Introduzione
Prima di tutto, per parlare di simboli e di dee, dobbiamo metterci d'accordo sui modi e sui termini. Per “modo”, intendo che non mi sarà (ovviamente) possibile essere esaustiva sull'argomento. Il tema è così vasto che neppure se ci incontrassimo dieci o cento o mille volte riusciremmo ad esaurirlo. Perciò ho scelto un percorso, con delle tappe significative, presumendo, nel parlare con voi, che fra di voi ci sia qualcuno che non ha mai sentito menzionare in precedenza tali argomenti. È probabile che non sia vero, ma risponde allo scopo di non lasciare indietro nessuno, che per me è molto importante. Per cui, chi mi sentirà dire cose che già conosce porti pazienza.
Sui termini, le domande sono: cos'è un simbolo, cos'è una dea?
Un simbolo è un mezzo di espressione, un linguaggio. A differenza della metafora o dell'allegoria partecipa direttamente alla realtà che esprime, e con essa eventualmente si trasforma. Un simbolo è raramente “astratto” in senso autentico; il legame che ha con il contesto in cui è nato è un legame che potremmo definire “naturale”, quindi molto concreto, palpabile. Per analogia, pensate al simbolo come al frammento di un ologramma: non è l'ologramma intero, è una sua parte, eppure racchiude in sè tutto il messaggio dell'immagine completa. Questo è il motivo per cui è difficilissimo creare simboli a tavolino.
Concettualmente riusciamo a creare metafore, segni, persino idiomi, ma dire di punto in bianco adesso faccio funzionare questo disegno, o questa immagine, come simbolo (di qualsiasi cosa) e mi aspetto che attraversi le epoche, mantenendo la sua qualità comunicativa, di solito è un'aspettativa un pò esagerata. Perché i simboli hanno questa qualità speciale? Perché concernono il significato delle cose. Agiscono come porte per andare più dentro alla realtà, o come lenti per guardarla più profondamente.
La dea, in molteplici forme, ha funzionato per millenni come rappresentazione multidimensionale della sorgente della vita, dell'inevitabilità della morte e della promessa della rinascita: il tutto all'interno dei grandi cicli ricorrenti della natura. Dalla nostra comparsa sul pianeta Terra, 990.000 anni orsono, non c'è cultura che non abbia prodotto questa rappresentazione e non c'è cultura che a tutt'oggi non ne conservi la memoria. Naturalmente le stratificazioni successive di credenze, mitologie, religioni, sistemi ideologici, hanno modificato la storia della dea e dei suoi simboli. O meglio, hanno modificato il modo in cui la storia viene raccontata. Ma non è solo la coscienza collettiva a conservarne le tracce; in effetti la dea, o le dee, sono rimaste esattamente dov'erano un milione di anni fa, quando le pensammo per la prima volta. Hanno la stessa potenza, la stessa capacità interpretativa e trasformativa: sono dentro ciascun essere umano, donna o uomo. Singolarmente, noi possiamo risvegliare questa consapevolezza oppure lasciarla dormire. Ad ogni modo lavorerà con noi e per noi, di volta in volta offrendoci intuizioni, spingendoci all'empatia, incoraggiandoci alla conoscenza. Perché come vedremo durante il viaggio che cominciamo ora, la dea si incarna, si manifesta, agisce ovunque esistano relazione e connessione: è infatti il centro simbolico di una rete di viventi.
C'era una volta una caverna...
Non so se qualcuno di voi ha visto il film “L'attimo fuggente” e se lo ricorda (in inglese era “Dead Poets Society”, Il gruppo, la società dei poeti morti). Comunque, c'è questa scena che vede un gruppo di studenti radunarsi in una caverna accanto al fiume. Sono studenti privilegiati, frequentano infatti una scuola privata dall'alta reputazione, che però essendo molto irregimentata e rigida nega loro spazi di individualità, il loro proprio sviluppo come individui. Ispirati da un insegnante e dal suo lavoro sulla letteratura, si trovano quindi nella caverna, seduti in cerchio alla luce delle candele. Qui leggono le poesie dei “poeti morti” del titolo originale, e creano la nuova forma della loro esistenza.
All'inizio, la caverna è un posto che fa un pò paura. Andarci è rompere le regole: i ragazzi lasciano le camerate di notte, attraversano un bosco nebbioso ed entrano in una cavità oscura. Che il tutto richiami alla mente un rituale è fin troppo evidente: la “magia” della caverna permette ai ragazzi di affrontare cambiamenti, di sconfiggere le paure e le inibizioni riguardo ai loro talenti; la caverna li fa maturare, permette loro di sviluppare coraggio e stima di sè, e persino di affrontare la morte.
Le caverne, infatti, sono posti che hanno simbolicamente un grande potere trasformativo: entrare in una caverna è entrare in un altro mondo e, allo stesso tempo, è l'andare al cuore delle cose. Noi esseri umani abbiamo, per la maggior parte, perduto la connessione con le nostre origini. Le esperienze che hanno gettato le basi del significato per i nostri linguaggi e per i nostri simboli sono assai remote, distantissime dal tempo presente. La caverna è una di queste esperienze. La caverna entra nella consapevolezza umana praticamente nel momento stesso in cui gli esseri umani cominciano ad essere consci di qualcosa. In quasi ogni luogo del pianeta, noi troviamo i più antichi resti umani nelle caverne o attorno alle caverne. Caverne larghe, aperte, sono case perfette: richiedono pochi adattamenti per essere abitabili, sono tiepide in inverno e fresche d'estate, offrono protezione dal maltempo, e sono praticamente dappertutto. Naturalmente, le caverne primordiali non sono state rifugi solo per uomini e donne ma anche, come al giorno d'oggi, rifugi o tane di animali, dai serpenti agli orsi. Da qui il primo doppio significato della caverna: è accogliente, ma può essere anche pericolosa: un animale disturbato, o aggredito, può ferire e persino uccidere. La caverna, tra l'altro, non è di per sè illuminata, perciò entrarvi significa entrare nell'ombra; simbolicamente, è l'incontro con la parte di noi stessi che rifiutiamo di riconoscere alla luce del sole. Poiché la conoscenza porta inevitabilmente con sè un cambiamento, e noi non sappiamo da prima quanto profondo, quanto vasto, quanto significativo sarà questo cambiamento, ne abbiamo, com'è ovvio, un pò timore.
Nelle caverne abbiamo trovato i resti di cosa i nostri antenati mangiavano, degli attrezzi che costruivano, e le loro sepolture. Uno di questi luoghi si trova in Italia; sono i cosiddetti “Balzi Rossi”, cioè un sistema di grotte dalle parti di Ventimiglia, sul confine italo-francese. In queste caverne vi sono stati insediamenti umani sin dal periodo detto Riss (penultimo glaciale, il che vuol dire 240.000 anni fa). Nelle grotte sono stati trovati resti umani pre-neanderthaliani e Cro-Magnon, migliaia di incisioni rupestri lineari (le linee sono parallele e convergenti, incise profondamente attorno a cavità nella roccia); frammenti di manufatti, ed una quindicina di statuette femminili, alte meno di 7 centimetri, con prominenti seni, pance e glutei; alcune presentano una doppia testa, femminile e animale: vedrete statuette identiche, nel filmato che vi mostrerò più tardi, provenire da tutta l'Europa. Le sepolture rinvenute in questo sistema di grotte mostrano similmente uno schema ripetuto in più luoghi: i morti sono posti in posizione fetale e ricoperti di ocra rossa.
Fra le cose che si trovano frequentemente nelle caverne vi sono dei piccoli piatti di pietra, che servivano a reggere tizzoni incandescenti o qualche tipo di olio o grasso a cui era stato dato fuoco. Sono praticamente le prime lanterne dell'umanità, ed i nostri progenitori se ne servivano per esplorare le grotte in profondità. Andavano in basso, servendosi della luce tremolante di queste fiammelle, attraversavano passaggi stretti e spesso perigliosi, e infine nel profondo della terra incidevano sulle pareti di roccia i loro disegni, che sono spesso di una bellezza incredibile. E noi ci chiediamo: perché rischiavano in questa sorta di labirinti, perché strisciavano attraverso piccoli varchi, superavano strapiombi, seguivano rivi sotterranei, per arrivare a decorare una camera interna con le loro figure e spesso per seppellirvi i loro morti?
C'era forse qualcosa di positivo, di buono, nell'oscurità, e cos'era?
Era il grembo della dea, la dea-terra, la dea-roccia; era il ventre della madre e la tomba-utero, quella in cui i morti vengono appunto sistemati in posizione fetale, e ricoperti di ocra rossa, che riproduce il sangue che accompagna la nascita. È la promessa della rinascita. I nostri antenati ne sono certi. Hanno visto che nessuna specie smette di esistere quando un membro di essa muore; altri individui, altri animali, altre piante continuano a nascere e crescere. Hanno visto che piante ed animali, spariti durante i lunghi inverni del loro tempo, tornano al tornare della primavera. Poiché sono connessi strettamente ai ritmi naturali, in un modo che noi, loro discendenti, riusciamo solo ad immaginare, sanno che anche gli esseri umani tornano. Perciò vanno in fondo, alla sorgente del potere, lontani dalla luce del giorno che segna le attività ordinarie necessarie alla sopravvivenza, e inventano uno spazio sacro in cui celebrano questa conoscenza. In tale spazio disegnano animali e ibridi fra umani e animali, fronde di alberi, danze; disegnano la madre nella sua abbondante fertilità; invocano, da quel corno dell'abbondanza che è appunto il grembo cosmico della dea, il ritorno di esseri umani, di animali e di piante. La dea-terra, la dea-roccia, è per tutti, è madre di tutti, e di ogni cosa è partecipe. I suoi sciamani sono uomini e donne che onorano questo continuo miracolo della fertile vita del pianeta, e lo onorano a partire dalla sua propria origine.
Un simbolo della caverna, che unisce i concetti di rifugio, ventre materno, vulva, tomba e cuore, è per esempio il triangolo dalla punta rivolta verso il basso. Il simbolismo delle grotte ha viaggiato intatto sino ai nostri giorni, continuando a veicolare i medesimi concetti per centinaia di migliaia di anni. Di volta in volta, inserendosi in differenti culture e sistemi spirituali nel mentre essi si formavano, la caverna è stata descritta come l'Uovo Cosmico, come il centro del mondo; come il luogo di incontro tra il divino e l'umano (ed è questo il motivo per cui praticamente tutti gli dei e gli eroi destinati a morire per la loro missione salvifica nascono in una grotta); come il punto in cui si celebrano le “nozze sacre” fra il cielo e la terra (e per estensione fra il re e la regina, fra i talenti e le abilità dell'uomo ed i talenti e le abilità della donna). La caverna è servita ad innumerevoli culti, assai distanti fra loro per tempo e per spazio, come base iniziatica per le cerimonie che prevedono una “morte simbolica” prima della nuova nascita e del ritorno alla luce. La caverna è sempre un interno: entrarvi significa muoversi dentro, verso il cuore, distanti dalla superficie, distanti dalla dispersione. Durante il viaggio nella caverna, noi esseri umani fluiamo come l'acqua in spazi più bassi e li riempiamo di noi stessi. Come l'acqua, siamo attratti gravitazionalmente verso il centro. In tale spazio il nostro sguardo non vaga cercando orizzonti: nel grembo/cuore della caverna siamo tenuti immersi nel corpo della madre, nel corpo della dea-terra. E abbiamo disegnato questo, in forma di simbolo, sulle pareti di roccia, come una spirale il cui movimento va verso l'interno. La conoscenza che abbiamo cercato nelle grotte è di tipo “fusionale”, non lineare, non intellettualizzata: ci siamo immersi nel grembo/cuore della dea-terra per imparare dal contatto diretto, dall'esperienza primaria, dal semplice esistere. E ancora oggi, anche se non siamo mai entrati in una grotta, e non abbiamo mai pensato prima ai suoi possibili significati, ognuno di noi sa cosa significa sapere qualcosa nel proprio cuore, o nel proprio ventre.
Una per tre... uguale Una e Tre.
Durante il periodo detto Paleolitico superiore (25.000/30.000 anni fa), cominciano ad apparire nelle incisioni sulle rocce e nelle figurine delle visioni più articolate della dea. Una di esse è la dea-uccello, dispensatrice di vita e collegata, in modo sorprendente per la nostra moderna interpretazione dei simboli, all'acqua ed al serpente. La dea-uccello è una divinità “umida”: sul suo corpo ibrido fra umano ed animale corrono ripetuti i segni che indicano il movimento dell'acqua, ovvero vari tipi di zig-zag e motivi ad emme o ad esse, ma soprattutto il segno del pube che la identifica come femmina, la V, e lo chevron, che è una V doppia o tripla. Le zampe ed il becco delle statuine (che vengono appunto chiamate “Veneri con il becco”) ricordano sovente uccelli da preda. La dea-uccello ha spesso anche grandi seni in evidenza e, nel periodo in cui lei compare e per moltissimo tempo dopo, le varie culture che la raffigurano usano costruire ciondoli a forma di seni da portare al collo. È come se, cominciando ad uscire dal modulo delle caverne, i nostri progenitori riassemblassero la loro lettura del mondo. Ora vi è un orizzonte, il cielo, e la dea vi si libra in quanto civetta o uccello acquatico: senza acqua non vi è vita, e ancor prima di nascere siamo cullati dalle acque del corpo della madre. La dea-uccello, come dea-rapace, è predatrice: poiché è vita è anche morte, dà e toglie secondo i cicli naturali. Ma la promessa della rinascita è ancora presente: il serpente associato alla dea ne è il chiaro segno. Il serpente muta pelle, sembra morire, ma invece torna alla vita rinnovato e rigenerato. Nelle figure ciò viene rappresentato con un motivo grafico serpeggiante, sovente con 29-30 spire per simboleggiare i giorni del ciclo lunare.
Poco più tardi si svilupperà come dea-serpente autonoma, e quale custode dell'energia vitale e della sua continuità sarà venerata nei santuari domestici: la sua figura ha mani e piedi a forma di serpente, bocca lunga ed occhi rotondi, spire e spirali le corrono sul corpo, e spesso è incoronata.
Sempre durante il Paleolitico superiore, appaiono figure femminili in gruppi di tre, alte fino a mezzo metro. Rispettando le forme naturali della roccia, chi ha disegnato le figure si è limitato a sottolineare pieni e vuoti, facendole semplicemente “emergere” alla vista. La più famosa, probabilmente, di queste figure è quella di Laussel (in Dordogna, nella Francia meridionale); le altre due che la accompagnano incise a breve distanza, forse perché meno rifinite e più danneggiate, non hanno ottenuto la stessa fama. Comunque, si tratta dell'immagine di una donna che indica il proprio grembo e regge in alto un corno di bisonte a forma di luna crescente. Il corno reca tredici tacche, ed è letto dagli studiosi come una sorta di calendario basato sulle fasi lunari e mestruali. La figura, dipinta in ocra rossa, veniva colpita, per la sua posizione, sia dalla luce del sole sia da quella della luna. Gli archeologi hanno ipotizzato che si trattasse di uno “strumento mnemonico”, e cioè un qualcosa che, in termini e in simboli comprensibili a tutti, raccontava una storia e tramite essa dava dei consigli. Innanzitutto, la figura associa una volta di più l'umano e l'animale: la gestazione del bisonte ha la stessa durata di quella umana, nove mesi. L'immagine potrebbe aver suggerito che il periodo in cui i bisonti sono in calore è il migliore per concepire, perché così i piccoli nasceranno in primavera: durante l'era glaciale, partorire in inverno poteva facilmente equivalere alla morte. Una immagine come quella di Laussel poteva rappresentare contemporanemente e senza contraddizione: una grande presenza cosmica, un messaggio sia pratico sia spirituale da parte degli antenati, il legame di parentela fra la comunità umana e quella animale, e quello tra il finito e l'infinito.
La dea triplice, dopo qualche tempo, si staccherà dalla caverna e verrà rappresentata a tutto tondo, arrivando ai periodi delle civiltà greca e romana ed attraversandoli completamente. In Europa abbiamo per lo più collegato la dea triplice alle fasi lunari, ma per esempio la sua immagine nel mondo arabo pre-islamico è una triade composta dalla Stella del Mattino (Venere), dal Sole e dalla Luna. Ad ogni modo, la dea non si presenta con una forma fissa, ma come tre donne in continua trasformazione dall'una all'altra e questo tema è rintracciabile nelle mitologie di tutto il nostro pianeta. Nella prima di queste forme, la forma di sinistra di statue e dipinti, la dea triplice è la Fanciulla, la freschezza dell'inizio, la prima luce dell'alba, la primavera. Corre libera nei boschi, e partecipa della qualità degli animali con cui corre: è gioia se rispettata, è pericolosa se aggredita. La sua luna è la luna crescente. La Madre è la figura centrale della triade, la luna piena: infatti, la Madre è la pienezza. Forma la vita nel proprio grembo, la dà alla luce, la nutre. È potente e realizzata su tutti i piani: mentalmente, spiritualmente e fisicamente. Spesso nelle immagini regge spighe, cesti, frutta, infanti e non cessa di essere in relazione con gli animali, che la affiancano, danzano con lei e l'assistono: quest'ultimo è per esempio il caso dei due leopardi che le fanno da braccioli mentre è seduta su uno scranno da partoriente: si tratta della bellissima statuetta rinvenuta a Catal Huyuk, in Anatolia (Turchia); la statuetta risale a circa 6.000 anni fa. E poi c'è la figura di destra, l'Anziana. L'Anziana regge spesso una torcia o una lanterna: è una viaggiatrice della notte, è allo stesso tempo la soglia dell'altro mondo e la guida nell'altro mondo; ci insegna a non temere la morte, perché ancora ogni morte è una rinascita; è colei che ha la luce per farci strada nel buio, colei che ha visto tutto e la cui compassione per ogni cosa è scevra da illusioni o sentimentalismi. La luna calante è dell'Anziana. Presumo che qualche triade nota vi sia venuta in mente: Persefone, Demetra ed Ecate del mondo greco, oppure le Parche o le Erinni; le tre Brigit del mondo celtico; le Norne della Scandinavia, oppure le Morae romane, che si chiamavano Marantega, Rododesa e Befana (nella mitologia corrente è rimasta solo quest'ultima, ma originariamente erano in tre); tre fate, tre streghe, tre filatrici del fato, sono presenze comuni nelle fiabe di tutto il mondo. Come vi dicevo all'inizio, pur non conoscendo più che sentimenti provassero i nostri antenati al proposito, e pur non provando più il legame vivo con la dea triplice che loro devono aver sperimentato, noi non l'abbiamo affatto dimenticata.
Lei dai mille volti
Nel nostro viaggio il tempo è trascorso: siamo ora nel periodo chiamato Neolitico. I primi segni di quella che viene chiamata la “rivoluzione agricola del Neolitico” datano a 8.000/9.000 anni fa. La rivoluzione agricola è un momento che segna una svolta importantissima per l'umanità, con un progresso enorme delle nostre tecnologie materiali. Le donne e gli uomini che incidevano la roccia erano per lo più nomadi o semi-nomadi, raccoglitori dapprima e raccoglitori-cacciatori poi. Lasciate perdere gli omini barbuti che armati di lance corrono dietro ai dinosauri: la nostra specie, come la nostra dentatura ed il nostro intestino comprovano, è frugivora, non carnivora. Abbiamo cominciato a mangiare carne molto tardi, sullo spettro che ha inizio 990.000 anni orsono, e le “cacce” erano per la maggior parte dirette a soggetti molto più piccoli di un tirannosauro.
Nel Neolitico queste donne e questi uomini si fermano. Hanno appreso a coltivare la terra. Hanno appreso ad allevare animali. Conoscono la metallurgia del rame e dell'oro. Dal sesto millennio, costruiscono ed usano per il commercio barche a vela. Con una disponibilità regolare, e a volte persino eccedente, di cibo, ci fu un aumento di popolazione e sorsero le prime città: in esse vivevano centinaia e persino migliaia di persone, che dissodavano ed irrigavano il terreno. Fioriscono attività come la ceramica, l'intaglio del legno, la produzione di canestri, di tessuti, di gioielli; fioriscono le arti: pittura, modellazione dell'argilla e scultura su pietra. Pare che originariamente, se l'umanità è abbastanza felice ed ha tempo, si dedichi a produrre cose molto migliori delle armi. Per esempio, il pane e la birra sono due ottime invenzioni del Neolitico. In effetti, un'altra immagine che non risponde alla realtà è l'idea che come abbiamo avuto in mano degli attrezzi abbiamo pensato ad affilare punte di lancia come prima scelta. Invece la primissima cosa che abbiamo fatto era una borsa. Un intreccio di fibre vegetali per portarci le noci, le bacche e il nostro marmocchietto, affinché non si mettesse nei guai mentre noi raccoglievamo la cena.
La rivoluzione agricola non poteva non avere influenza anche sul senso del sacro dei nostri antenati ed antenate. L'iniziale metafora della dea-roccia ora non basta più a spiegare il mondo e la nostra presenza in esso, e si evolve in un complesso sistema di simboli e rituali. La dea si differenzia e si specializza, pur continuando a simboleggiare, in ogni sua rappresentazione, un intero ordine cosmico. La dispensatrice di vita che abbiamo conosciuto nel Paleolitico non cessa di esistere: i suoi simboli continuano ad essere presenti nell'arte successiva, ove la dea è collegata alla sua figurazione precedente nella forma di madre-orsa, madre-cerva, madre-bisonte; può ancora essere tonda come la luna piena ed il sole, ma ora è una divinità più collegata al ciclo della vegetazione di quanto lo fosse in precedenza. Le stagioni sono mutate, ed è mutato il comportamento degli animali, a cui siamo ancora legati strettamente da un'affinità empatica. I nostri progenitori, che erano acuti osservatori della natura, avevano probabilmente collegato l'accoppiamento alla gestazione sin dai tempi della donna con il corno di Laussel, ma ora cominciano ad onorare questa conoscenza con la figura del figlio o del fratello della dea, lo spirito della vegetazione che nasce e muore e rinasce.
La dea assume mille volti: è nutrice e madre in statuette con maschera di cinghiale e bimbo nel marsupio; è l'utero rigeneratore come rana e rospo e porcospino, a volte con testa umana, nei santuari e sui vasi (la dea-porcospino come incantesimo di fertilità è stata tramandata sino al ventesimo secolo); come acqua primordiale della vita è un ibrido fra donna e pesce; come rinascita è ape e farfalla, riprodotta nell'atto di uscire da caverne e tombe o dal cranio di un bue (che ha la stessa forma di un utero); gravida, nuda, con la mani sul ventre, viene scolpita sulle piattoforme dei forni: è la madre del grano che abbiamo imparato a coltivare e cucinare. Il suo figlio o compagno è di volta in volta raffigurato come “signore della foresta”, spirito protettore degli animali; come giovane maschio ibridato con un serpente, seguace e aiutante della dea in primavera, quando essa sorge dalla terra; come dio del rinnovamento annuale, seduto in atteggiamento pensoso o triste, poiché simboleggia il difficile passaggio morte/rinascita, a volte con una maschera di capro o di uccello. Tutto questo immaginario, per quante distruzioni, invasioni e negazioni abbia dovuto sopportare, non è mai stato del tutto sopprimibile. Noi sappiamo razionalmente, grazie alle prove storiche ed archeologiche, che un tempo, nell'antica Europa ed in altri luoghi, abbiamo vissuto esistenze pacifiche, in società umane egualitarie, pensandoci parte di una rete di relazioni vive e sacre. Ma la cosa forse più importante è che questo lo sappiamo anche a livello non razionale. Questo opera la potenza dei simboli. È quel moto del cuore che ci unisce al di là delle differenti opinioni o ideologie, quando pensiamo che la pace è migliore della guerra, che la violenza è un brutto modo di maneggiare i conflitti, che le altre creature che abitano il pianeta ci sono affini e meritano considerazione, che desideriamo ricevere e dare rispetto dagli altri membri della nostra comunità umana, che ogni bambina o bambino ha per diritto di nascita il ricevere il benvenuto, l'affetto e le cure degli adulti che ha intorno. Quando pensiamo alla grazia della vita, e alla vita come grazia, la dea è con noi.
La grazia della vita
“La grazia della vita” è uno dei modi in cui archeologi e storici hanno tentato di descrivere la civiltà cretese. A Creta gli archeologi scavano per cinquant'anni, portando alla luce grandi palazzi a più piani, ville, poderi colonici, aree urbane, installazioni portuali, reti di strade che collegavano l'isola da un capo all'altro, luoghi di culto e cimiteri. Scoprono anche ben quattro tipi di scrittura: geroglifica, proto-lineare, lineare A e lineare B. Voi sapete che quando c'è la scrittura gli studiosi non parlano più di preistoria, che è ciò di cui abbiamo parlato noi sino ad ora. Con Creta, nel nostro viaggio, siamo arrivati alla storia. È una storia che comincia attorno al 6.000 avanti Cristo, quando sulle spiagge dell'isola approda una piccola colonia di migranti, probabilmente provenienti dall'Anatolia. Portavano con sè la dea e la tecnologia agricola del periodo Neolitico. Per 4.000 anni elaborano e sviluppano la produzione di vasellame, la tessitura, l'architettura e soprattutto l'arte: i loro dipinti, raffinati, coloratissimi e allegri, sono qualcosa di davvero unico in quel periodo. Quando arriviamo al 2.000 avanti Cristo, nell'età del Bronzo avanzata, il resto del mondo ha già rimpiazzato le varie raffigurazioni della dea con divinità maschili, per lo più bellicose e spesso terribili. Lei dai mille nomi, dai mille volti, non è scomparsa: sarebbe difficile estirpare Iside dall'Egitto o Ishtar da Babilonia dopo che per migliaia di anni hanno rappresentato il senso stesso dell'esistenza; per cui le dee sono ancora venerate, ma come divinità secondarie, consorti o madri di dei più potenti di loro. Questo accade, essenzialmente, perché ci troviamo in un momento in cui sullo scenario hanno fatto la loro comparsa le guerre di conquista o di contro-offensiva. Nell'isola di Creta non c'è traccia di guerra. Le città non hanno fortificazioni militari. Sebbene in questo periodo comincino a produrre armi non le usano per combattersi da città a città: le daghe sono portate per lo più dai marinai della grande flotta commerciale cretese, che devono vedersela con i pirati del Mediterraneo. Da nessuna parte dipingono guerrieri o scene di battaglia; non usano la scrittura per registrare le gesta eroiche di sovrani o generali. Gli affreschi mostrano piuttosto pernici e grifoni multicolori, file di donne eleganti e sorridenti che danzano, giovinetti ugualmente lieti e adornati da vesti sgargianti e gioielli; e la dea e le sue sacerdotesse. La figura, in statue e dipinti o incisioni sulle tombe, sta al centro di processioni di uomini, donne e animali, e le benedice con le braccia aperte; oppure regge serpenti, o la doppia ascia (che non è uno strumento di offesa: ha la medesima forma dell'attrezzo con cui i cretesi dissodavano la terra; è un triangolo doppio, di cui sappiamo il significato simbolico). Anche la dea di Creta potrete vederla fra poco nel filmato.
Finché non decifreremo la scrittura lineare A, non sapremo con certezza il suo nome cretese originario (o i suoi nomi); ma poiché la scrittura lineare B è contaminata dal greco e leggibile, sappiamo come venne chiamata dopo: il nome principale è Po-ti-ni-ja o Potnia, che significa semplicemente “signora”, accoppiato a varie specificazioni non tutte comprensibili, probabilmente collegate a luoghi di culto. Per dire: la signora del tal posto. Di certo è: Da-puri to-jo potinija, che vuol dire “La signora del labirinto”, e sul labirinto tornerò tra poco. Nelle tavolette del lineare B di Pylos viene anche definita Mater theia, dea madre.
A Creta ci troviamo, per dirla con le parole dell'archeologo Platon, che se ne occupò per mezzo secolo, in un ordinamento sociale in cui: “la paura della morte era quasi cancellata dall'onnipresente gioia di vivere”. E neppure quando l'isola, nel quindicesimo secolo avanti Cristo, finisce sotto il dominio acheo, la cultura e lo stile di vita basati sul culto della dea presentano differenze significative. Tutta la vita continua ad essere permeata da una fede ardente nella “signora” della natura, sorgente di ogni cosa creata e dell'armonia tra le cose. È la madre dell'universo, che si manifesta negli esseri umani, negli animali, nelle piante, nell'acqua e nel cielo.
Il tenore di vita medio, compreso quello dei semplici contadini, continua ad essere alto: nessuna delle case scoperte può essere definita misera, e persino le semplici abitazioni dei villaggi presentano decorazioni su pareti e pavimenti e soffitti, giardini, impianti sanitari con collegamento alla rete di fognature e di distribuzione dell'acqua. Insomma, la classe dirigente dell'epoca, certamente opulenta e fornita di privilegi come in tutte le altre civiltà contemporanee, non ritiene che sia necessario brutalizzare o sfruttare gli altri esseri umani. L'ambizione personale sembra un dato assente nei governanti come nel popolo: per esempio, nessun'opera d'arte, in una civiltà che ne produce e ne fruisce grandemente, porta il nome di un'autrice o di un autore. Dal grande palazzo di Cnosso alle abitazioni delle città o delle campagne, l'architettura minoica ruota attorno al principio di collegare la natura alle costruzioni artificiali, di modo che tutte le persone possano godere di questo intimo contatto. L'abbigliamento cretese è “sensuale”, scopre o sottolinea il seno nelle donne, è succinto ed evidenzia i genitali negli uomini, mostrando un sincero apprezzamento delle differenze sessuali e del piacere che esse rendono possibile. Gli studiosi parlano esplicitamente di un “vincolo del piacere”, un atteggiamento spontaneo e disinvolto nei confronti del sesso, che deve aver consolidato un senso di reciprocità tra uomini e donne in quanto individui. L'abbigliamento era anche studiato per unire l'effetto estetico alla praticità, lasciando libertà di movimento ad uomini e donne, che spesso erano impegnati in danze e competizioni sportive. Frequenti erano infatti le cerimonie pubbliche, soprattutto religiose (perché a Creta la religione è una faccenda lieta), accompagnate da banchetti, processioni e dimostrazioni acrobatiche: fra cui quelle assai celebri del salto sul toro che hanno ispirato la leggende molto più tarde di Teseo e Arianna e del rapimento di Europa.
Il labirinto
Nei palazzi cretesi vi erano ampi cortili, facciate maestose, e centinaia di stanze disposte in quei “labirinti” organizzati che divennero in seguito il suo simbolo. In questi edifici labirintici c'erano diversi appartamenti collocati su numerosi piani, ad altezze differenti, disposti in modo asimmetrico attorno ad un cortile centrale: c'erano stanze per il culto religioso, alloggi, lunghe file di ripostigli con corridoi comunicanti, ampie sale per le riunioni e così via. Le danze acrobatiche con il toro avvenivano nei grandi cortili dei palazzi (quindi al centro del labirinto): giovani donne e giovani uomini lavoravano in squadra, cercando a turno di afferrare le corna di un toro alla carica e di fare una capriola sulla sua schiena. La prima cosa che si nota, e che si differenzia completamente dalle altre società umane dell'epoca, è l'associazione paritaria fra maschi e femmine, che insieme si esibiscono e collaborano. È importante ricordare che questi rituali combinano eccitazione, tifo, abilità individuali e collettive, e fervore spirituale: invocano la potenza divina affinché porti benessere alla società nel suo insieme. Poiché anche la dea è ritratta nell'atto di guidare il toro tenendolo per le corna, il primo messaggio dell'immagine, il più ovvio è: la forza, la forza bruta e cieca della carica, va controllata. Ma il toro è pure associato alla terra fertile, alla luna e al sole, all'utero della dea, da tempi immemorabili, e transiterà nelle culture successive in svariatissime forme, dall'ibrido fra uomo e toro (che ispirerà più tardi il Minotauro) che come guardiano di un centro, di un tesoro o di soglie protegge ed allontana il male, fino alla comparsa di veri e propri dei in spoglie di toro o dalla testa di toro, dall'egiziano Api al sumerico dio lunare Sin, dal dio solare ittita Teshub allo Zeus trasformato, eccetera.
Quindi, vi devono essere moltiplici significati nelle danze con il toro cretesi; le danze contengono per esempio un elemento reale di rischio, una sorta di ammonimento sulla potenza anche distruttiva della natura: e difatti Creta fu soggetta a diversi terremoti e fu probabilmente una combinazione fra un terremoto ed un maremoto a distruggerla completamente. Contengono anche l'associazione fra umano e animale tipica della spiritualità della dea, e in più si svolgono al centro di una sorta di labirinto, il che è particolarmente interessante perché chiude in qualche modo il cerchio del nostro discorso, iniziato con una caverna.
Il labirinto, per come lo vediamo oggi, è un simbolo decisamente complesso. Può essere uno schema, un edificio, un percorso aperto; può essere racchiuso da terrapieni o siepi, o trovarsi sotto terra. I labirinti sono per lo più di due tipi: quelli ad un solo percorso, in cui una singola strada porta diretta al centro e poi si allontana da esso, oppure quelli a più percorsi, progettati con l'intenzione di disorientare chi li affronta, che contengono vicoli ciechi e che possono essere risolti solo se si conosce la “chiave”, la soluzione del problema. Viene a volte interpretato come il percorso del sole, e la sua liberazione dall'inverno alla fine del percorso. I labirinti disegnati nelle chiese cristiane probabilmente rappresentavano pellegrinaggi. Nelle leggende e nelle fiabe spesso il labirinto è custodito da una donna, e vi è un uomo che lo percorre. Ma cos'era per Creta? A Creta il labirinto aveva sostituito, o affiancato, nel simbolismo la caverna. È il corpo della Madre Terra. Andare al suo centro significa tornare alla matrice ed essere infusi dal sapere della matrice stessa. Il labirinto, disegnato in una linea continua, è un'eternità in perenne movimento. All'interno di questa eternità mobile vi è il viaggio dalla nascita alla morte, dalla morte alla rinascita, l'affondare e il risalire, l'entrare e l'uscire. I vari tipi di tombe, caverne funerarie e tumuli a forma di labirinto esprimono essenzialmente questo concetto.
Naturalmente, il viaggio nel labirinto è sempre un viaggio che presenta delle difficoltà. Quando arrivi al centro, e danzi con il toro, ti aspetta la prova più dura: devi riconoscere la tua affinità con tutto ciò che vive, devi riconoscere come tuoi anche i lati spiacevoli che l'ordine naturale può presentare ad un essere umano, e devi saperli accettare e controllare. Questo è il messaggio che la dea, la madre, quell'una che è tre e che è molte, ti manda di continuo: non sei solo, non sei sola. Io, e tutto ciò che vive, siamo parte di te. La dea sei tu.
Fonte: Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo