La contestazione secondo don Milani

Un aneddoto raccontato da Tullio De Mauro a Matteo Mennini spiega bene il cortocircuito, a cavallo del ‘68, fra don Milani, la scuola di Barbiana e la contestazione studentesca: «Conservo la fotografia di una scritta su un muro dell’università di Napoli che diceva: “El niño que no estudia no es buen revolucionario”, firmato Fidel Castro», ricorda il linguista, fra i primi accademici italiani ad occuparsi di Milani.

«Negli asterischi Laterza – prosegue – alcuni anni dopo il ‘68, una persona illustre e anche brava scriveva: “Come ci ordina il comandante Castro, el niño que no estudia…”. Sortita da Barbiana la frase di un bambino cubano era passata di bocca in bocca ed era diventata una frase di Fidel Castro».

Il nucleo profondo di un pensiero e di un’esperienza, più orecchiato che studiato, genera un mito in cui convivono verità e falsificazioni, tirato a destra e a manca a seconda del contesto e delle convenienze politiche, da cinquant’anni ad oggi. È questa una valutazione sostanzialmente condivisa negli ultimi studi a conclusione dell’“anno milaniano” appena trascorso.

Tra le pubblicazioni più interessanti, il libro di Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole (Laterza, 2017, pp. 268 euro 16). Ricostruzione appassionata e davvero piacevole alla lettura, il volume investiga la storia culturale di Lettera una professoressa, che ha lasciato un segno indelebile nella società italiana, soprattutto nella pedagogia e nella scuola.

L’istituzione scolastica di oggi, sottolinea l’autrice, è il risultato di alcune delle migliori intelligenze militanti del secondo Novecento, ma presenta ancora caratteri fortemente classisti. I dati Istat del 2016 rilevano che si continua a bocciare e allontanare le fasce sociali più deboli, in un meccanismo di dispersione-selezione che smentisce platealmente chi ha identificato in Milani, e in un presunto “donmilanismo”, le radici di una crisi.

Uno dei meriti principali del libro è di collocare Milani nel suo tempo, nel grande dibattito degli anni ‘60 sulla lingua e in quella galassia composta dai tanti che don Lorenzo incontrò sulla sua strada. Tra le figure principali emergono quelle di De Mauro, autore nel 1963 della Storia linguistica dell’Italia unita, e di Mario Lodi, come Milani promotore dell’uso didattico della scrittura collettiva ed esponente di spicco del Movimento di cooperazione educativa.

Di notevole interesse è poi lo studio della ricezione della Lettera in Italia, ma anche all’estero, dove si tese (non senza forzature) ad associare l’esperienza di Barbiana a quella di Summerhil e poi ad altre esperienze scaturite dalla contestazione studentesca.

«Il pensiero di Milani – precisa Roghi – non è il viatico del Sessantotto. Il suo è un progetto classista, pensato contro chi già studia, la sua è lotta di classe. Perché Lettera a una professoressa non è, non vuole essere, un libro scritto per i ragazzi che occupe­ranno le università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai».

Il volume ripercorre l’entusiasmo crescente attorno alla figura del priore di Barbiana, prima con la circolazione di L’obbedienza non è più virtù (i documenti del processo sull’obiezione di coscienza al militare), e poi la diffusione e la “sloganizzazione” della Lettera.

Don Lorenzo muore nel giugno 1967, quindi prima dell’esplosione del ‘68, ma fa in tempo ad illustrare ad Alex Langer le ragioni della propria distanza dalla borghesia studentesca in corso di radicalizzazione.

Anche se, negli ambienti della contestazione, il nome di Milani risuona forte sia nei gruppi spontanei post-conciliari, nelle letture dei “contro-quaresimalisti” di Trento e all’Isolotto di Firenze, sia nel più ampio movimento studentesco, come ricorda Guido Viale, all’epoca leader all’università di Torino.

Si occupa in maniera specifica di questo complessivo processo ricezione il volume collettivo Salire a Barbiana. Don Milani dal Sessantotto a oggi (a cura di Raimondo Michetti e Renato Moro, Viella, 2017, pp. 292 euro 28).

Nel ‘68, si legge nel saggio di Giovanni Turbanti, Lettera a una professoressa diventa «uno dei più importanti testi di riferimento della contestazione», oggetto di seminari e gruppi di studio, citata nei volantini e nei documenti del movimento, insieme a Che Guevara, Mao, Lenin e Marcuse.

Un successo conquistato per varie ragioni: la contestazione dell’autoritarismo degli insegnanti, la tendenza alla radicalizzazione e alla politicizzazione delle esperienze individuali («il problema degli altri è uguale al mio, sortirne tutti insieme è politica, sortirne da soli è avarizia»), la contrapposizione fra privilegiati (i «Pierini») e i diseredati (i «Gianni»), la critica alle istituzioni (a partire dalla scuola) che realizzano la selezione di classe e conservano la struttura iniqua della società.

Ma per i suoi allievi don Milani non è un «padre del ‘68». Tanto che decidono di denunciare il regista Franco Enriquez, che alla biennale di Venezia (settembre 1968) mette in scena Discorso per la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana e la rivolta degli studenti, spettacolo teatrale sul movimento studentesco “ispirato” da Milani.

E il pretore – ricostruisce Federico Ruozzi nel suo saggio su don Milani fra cinema, teatro e televisione – dà loro ragione: impone ad Enriquez di modificare il copione e di togliere ogni riferimento a Barbiana, «perché – sentenzia – il lavoro teatrale tradisce sia nel titolo che nel testo lo spirito del libro».

Il nodo allora è la lettura selettiva sessantottina di Milani, diventata egemone. Anche se in realtà, rileva Turbanti, a sinistra alcuni evidenziano le contraddizioni con le istanze del movimento.

Le critiche di Milani alla selezione riguardano la scuola media (dell’obbligo), mentre per i livelli superiori contempla «una selezione lontana da ogni discriminazione di censo» ma «severa»: il contrario del sei o del diciotto “politico” («quegli studenti universitari che protestavano contro la selezione di classe perché agli esami non gli davamo a tutti il 18, beh… don Milani li avrebbe bistrattati duramente», spiega De Mauro a Mennini, autore anche di un saggio sui “pellegrinaggi politici a Barbiana”).

Punta il dito contro l’autoritarismo della scuola, ma «l’autorità del priore» e «dei genitori» non è in discussione. I richiami evangelici – Milani è un prete libero ma fedele alla dottrina e obbediente alla Chiesa – stanno stretti ad una parte del movimento, che imputa a Milani «limiti di populismo e volontarismo». E Franco Fortini rimprovera Milani di riformismo, «di non sapere o non voler dare l’unica riposta possibile all’ingiustizia, quella della rivoluzione».

Quindi Lettera a una professoressa ispiratrice del ‘68, ma entro certi limiti, anche per quanto riguarda la contestazione cattolica, in larga parte incentrata sulla polemica sulla ricezione-attuazione del Vaticano II a cui Milani è estraneo. Don Milani «rimarrà un prete scomodo per tutti – scrive Renato Moro – ma è significativo quanto di questo Paese, in quel profeta scomodo, abbia cercato di specchiarsi».

Nell’analisi di Vanessa Roghi il giudizio si fa quasi rovente quando affronta da un lato la rapida retromarcia ideologica, alla fine degli anni ‘70, dei “sessantottini” diventati insegnanti – proprio nella fase in cui la scuola si sta democratizzando anche dal punto di vista legislativo –, e dall’altro gli attacchi al pensiero di Milani da parte di coloro che identificano in lui uno dei “cattivi maestri” di una scuola troppo permissiva e poco meritocratica.

Una polemica che è stata in molti casi un segmento di un più ampio attacco alle culture degli anni ‘60 al quale non si sono sottratti numerosi “volontari” da sinistra. Una corrente ancora oggi molto forte, sovente da parte di chi, per “salvarlo”, contrappone strumentalmente Milani alla stagione dei movimenti, con il risultato di non comprenderlo e di isolarlo… ancora una volta.

 

Fonte: Il Manifesto del 3 aprile 2018

Segnalato da Ida Tesconi