno, ma senza dimenticare che si tratta di un fatto e di un simbolo troppo ricchi e complessi per prestarsi a un'interpretazione univoca.

Quanto al concetto di resistenza civile, pur avendo una storia in larga parte autonoma dal discorso di genere, ha già dato molto, innanzitutto spostando alcune storie importanti dalla memoria privata a quella publica: la vicenda di M. S. è rimasta per tutti questi decenni affidata al ricordo della figlia; la diciottenne procacciatrice di lasciapassare non riteneva neppure di aver fatto la resistenza. Quel concetto resta perciò uno dei riferimenti più importanti, anche per la duttilità con cui si è aperto al confronto con gli studi delle donne, in particolare a proposito dell'azione individuale. Forse, è proprio da questo interscambio che possono venire gli insegnamenti più limpidi per la coscienza contemporanea. È infatti attraverso la figura femminile, tradizionale simbolo della condizione inerme e della vocazione alla pace, che trovano il massimo di verosimiglianza l'idea che anche per gli indifesi è possibile opporsi, e la prospettiva di una lotta accessibile a molti più soggetti, dalla madre di famiglia al prete al nonviolento, ma anche a chi ha un'età anziana, o è infermo, magari fisicamente inetto. "Fai come me" è un invito che il resistente civile può estendere enormemente al di là di quanto possa fare il partigiano in armi; e che appunto per questo testimonia come anche l'aspettare, non vedere, non "immischiarsi", sia stata una questione di scelte.

Nota bibliografica

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