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Vergogna e genocidio. Considerazioni di un contestatore

Mercoledì Antonio Tajani teneva un incontro pubblico a Marina di Pietrasanta, e davanti alla Versiliana era stato convocato un presidio di attivisti per la Palestina. Mi è accaduto di averlo davanti, circondato dai cronisti, e non ho potuto fare a meno di dirgli queste parole: «Siete complici del genocidio. Vergognatevi». Giusto queste poche parole, poi sono stato allontanato dalla polizia. L’ho fatto da attivista, e l’ho fatto come avrebbe potuto farlo chiunque. Una cosa semplice, ma che è bastata a far sì che il video diffuso avesse migliaia di visualizzazioni, e centinaia di commenti di persone che mi ringraziavano dicendo «l’hai detto anche per me». Un segno del senso di impotenza in cui ci sentiamo catturati di fronte al genocidio in corso: di fronte ad esso, la necessità vitale della presa di parola, di mettere chi è al governo di fronte alle proprie reali responsabilità – che sono responsabilità etiche.

Di fronte alla mie poche parole, il ministro Tajani è stato chiamato a rispondere sulla questione del genocidio da un giornalista. Ha detto che no, giuridicamente non è un genocidio. Sì, ci sono cose inaccettabili, ma per mettere fine alla «guerra» (come ci fossero due eserciti a confrontarsi) Hamas deve rilasciare gli ostaggi. Insomma siamo alle solite. Ora, lasciamo da parte la questione del genocidio, per quanto tale esso sia stando alla definizione di Lemkin, ovvero un «piano coordinato di differenti azioni mirante alla distruzione dei fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’intento di annientarli», cosa che evidentemente sta accadendo nelle terre palestinesi da molto tempo, come riconosciuto ormai da studiosi del genocidio, uno per tutti Omer Bartov.

Ma in quelle poche parole che io ho detto a Tajani non c’era solo il concetto di genocidio. Prima di questo, c’era una posizione etica, espressa dai concetti di vergogna e di complicità. La mia non era la chiamata a una presa di posizione giuridica, pure evidentemente decisiva. Prima di questa, c’è una chiamata etica – quella chiamata che investe, sempre, ciascuno di noi. Ed a questo il ministro degli esteri non ha risposto, non poteva rispondere.

La complicità, anzitutto. Sei complice di un evento – anche se non lo vuoi chiamare genocidio -, per quello che hai fatto e detto, e per quello che non fai e non dici. Essere complice, ovvero, etimologicamente, essere intrecciato nella medesima trama, dove il disegno «complessivo» è tale proprio perché tu ne sei parte. Nella fattispecie, ne fai parte perché da sempre sostieni incondizionatamente Israele nella sua politica nei territori occupati, ciò che è il retroterra storico-politico che ha reso possibile quello che sta accadendo, e ciò senza di cui non lo si può comprendere. Quel sostegno è parte integrante del crimine che adesso pure loro non riescono a negare. Ma lo negano, negando la propria complicità, rifiutandosi di vedere il disegno complessivo

Non si può affrontare con serietà etica quel che accade senza andare alla radice storico-politica della questione, ovvero mettendo in questione l’occupazione dei territori, intensificata con un progetto di sottomissione e cancellazione dei palestinesi con la politica delle colonie di Netanyahu, nel contesto della fondazione dell’Eretz Israel. E forse è proprio questo il punto: non si vuole parlare di genocidio perché non si ha il coraggio di andare alla radice della questione, e affrontare la propria complicità.

E poi, la vergogna, che è un concetto multiforme. C’è una vergogna moralista, disciplinare, quella di chi vorrebbe ripristinare il pudore di una società ordinata ed edipica; c’è una vergogna ipermoderna, quella che incombe su chi si struttura nella presente società performativa e narcisica, la vergogna prestazionale per non essere abbastanza di fronte allo sguardo dell’altro che ti misura e ti valuta; e poi c’è una vergogna etica. Quella che chiama alla responsabilità del legame con l’altro, che ci impone di rispondere alla chiamata, all’appello che viene dal volto dell’altro. Quella «vergogna del mondo», come ha scritto Frédéric Gros citando Premi Levi, che accade «quando ci si vergogna per l’altro, che si tratti di un umiliato – in questo caso è in lui che sentiamo la terribile sofferenza – oppure dell’umiliatore sfacciato che ci costringe a vergognarci in sua vece, poiché lui non prova nessuna vergogna».

Ecco, è questa vergogna che manca, è questa vergogna ciò di cui abbiamo bisogno. Di essa «non c’è modo di liberarsene, checché ne dicano i manager dell’anima: la si può soltanto trasformare, dandole la forma della rabbia».

Fonte: Il Manifesto dell'8 agosto 2025 - https://ilmanifesto.it/

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