Oscar Romero, tra ammirazione e imitazione

Ottantamila circa sono state le vittime della guerra civile in El Salvador, dal 1980 al 1992, anno degli accordi di pace, in un Paese che aveva solo quattro milioni di abitanti. Nel parco Cuscatlán a San Salvador è stato creato un “Monumento a la Memoria y la Verdad”: si tratta di un muro lungo oltre 90 metri che riporta divisi per anno, incisi nella pietra, i nomi di migliaia di vittime della repressione durante gli anni della dittatura. Tutti i giorni vi sono persone che mettono fiori sotto i nomi di familiari e di amici. El Salvador è veramente una “tierra de mártires”.

In questo piccolo Paese, lunedì 24 marzo 1980, verso le ore 18,25, mentre sta celebrando la Santa Messa nella chiesa dell’Hospitalito della Divina Provvidenza, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che nella nazione centroamericana, oppressa da una feroce dittatura militare, denuncia violenze, sequestri, omicidi, massacri, indicando con precisione responsabilità e complicità. Si tratta di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi è invece una voce amica e fedele, una difesa contro i soprusi e le prepotenze. Una voce che ora la Chiesa, finalmente, ha portato agli onori dell’altare. A 35 anni di distanza dalla sua morte, il 23 maggio 2015 Oscar Arnulfo Romero è stato infatti beatificato a San Salvador alla presenza di una folla immensa. La Chiesa ha riconosciuto che Oscar Romero è stato assassinato in odium fidei. Fino ad ora, secondo il Codice di diritto canonico, per proclamare un martire era necessario che gli assassini fossero atei o di un’altra religione. Ora, con la beatificazione di Romero, assassinato non a motivo della sua fede ma per la sua opera di denuncia sociale e politica, di fatto si afferma che l’azione in favore della giustizia è connaturata all’annuncio cristiano.

Dopo anni di oblio, anni in cui anche la tomba dell’arcivescovo era stata dimenticata e versava in uno stato di abbandono, ora tutto è cambiato. Mentre prima le immagini di mons. Romero erano esposte solo dove si riunivano le comunità di base o nelle case di poveri campesinos, ora in ogni chiesa del Paese sono visibili grandi quadri con la figura dell’arcivescovo assassinato e molti murales ricordano il suo sacrificio, unitamente a quello di Rutilio Grande, dei gesuiti della Uca e dei tanti altri martiri, come Marianella García Villas[1].

Ma oltre a tutto ciò, che riguarda l’esteriorità e l’ufficialità, a 36 anni di distanza dal suo assassinio e all’indomani della beatificazione, il messaggio di Oscar Romero continua a risuonare alto e forte nel suo Paese? Continua ad essere un riferimento per la Chiesa e per la società salvadoregna? Il sangue dei martiri sta fecondando la terra di questo piccolo Paese centroamericano? Un recente viaggio in El Salvador, ricco di incontri e di visite ai tanti “lugar de mártires”, mi offre lo spunto per alcune riflessioni circa la percezione che nel Paese centroamericano oggi si ha della figura di mons. Romero[2].

Un Paese sconvolto dalla violenza

A chi arriva per la prima volta in El Salvador, passando in auto per le strade della capitale, in un traffico incredibile, la prima cosa che balza all’occhio sono le persone armate presenti ovunque: davanti a qualsiasi negozio minimamente decente, a qualsiasi locale, alle scuole, alle pompe di benzina, alle pizzerie, davanti anche agli ingressi di diverse parrocchie, davanti all’Arcivescovado… uomini armati, vigilantes con un fucile a pompa ben visibile. E nelle zone bene della città ancora vigilantes ma con la camicia bianca e, al posto di un ingombrante fucile, moderne pistole.

E poi colonie (così vengono chiamati quelli che sono i nostri quartieri) chiuse nei diversi ingressi da cancelli in ferro sorvegliati da persone armate di guardia. Sono chiuse per motivi di sicurezza e non vi si può entrare liberamente: le strade di accesso sono sbarrate da questi grandi cancelli che occupano tutta la larghezza dell’arteria e sono alti almeno tre metri. Vi entrano i residenti, mentre gli altri devono lasciare un documento e dichiarare chi vanno a trovare o perché intendono entrare. Di notte rimane aperto e sorvegliato un solo cancello. Gli altri vengono sbarrati.

El Salvador è un Paese attanagliato dalla violenza: martedì 18 agosto 2015 si è raggiunto il record di 43 persone assassinate in un giorno. Nel solo mese di agosto vi sono stati 900 morti ammazzati. Le maras, ovvero la criminalità organizzata, controllano intere zone del Paese e quartieri della capitale, dove è vivamente consigliato non recarsi.

In una situazione di questo tipo ci si aspetta di sentire la voce profetica della Chiesa che, seguendo l’esempio di mons. Romero, tuoni contro la violenza della criminalità organizzata e delle ingiustizie sociali, esortando tutti alla conversione. E invece questo non accade, la Chiesa resta in silenzio.

Padre José Grigoli, frate minore veronese, è alla guida con altri tre anziani frati minori italiani, con un honduregno e un salvadoregno, della parrocchia di S. Antonio da Padua a San Salvador. Padre José ci conferma che il grande problema di El Salvador è la violenza: ci parla del territorio della sua zona controllato da una mara, di quello controllato da un’altra, dei tanti omicidi avvenuti. La Chiesa è rispettata perché finora non ha preso decise posizioni, ci dice. Forse, osserva, è giunta l’ora di parlare chiaramente contro la violenza, anche a costo di rischi e pericoli. Diceva Oscar Romero in una sua omelia:

«Una religione fatta di messa domenicale, ma con settimane ingiuste, non piace al Signore. Una religione fatta di molte preghiere, ma con ipocrisie nel cuore, non è cristiana. Una Chiesa che si stabilisse solo per star bene, per avere molto denaro, molte comodità, ma che dimenticasse di protestare contro le ingiustizie, non sarebbe la vera Chiesa del nostro divino Redentore. Una predicazione che non denunci il peccato, non è predicazione del Vangelo. Una predicazione che accontenti il peccatore, perché si consolidi nella sua situazione di peccato, tradisce la chiamata del Vangelo. Una predicazione che svegli, una predicazione che illumini, questa è la predicazione di Cristo»[3].

Il rischio del devozionalismo

L’Università Salesiana don Bosco è distribuita su tre sedi: quella principale a Soyapango, zona periferica e molto difficile di San Salvador, ha ottomila studenti; la seconda sede si trova nel municipio di Antiguo Cuscatlán, confinante con San Salvador, e ha circa 300 studenti; la terza sede è un centro di formazione a Santiago de Maria, in un altro dipartimento, quello di Usulután. Nella sede principale vi è la Facoltà di Ingegneria, con una decina di indirizzi, poi Scienze umane con vari indirizzi, la Facoltà di Teologia, quella di Scienze economiche, quella di Aeronautica e infine quella di Scienze della riabilitazione.

Nella sede che abbiamo visitato, all’Antiguo Cuscatlán, sono ospitati dei corsi post-diploma in Gestione della qualità, Informatica, Teologia, Scienze sociali, Pedagogia, Gestione del software, Cultura della pace e prevenzione della violenza giovanile. La sede è bella e organizzata: uffici forniti di moderni pc, auditorium attrezzato per proiezioni, aula di informatica e di lingue, biblioteca ecc. Qui incontriamo padre Vicente Chopin, sacerdote diocesano di San Salvador, docente e coordinatore dei dottorati[4], che è stato in Italia cinque anni per un dottorato all’Urbaniana di Roma. Con padre Vicente abbiamo un ampio confronto in particolare sulla situazione della Chiesa in El Salvador, una situazione secondo padre Vicente assai delicata, in quanto molti, a partire dall’arcivescovo, non hanno capito che la beatificazione di Romero ha senso se diventa azione per la Chiesa e non solo motivo di devozione. Da diverse parti in El Salvador si vuole ridurre la figura di Romero a qualcosa di statico, appeso al muro in tutte le chiese, rappresentato in tanti murales, ma lontano dai problemi di oggi.

Un giorno, ad Atiluya, in mezzo alla boscaglia, siamo ospitati nella povera e spoglia baracca di un campesino. Quando il discorso cade su mons. Romero, il padrone di casa, accompagnandosi con la chitarra, ci fa ascoltare una canzone popolare molto diffusa in El Salvador su “San Romero de las Americas”, el santo de los pobres, ci dice, spiegandoci poi con parole semplici ma determinate che il messaggio di Oscar Romero è ancora oggi per la gente povera di El Salvador un preciso punto di riferimento e un motivo di speranza. Ecco, è tra i poveri e i campesinos che ho ritrovato un’immagine autentica dell’arcivescovo assassinato.

In basilica e nella cripta, due diverse Chiese

Plaza Barrios (o Plaza Civica) nel centro di San Salvador presenta su un lato il Palacio Nacional, uno dei monumenti più importanti di El Salvador per la bellezza delle oltre cento stanze che lo compongono, su un altro la cattedrale, dedicata al Divino Salvatore del Mondo, patrono di San Salvador e del Paese. La facciata della cattedrale è ora tutta bianca: negli ultimi giorni di dicembre 2011 venne infatti eliminato il grande mosaico colorato, opera dell’artista Fernando Llort, che si trovava sulla facciata dal 1997 e che venne ideato per ricordare gli accordi di pace che misero fine alla guerra civile. Si trattava di 2700 frammenti che costituivano l’opera “L’armonia del mio popolo”, con uno sviluppo di 22,25 metri di altezza e 16 metri di larghezza. L’opera, raffigurante immagini della località di La Palma, nel nord del Paese, era diventata una sorta di patrimonio nazionale, un riferimento per tutti i salvadoregni. La decisione dell’arcivescovo Josè Luis Escobar Alas di togliere il grande mosaico, motivata da presunti pericoli dovuti al distacco di alcuni frammenti, provocò feroci polemiche e critiche, avanzate anche dai vertici dello Stato. Si poteva infatti intervenire con un’opera di restauro senza togliere il tutto.

Quando entro nella cattedrale, si stanno celebrando, come ogni domenica, delle cresime, mentre sotto, nella cripta, trovo subito una sorpresa: davanti alla tomba di Romero si sta svolgendo una conferenza stampa. Al centro del tavolo dei relatori, che sono tre, vi è padre Mauro Verzeletti, scalabriniano brasiliano, responsabile della pastorale migranti per la diocesi di San Salvador e coordinatore della stessa pastorale per tutto il Centroamerica. Un grande striscione appeso davanti al tavolo porta scritto: V conmemoración de la masacre de Tamaulipas, Mexico. A Tamaulipas, nel nord est del Messico, fra il 22 e il 23 agosto del 2010, 72 persone, per lo più migranti centroamericani, furono sequestrate e assassinate dalla criminalità organizzata poiché probabilmente si rifiutarono di entrare a farne parte. Quel massacro a tutt’oggi è rimasto impunito e le autorità messicane non hanno preso alcun provvedimento per scoprire i responsabili e porre fine a queste mattanze. La Conferenza stampa, condotta da padre Verzelletti, è organizzata, come si legge su un comunicato diffuso tra i presenti, da varie associazioni, tra cui la Rete gesuita per i migranti, la Pastorale dei migranti dell’Arcidiocesi di San Salvador, la Caritas di El Salvador, il Comitato dei familiari dei migranti desaparecidos e i missionari scalabriniani. Nel documento che viene diffuso tra i presenti, e letto da padre Verzeletti, si denuncia con forza il fatto che migliaia di migranti vengono respinti al confine con Messico e Stati Uniti. Il comunicato si rivolge sia al governo salvadoregno che a quelli del Messico e degli Stati Uniti affinché siano rispettati i diritti dei migranti e il tema venga affrontato in un’ottica di solidarietà. Viene denunciata la militarizzazione delle frontiere di Messico e Stati Uniti e il fatto che di centinaia di migranti non vi siano più notizie e risultino a tutti gli effetti desaparecidos. Alla conferenza stampa sono presenti numerosi inviati di radio e televisioni locali.

Si passa quindi a preparare l’altare per la Messa: in terra viene posto il grande striscione che ricorda il massacro del 2010. L’altare è sistemato davanti alla tomba di Romero. Alcune centinaia i presenti: tra questi, Mariella Tapella di Pax Christi, in El Salvador da circa trent’anni.

Celebra la Messa padre Mauro Verzeletti, assieme ad un altro sacerdote. Sono presenti, oltre a molti salvadoregni, anche alcuni gruppi stranieri che mi paiono nordamericani. Una decina di persone forma il gruppo che accompagna i canti, con chitarre e altri strumenti locali. L’omelia di padre Verzeletti è tutta centrata sul tema dei migranti e sul dramma che essi stanno vivendo in questi «viaggi della speranza e della disperazione» che si fermano davanti alle frontiere messicane e statunitensi. Ripete più volte ad alta voce padre Verzeletti: «Dios no creó fronteras. Somos todos hermanos!» (Dio non ha creato frontiere. Siamo tutti fratelli!).

Sembra un profeta che grida nel deserto di questo mondo che, al di qua e al di là dell’oceano, chiude la porta ai disperati che chiedono di entrare in casa. Anche la preghiera dei fedeli è tutta sul problema dei migranti e sui loro diritti negati. All’offertorio siamo invitati a deporre ai piedi dell’altare la croce in legno che abbiamo trovato sulla sedia: alla fine le croci sono 72, a ricordo dei migranti assassinati cinque anni fa in Messico. La Messa prosegue in un clima di grande e commossa partecipazione, con frequenti riferimenti a mons. Romero. Padre Verzeletti prima di concludere la celebrazione ricorda le parole dell’arcivescovo assassinato:

«È molto facile essere servitori della Parola senza dar fastidio al mondo, una Parola molto spiritualista, senza impegno con la storia, che può risuonare in qualunque parte del mondo, perché non è di alcuna parte del mondo: una Parola così non crea problemi, non genera conflitti. Ciò che genera i conflitti, le persecuzioni, ciò che segna la Chiesa autentica, è quando la Parola bruciante, come quella dei profeti, annuncia al popolo le meraviglie di Dio, perché vi creda e le adori, e denuncia i peccati degli uomini che si oppongono al Regno di Dio, perché li estirpino dai loro cuori, dalle loro società, dalle loro leggi, dai loro organismi che opprimono, che imprigionano, che calpestano i diritti di Dio e dell’umanità. Questo è il difficile servizio della Parola. Ma lo Spirito di Dio va con il profeta, con il predicatore, perché è Cristo, che si perpetua annunciando il suo Regno agli uomini di tutti i tempi»[5].

Torno di sopra in Basilica, dove è in corso la Messa. Parecchia gente, clima molto più formale, sull’altare tutto ben ordinato, nessuno striscione, molti chierichetti ben vestiti, il cerimoniere, l’incenso, i candelabri. Sembra proprio un’altra Chiesa rispetto a quella che in cripta ha appena celebrato la stessa Messa e pregato lo stesso Signore. Anche in Basilica vi sono immagini di mons. Romero, ma il suo messaggio non sembra risuonarvi. Prevalgono la devozione e l’ammirazione. Non sento parole che invitino a seguirne l’esempio, ad incarnare nella storia del Paese il suo messaggio.

«Missione compiuta, don Pedro, missione compiuta»

El Despertar, nella parrocchia di S. Antonio Abad a San Salvador, è un “lugar de mártires”, un luogo di martirio. Qui il 20 gennaio 1979 fecero irruzione i militari mentre era in corso un’attività di formazione spirituale per i giovani: venne assassinato padre Octavio Ortíz Luna e con lui quattro ragazzi che avevano cercato di fuggire: David Caballero, Angel Morales, Roberto Orellana, Jorge Gómez. Tutti gli altri presenti, sia maggiorenni che minorenni, vennero arrestati. Per i militari l’attività in atto al Despertar era sovversiva.

Martedì 25 agosto, nel tardo pomeriggio, a El Despertar partecipo al funerale di don Pedro De Clercq, un sacerdote belga in El Salvador da quarant’anni. Il funerale di don Pedro è una straordinaria esperienza di Chiesa. Don Pedro nei suoi lunghi anni di attività era diventato uno dei riferimenti più autorevoli per le comunità ecclesiali di base. Era stimato e conosciuto in tutto il Paese. Tantissima la gente presente. Appesi tutto attorno, in questa struttura coperta ma aperta ai lati, striscioni delle comunità di base, poster di don Pedro, immagini di Romero, di padre Octavio Ortíz e degli altri martiri del Despertar. Noto un grande striscione che porta la scritta: «Misión cumplida, don Pedro, misión cumplida» (Missione compiuta, don Pedro, missione compiuta).

Prima dell’inizio della Messa incrociamo Maria Luisa D’Aubuisson, la sorella del maggiore Roberto D’Aubuisson, responsabile dell’assassinio dell’arcivescovo. Maria d’Aubuisson è sempre stata su posizioni antitetiche rispetto al fratello, ponendosi da subito in ascolto e alla sequela di mons. Romero, pur portando il peso di un cognome terribile. Il fratello è stato infatti uno dei capi degli squadroni della morte. Non pochi sono i murales, a San Salvador, con scritto «D’Aubuisson assassino». Alla Messa è presente tutto El Salvador che ha in mons. Romero e nelle comunità ecclesiali di base i propri riferimenti. Presiede la cerimonia l’arcivescovo di San Salvador, che non mi pare propriamente a suo agio. Accanto a lui una decina di sacerdoti. Ogni tanto qualcuno dei presenti grida «Viva don Pedro», «Viva mons. Romero», «Viva le Comunità ecclesiali di base» e tutti a ripetere ad alta voce e a battere le mani. L’omelia viene tenuta da padre Rogelio Ponsele, altro sacerdote belga, una istituzione in El Salvador. Negli anni della guerra contro la dittatura, padre Rogelio si schierò con la guerriglia entrando in clandestinità e accompagnando così dal punto di vista spirituale le forze della resistenza nel dipartimento di Morazán[6]. Padre Rogelio nell’omelia mette in risalto le caratteristiche principali di don Pedro: la sua scelta per i poveri, l’animazione delle Comunità ecclesiali di base, il legame con la Chiesa, la fedeltà al Concilio Vaticano II e a Medellin.

La bara è collocata al centro, circondata da fiori e immagini di don Pedro, di Romero, di padre Octavio. Dopo l’omelia una trentina di persone, tenendosi per mano, ha ordinatamente circondato la bara: ognuna di esse sulla schiena recava un cartello con frasi di don Pedro o di Romero. E lì sono rimaste per tutta la Messa. La cerimonia è proseguita accompagnata dai canti e dagli applausi al «Viva don Pedro», «Viva mons. Romero». Al termine della Messa, la veglia comunitaria è proseguita per tutta la notte e diverse comunità di base, provenienti anche da fuori San Salvador, hanno reso omaggio a don Pedro con balli caratteristici e canti. Intanto, con la bara sempre al centro della struttura, si poteva firmare il registro, scrivendo una propria frase, o dare un ultimo saluto a don Pedro, visibile nella bara: infatti in El Salvador le bare mantengono aperta una finestrella fino al momento della sepoltura e dal vetro si può vedere il viso del defunto. Poi, al momento della sepoltura, viene abbassata una piccola anta sul vetro della finestrella. Mi ricordo di una fotografia del viso di Marianella García Villas visibile nella bara da una tale finestrella.

Una fede incarnata

L’anziano mons. Gregorio Rosa Chávez, che fu uno dei più stretti collaboratori dell’arcivescovo assassinato ed è impegnato ancora oggi a farne risuonare il messaggio e la testimonianza, ama ripetere che «mons. Romero è da imitare, non da ammirare». Ecco, in El Salvador mi pare che ci si divida oggi, nel considerare la figura di mons. Romero, fra chi intende onorarlo, ammirarlo, proporlo come un santino privo di valenza profetica, e chi invece si impegna a incarnarne il messaggio nella storia attuale del Paese. La beatificazione, fortemente voluta da papa Francesco, è stata a lungo ritardata poiché si voleva “ripulire” la figura dell’arcivescovo, spiritualizzarla, privarla di tutto quanto era denuncia politica e sociale, renderla un’immagine da ammirare, un quadro da appendere ovunque.

L’immagine plastica di una tale situazione è apparsa evidente in cattedrale: in basilica, la Chiesa ufficiale, intenta a onorare e ad ammirare il nuovo beato, nella cripta le comunità di base e la gente semplice che vogliono far risuonare anche oggi alto e forte il messaggio di mons. Romero. E ho avuto tale dimostrazione anche al funerale di padre De Clercq vedendo un arcivescovo fortemente imbarazzato di fronte al continuo riferimento dei presenti al messaggio di monsignor Romero. Un fede incarnata! Questa era la richiesta dell’arcivescovo assassinato e questo è il modo migliore per mantenerne viva la memoria. Diceva mons. Romero in un’omelia:

«Non possiamo separare la Parola di Dio dalla realtà storica in cui si annuncia, poiché non sarebbe più Parola di Dio. Sarebbe storia, sarebbe libro di pietà, sarebbe come una Bibbia nella nostra biblioteca. Ma si fa Parola di Dio perché incoraggia, illumina, contrasta, ripudia, elogia ciò che si fa oggi in questa società»[7].


[1] Sulla giovane presidente della Commissione diritti umani, assassinata il 14 marzo 1983, rimandiamo al nostro testo: Anselmo Palini, Marianella García Villas. “Avvocata dei poveri, compagna degli oppressi, voce degli scomparsi e dei perseguitati”, editrice Ave, Roma 2014, prefazione di Raniero La Valle. Sul massacro dei gesuiti dell’Università Centroamericana di San Salvador si veda: Emanuele Maspoli, Ignacio Ellacuría e i martiri di San Salvador, prefazione di Jon Sobrino, Paoline, Milano 2009. Su Rutilio Grande si rimanda a: Rodolfo Cardenal, Historia de una esperanza. Vida de Rutilio Grande, Uca editores, San Salvador 1985.

[2] Un’ampia cronaca delle due settimane trascorse in El Salvador sul sito anselmopalini.it.

[3] Anselmo Palini, Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo”, editrice Ave, Roma 2012, prefazione di Maurizio Chierici, pp. 164-165.

[4] Di Vicente Chopin segnaliamo Iglesia de los mártires. Una lectura latinoamericana desde El Salvador y Guatemala, Universidad don Bosco, San Salvador 2010.

[5] A. Palini, Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo”, pp. 164-165.

[6] Sulla vicenda biografica e le scelte di padre Rogelio Ponsele si veda il volume di María López Vigil, Vita e morte in Morazán. Un sacerdote nella guerriglia in Salvador, Emi, Bologna 1989.

[7] Palini, Oscar Romero, p. 158.