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La menzogna è uno stato di guerra, come la schiavitù: si è nelle mani di signorie che tiranneggiano i sudditi a puro scopo di sfruttamento. Di queste signorie si conoscono i nomi, ma il loro potere è talmente vasto e aggrovigliato nei cinque continenti che la moltitudine di servi non riesce a fermarle. Faccio, come sempre, qualche esempio.

In quindici anni il sistema politico e le idee portanti della società italiana hanno subito un sovvertimento profondo, in cui sono confluite le tendenze negative che già avevano piagato il Paese nei primi decenni della storia repubblicana, nonostante il rapido sviluppo economico e il graduale affermarsi degli istituti e delle pratiche della democrazia.

L' Accademia Apuana della Pace
per Lidia Menapace Presidente della Repubblica


Lunedì prossimo il Parlamento italiano, assieme ai rappresentanti delle regioni, si riunirà per eleggere il nuovo/a Presidente della Repubblica.
E’ già cominciato il balletto delle candidature, dei veti, il bilancino dei rapporti di forza interni alle coalizioni.
Vorremmo invece che tale occasione fosse un segnale di svolta nei rapporti fra palazzo e società civile, un segno di un sussulto di democrazia e partecipazione, che significasse il ritorno della sovranità al popolo.
Per questo l’Accademia Apuana della Pace, il coordinamento di oltre 30 associazioni (di diversa estrazione) e di un centinaio di singoli cittadini della nostra provincia, fa un pubblico appello a tutti i rappresentanti eletti nella nostra zona perché a tale carica venga eletta la senatrice Lidia Menapace.
Tale appello sta viaggiando in internet ed ha raccolto già decine di migliaia di adesioni provenienti da ogni settore della società civile. In tutti questi anni abbiamo iniziato a costruire movimenti che, in un confronto e dialogo serrato con le forze politiche, siano spazio e luogo di cittadinanza attiva.Crediamo che faccia parte di ciò avanzare una nostra proposta, per quanto concerne il futuro Presidente della Repubblica, nel rispetto delle regole e delle modalità stabilite dalla Costituzione.
Crediamo che i tempi siano maturi per segnare una differenza con le semplici logiche, pur legittime, del bilancino politico e della visibilità: è il momento di dare visibilità a valori, e che il futuro Presidente rappresenti e sia in sintonia con questi valori.
Valori fondanti della nostra Repubblica sono la Resistenza e la Costituzione che ne è il frutto coerente, il ripudio della Guerra, la valorizzazione delle differenze e la ricerca di creare condizioni di pari opportunità... dentro a questi valori Lidia Menapace cammina da sempre, abbracciandoli, sviluppandoli, elaborandoli senza mai fossilizzarli come semplici miti, in un filo che tiene saldato insieme il nostro passato, il presente che viviamo ed il futuro che andiamo a costruire.

Ci piacerebbe un Presidente della Repubblica che avesse partecipato alla Resistenza.
Un Presidente della Repubblica che abbia da sempre fatto la scelta della nonviolenza.
Una Presidente della Repubblica:Lidia Menapace.


Ricordiamo brevemente chi è Lidia Menapace: nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e’ poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto". Tra le voci più alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della società civile, della nonviolenza in cammino. Nelle ultime elezioni politiche è stata eletta senatrice

Chiunque voglia sostenere la candidatura di Lidia Menapace può inviare una mail al Centro di Ricera per la Pace di Viterbo, all’indirizzo elettronico: Centro ricerca per la pace di Viterbo
Accademia Apuana della Pace

Tratto da Il dialogo">Il Dialogo



Le banalità dei politici sono un danno colpevole nei confronti del Paese. E i giornali sono i loro divulgatori. Una scuola debole forma un popolo debole

Nikki Bacharach, figlia del famoso compositore, era affetta da una forma di autismo, diagnosticatale dopo la nascita: lo hanno detto i mass media.
Così come il signore de La Palice, nella battaglia di Pavia del 1525, secondo la commemorazione dei suoi soldati, era ancora vivo un quarto d’ora prima di morire.

Una infinità di non-notizie di questo genere costella la giornata di chi legge o ascolta la tv. Sono peggio che stupidaggini, ci disabituano a stare svegli perché scivolano via, penetrando nell’organismo come vi entrano i virus peggiori. Sono un continuo bombardamento antiistruttivo.
Ascoltate la signora Melandri, i vari Cento, Casini, Vito, Rutelli (e altri, naturalmente): sono elaboratori del nulla. Dicono la metà di niente. Il che, per il nostro Parlamento, significa… Il baratro, direte voi. Già, il baratro.

L’istruzione serve a farci parlare correttamente, così da esprimere correttamente il nostro pensiero, le nostre necessità, la nostra disponibilità e nello stesso tempo capire altrettanto correttamente il pensiero, le necessità, la disponibilità di chi ci sta di fronte. Se non ci sappiamo esprimere o ci esprimiamo male non siamo nemmeno in grado di afferrare quello che ci spiega il nostro prossimo.

Noi veniamo istruiti per capirci l’un l’altro, se veniamo de-istruiti non ci capiamo: ci va bene tutto, ci adattiamo a qualsiasi spiegazione, anche se incomprensibile perché falsa. Il nostro cervello si adatta alla banalità e alla confusione. Mancando la chiarezza dei concetti, tende a dimenticare subito quel che ha letto, ascoltato o visto, smette di pensare correttamente, non è più in condizione di fare confronti, viene facilmente distratto da altro. Un individuo che si trovi nel continuo marasma della lingua e delle immagini non impara e non sa più fare confronti. Perde le sue capacità di critica.

L’opinione pubblica formata attraverso questa voluta ignoranza è la base dei regimi autoritari che, una volta consolidati, impongono il loro modo di pensare con un linguaggio chiaro, facile, preciso, ma adattato ai loro scopi: una massa di seguaci, anziché un popolo di esseri pensanti. L’opinione pubblica italiana è già a questo livello? Data la forza smisurata e incontrollabile dei mass media e della propaganda politica che in essi fluisce tra le notizie di cronaca, è utile porsi la domanda.

Il Papa ha parlato dei rischi del gigantismo dei media il 6 gennaio. Intendiamoci, i giornalisti non vogliono deformare, istupidire l’opinione pubblica (talvolta qualcuno lo fa, ma alla fine viene scoperto) con un particolare modo di scrivere. No, quel modo di scrivere e di esprimersi è proprio il loro, è lo stesso di tutti i cittadini che escono dalle nostre scuole.
È la scuola debole che forma cittadini – e quindi anche giornalisti – deboli. Si è mai visto un professore di fisica che va a scuola travestito da arabo, viene filmato e finisce su Internet? Si è mai visto che una classe di dodicenni autoproduce film hard, li mette in circolazione, ma poiché «sono minorenni» non risultano punibili e si pensa che, forse, sono passibili di una sospensione dalla scuola? Ma che vuol dire, forse? Ma che scuole abbiamo? Che generazioni preparano direttori e presidi e professori e maestri che non vedono, non sentono, non parlano? Generazioni di succubi.

E i giornalisti?
Anni fa, un eroe del socialismo moderno, in mezzo a una serie di scandali e di corruttela, inventò per salvarsi «il grande vecchio» detto anche «il burattinaio»: giornali e tv cominciarono a scrivere e a parlare di questa figura senza sapere chi fosse, se nemmeno ci fosse, di quali trame fosse colpevole. Era colpevole di tutte e di nessuna.
Il «grande vecchio» fu una cortina fumogena che durò molti mesi.
Serviva semplicemente ad evitare che i cittadini insistessero sulla giusta strada a cercare la verità.

La deviazione ne provocò altre, un labirinto. La confusione prodotta attraverso i mass media generò curiosità, ansie e aspettative sempre nuove, distogliendo il pubblico dal farsi domande sui reali intenti e sui problemi di quel leader e del suo gruppo che certo non onorava la memoria dei suoi predecessori. La verità avrebbe travolto l’inventore del «grande vecchio» soltanto alcuni anni più tardi, dopo scontri e lacerazioni assai dannosi per il paese. Dopo aver affondato anche il suo partito, l’inventore si autoesiliò in Tunisia.

Questo esempio contribuisce a dimostrare che quando la banalità verbale, le futilità, le frasi di nessun conto ossessivamente ripetute, i falsi in serie, sono utilizzati dal mondo politico o nell’attività sindacale, che è un’altra faccia della politica, i guasti non solo si allargano a macchia d’olio nell’opinione pubblica, ma continuano nel tempo. L’erosione della capacità di pensare autonomamente (fare confronti ragionati tra i vari aspetti della realtà) è invisibile e progressiva.

Mario Pancera Mercoledì, 07 febbraio 2007

Il mio e il nostro: "Il mistero del povero". Dove è il nemico dell'uomo. Rispondono don Milani e don Mazzolari

Don Lorenzo Milani, in un articolo pubblicato sul quindicinale mazzolariano "Adesso" il 15 dicembre 1950, e intitolato "Natale 1950. Per loro non c'era posto", fa un piccolo esame del concetto di "mio". Un chierichetto dodicenne, dopo che il sacerdote aveva spiegato ai fedeli che la società civile avrebbe potuto (anzi, dovuto) distribuire ai senzatetto le case inutilizzate dai loro proprietari, replicò: "No, don Lorenzo, a me la 'un mi torna! Sicché se avessi una casa mia, non potrò buttar fuori chi voglio dalla MIA casa?". E un altro aggiunse: "Se perfino il poppante dice MIO!"

Don Milani conclude: "Già, appunto, è questo. È in quel MIO il mistero del povero che difende il signore. È la bestia uomo che affiora sempre. Grullo che sono stato a sfiduciarmi. E non è sempre così? E non è dentro sempre il Nemico del primo, del secondo, del sesto comandamento? E non è questa la mia, la nostra lotta di sempre?". Le maiuscole e il corsivo sono nell'originale, poi apparso nel volume "Esperienze pastorali". La parola "signore", oggi meno usata, sta naturalmente a significare ricco, padrone, proprietario.

Come mai il povero difende il ricco, il servo difende il "signore"? Per il concetto di proprietà: il mio è mio, non di altri. La casa è mia, la strada è mia, la scuola e il lavoro sono miei, la città è mia, il paese è mio: fuori di qui tutti gli altri, mendicanti, stranieri, pezzenti e così via. La porta è aperta ai ricchi, chiusa ai miseri. I poveri vogliono salire di classe, non scendere: in questo sono uguali ai ricchi. Via i lavavetri, via i venditori di collanine, via chi dorme in baracche, sotto i ponti, tra gli sterpi, il fango, lo sterco, le strade e autostrade di periferia che si intrecciano sopra e sotto: sopra, utili a chi lavora e in qualche modo vive; sotto, utili a chi cerca di sopravvivere - e talvolta, invece, vi muore di miseria.

Questi ultimi sono i miserabili, mentre i poveri sono una sorta di società intermedia tra loro e la borghesia. I poveri trovano difensori, costituiscono una classe sociale, protestano, votano, cercano in qualche modo di difendersi, di uscire dalle ristrettezze. I miserabili, invece, sono niente, peggio di niente: infastidiscono i mercanti, i politici, i borghesi, anche i poveri stessi che si vedono minacciati dal basso.

Dei miserabili non si occupa nessuno (dovrebbe, deve, occuparsene la cristianità, per cui tutti siamo uguali). I poveri vedono nella borghesia il traguardo della loro emancipazione: logico che, all'idea di possedere finalmente una casa propria, dopo tante lotte di genitori, di nonni e di bisnonni, il chierichetto voglia la libertà di difendere la propria casa, da chiunque la minacci. È una sua proprietà, intende disporne come vuole. Il povero, il proletario, tende a diventare borghese; vuol fare un salto di classe. Sente di aver diritto a una vita concreta migliore. Il possesso, il MIO, consacra il suo diritto.

Rivolgendosi a Dio (lui lo chiama il Buon Dio), dopo essersi poste le domande sul Nemico che è dentro l'uomo, don Milani sembra illuminarsi, capisce e, da sacerdote, conclude: "Ora non ho più paura, ho fiducia. Son pochi i cristiani. Qui come in tutto, come nella purezza, come nel perdono. Non importa. Ne abbiamo viste ben altre, vinceremo anche questa col tuo aiuto". Si ponga mente: "col tuo aiuto". Solo così si può, si deve, lottare per vincere cioè per strappare i miserabili dalla strada, dalla droga, dalla fame, dalla delinquenza, dal terrore di essere cacciati ovunque e da chiunque.

Per il suo "Adesso", ormai più di mezzo secolo fa, don Primo Mazzolari ideò da subito una rubrica intitolata: "La parola ai poveri". Rispondeva ai critici che non si parla dei poveri, né ai poveri, né in nome dei poveri: "Dare la parola ai poveri è altra cosa", scriveva sul primo numero del quindicinale, 15 gennaio 1949: "Più facile dare loro una bandiera, una tessera, un canto, un passo, una bomba a mano, un mitra.Più facile dare loro ragione. Non chiedetemi subito perché sia tanto difficile dare la parola ai poveri [.] E vorrei pure pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poveri, chi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore". Non c'è commento, sembra oggi.

Caro presidente Veltroni,

le scrivo perche' ho capito dalle sue scelte, e in particolare dalla candidatura del prefetto Achille Serra alle prossime elezioni, che lei intende affrontare nel prossimo parlamento una questione strategica per il nostro paese: la credibilita' delle forze di polizia, messa in discussione e in parte compromessa da eventi recenti, in particolare i fatti del G8 di Genova del 2001.