«Non complici»: ma perché parlarne oggi nell’inferno delle corruzioni e delle guerre?
di Mario Pancera
Lo scrittore socialista statunitense Upton Sinclair (1868-1958), difensore dei diritti dei lavoratori, difensore degli anarchici Sacco e Vanzetti (che si erano sempre dichiarati innocenti degli omicidi loro imputati), in una parola, sempre sostenitore di coloro che difendevano la libertà di esistere liberi, ha scritto: «È difficile far capire qualcosa a una persona il cui salario dipende dalla sua capacità di non capirlo». Trovo questa sua frase per caso, ma mi sembra degna di nota: la prima parte riguarda coloro che sanno qualcosa e si adoperano per insegnarlo ai più deboli; la seconda riguarda i deboli, i bisognosi, che vengono tenuti in tale stato con un lavoro salariato e precario ai livelli sempre più bassi. Questi ultimi sono i più poveri tra i poveri, come diceva don Milani: oltre ad essere al limite della sopravvivenza, non sanno né come esprimersi né come difendersi: gli manca perfino la parola.
La libertà di esistere liberi: significa di poter vivere delle proprie capacità, del proprio lavoro, della propria volontà di essere alla pari in una società viva e aperta. Un povero non è libero, ha sempre bisogno di un «padrone»: questa è l’idea che gli viene inculcata. Se ne può liberare soltanto rivoluzionando la società, organizzata in classi in modo da opprimerlo. Questo è uno degli insegnamenti della storia. Chi vuole evitare le rivoluzioni, e tuttavia si batte per stabilire un minimo di uguaglianza tra gli esseri umani, ha una vita difficile. In poche parole, i ricchi lo odiano, i poveri spesso non lo capiscono. Sinclair si è occupato del proletariato, degli sfruttatori del carbone e del petrolio, delle miserabili condizioni dei lavoratori delle metropoli, dei fatti e misfatti del giornalismo: novant’anni di vita spesi per aiutare gli altri.
In certo modo, questo tipo di vita inquieta e inquietante, impegnata con le parole e con i fatti, sempre temuta dai detentori del potere, è assai simile a quella di Giuseppe Gozzini (1936-2010), il primo obiettore di coscienza cattolico. Dopo di lui, nella coscienza degli italiani c’è stata una frana: si è capito che, cristiani o non, occorreva mettere un freno alla chiamata alle armi. Naturalmente non è stato il solo, ma è stato ed è ancora uno degli esempi del desiderio di libertà e di pace (di fraternità) diffuso tra i cittadini delle più diverse idee religiose e politiche, delle varie classi sociali.
È uscito ora un libro che raccoglie suoi scritti e pensieri, una specie di vita vista dal di dentro, quasi un’autobiografia interiore basata sui fatti di cronaca pubblica da lui vissuti, più volte anche tra i protagonisti. Il titolo è fondamentale: «Non complice», dice tutto. Pensiamo: «Non complice». Il sottotitolo è «Storia di un obiettore», a cura di Piero Scaramucci e Letizia Gozzini, ovvero una sua figlia e un suo amico giornalista (Edizioni dell’Asino, euro 15). Sono pagine da leggere con attenzione, andando a esaminare, di volta in volta, gli avvenimenti che le hanno originate.
Gozzini, pur essendo sempre presente nei momenti topici, avendo fatto e scritto cose importanti, è sempre stato figura discreta. Penso che moltissimi lo conoscessero senza sapere chi fosse: avessero fiducia nel suo esempio e nelle sue parole tra i cristiani, gli atei, i comunisti, gli anarchici, che egli difese sempre (ricordiamo, per tutti, il caso Pinelli). Si potrebbero fare decine di citazioni, ma il libro va letto e meditato: è un esempio di vita per gli altri. Giuseppe Gozzini è da studiare, in questo senso, come Upton Sinclair. Uno che ha dato.
Mario Pancera
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Gozzini come Sinclair: una vità per la libertà
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