Per cosa mio figlio va a morire? il linguaggio semplice delle madri statunitensi
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Tratto da La domenica della nonviolenza, n. 111 del 13 maggio 2007
di Maria G. Di Rienzo
Una tradizione di madri Pochi sanno che la "festa della mamma" fu stabilita come ricorrenza di protesta dopo la Guerra Civile negli Usa, da parte di madri che avevano perduto i loro figli nella carneficina della guerra. Ma molti gruppi di donne pacifiste americane riconoscono quale loro ispiratrice colei che pubblicamente sostenne questa idea e che scrisse il "Proclama del Giorno della Madre" nel 1870: Julia Ward Howe.
Nel Proclama si legge, tra l'altro: "Non permetteremo che le grandi questioni siano decise da forze non pertinenti. I nostri mariti non torneranno da noi con addosso la puzza del massacro, per ricevere carezze ed applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti affinché disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro sulla carità, la pietà e la pazienza. Noi donne di una nazione proviamo troppa tenerezza per le donne di una qualsiasi altra nazione, per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro".
La dichiarazione di Julia Ward Howe chiede inoltre un consiglio internazionale delle donne, un congresso generale senza limiti di nazionalità, che proponga mezzi con cui "la grande famiglia umana possa vivere in pace" e promuova l'alleanza fra differenti nazioni e la risoluzione amichevole delle questioni internazionali.
Numerose madri attiviste statunitensi hanno trovato una leader ed una nuova ispiratrice in Cindy Sheehan, il cui figlio è morto in Iraq, e che ha passato l'agosto scorso fuori dal ranch del presidente Bush per chiedergli spiegazioni al proposito. Una donna "sola", priva del sostegno di associazioni o partiti, forte unicamente della propria determinazione, ha portato con sè 100.000 sostenitori a Washington, nel settembre 2005, e scosso l'intera nazione. Una donna con una domanda semplicissima, amplificata ormai da un coro di migliaia e migliaia di altre voci: "Qual è la nobile causa per cui mio figlio è morto?".
"La logica suggerirebbe", disse Swanee Hunt durante un incontro internazionale di pacifiste nel 2003, "che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio.
Ma invece scopriamo che queste donne dicono: Ciò che è accaduto a me non deve più accadere a nessun'altra, perché io so quanto è terribile, e cosa si prova. Perciò, per favore, non compatite queste donne. Queste donne sono giganti. Sono donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno".
di Maria G. Di Rienzo
Una tradizione di madri Pochi sanno che la "festa della mamma" fu stabilita come ricorrenza di protesta dopo la Guerra Civile negli Usa, da parte di madri che avevano perduto i loro figli nella carneficina della guerra. Ma molti gruppi di donne pacifiste americane riconoscono quale loro ispiratrice colei che pubblicamente sostenne questa idea e che scrisse il "Proclama del Giorno della Madre" nel 1870: Julia Ward Howe.
Nel Proclama si legge, tra l'altro: "Non permetteremo che le grandi questioni siano decise da forze non pertinenti. I nostri mariti non torneranno da noi con addosso la puzza del massacro, per ricevere carezze ed applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti affinché disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro sulla carità, la pietà e la pazienza. Noi donne di una nazione proviamo troppa tenerezza per le donne di una qualsiasi altra nazione, per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro".
La dichiarazione di Julia Ward Howe chiede inoltre un consiglio internazionale delle donne, un congresso generale senza limiti di nazionalità, che proponga mezzi con cui "la grande famiglia umana possa vivere in pace" e promuova l'alleanza fra differenti nazioni e la risoluzione amichevole delle questioni internazionali.
Numerose madri attiviste statunitensi hanno trovato una leader ed una nuova ispiratrice in Cindy Sheehan, il cui figlio è morto in Iraq, e che ha passato l'agosto scorso fuori dal ranch del presidente Bush per chiedergli spiegazioni al proposito. Una donna "sola", priva del sostegno di associazioni o partiti, forte unicamente della propria determinazione, ha portato con sè 100.000 sostenitori a Washington, nel settembre 2005, e scosso l'intera nazione. Una donna con una domanda semplicissima, amplificata ormai da un coro di migliaia e migliaia di altre voci: "Qual è la nobile causa per cui mio figlio è morto?".
"La logica suggerirebbe", disse Swanee Hunt durante un incontro internazionale di pacifiste nel 2003, "che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio.
Ma invece scopriamo che queste donne dicono: Ciò che è accaduto a me non deve più accadere a nessun'altra, perché io so quanto è terribile, e cosa si prova. Perciò, per favore, non compatite queste donne. Queste donne sono giganti. Sono donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno".
Donne in Iraq (Natasha Walzer)
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Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006
(Traduzione di Maria G. Di Rienzo dell'articolo pubblicato su "The Guardian)
Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di esse è diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su ciò che le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, è una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell'assediata città di Qaim. Non è sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell'ospedale in cui lavora, è chiaro contro quali difficoltà stia lottando.
Non è usuale che sia dia uno sguardo più da vicino a cosa accade alle donne in città come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali è severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realtà grazie ad una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verità delle vite delle sue connazionali.
(Traduzione di Maria G. Di Rienzo dell'articolo pubblicato su "The Guardian)
Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di esse è diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su ciò che le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, è una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell'assediata città di Qaim. Non è sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell'ospedale in cui lavora, è chiaro contro quali difficoltà stia lottando.
Non è usuale che sia dia uno sguardo più da vicino a cosa accade alle donne in città come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali è severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realtà grazie ad una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verità delle vite delle sue connazionali.
Guerre (Rossana Rossanda)
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Tratto dal n. 1330 del 18 giugno di La nonviolenza è in cammino, pubblicato sul quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2006.
Il ritiro italiano dall'Iraq era stato promesso da Prodi ed era la logica conseguenza del giudizio dato sulla guerra di Bush: una guerra sbagliata.
Che il ritiro fosse condizionato a tempi tecnici - manifestamente non solo l'allestimento dei camion o degli aerei - era per non somigliare a Zapatero; piccola viltà ma pazienza. Senonché il tempo passa e i "tempi tecnici" si prolungano, col governo iracheno, con gli umori della coalizione e con quelli di Bush. Non irritare Bush, invocano Prodi e D'Alema. Andarsene ma piano e in punta di piedi. Per ora la brigata Sassari è stata sostituita dalla Garibaldi a ranghi ridotti. Il resto si vedrà dopo, in agosto o a ottobre o entro la fine dell'anno. Ma anche Berlusconi prevedeva di andarsene entro l'anno. E, un giorno sì e un altro no, un ritiro lo ventila lo stesso Bush. L'ideale del nostro governo sembra, diciamo la verità, poter andarsene con la sua benedizione, invece che con l'iraconda battuta di Donald Rumsfeld: "E se ne vadano, non cambia niente". Infatti, non siamo mai stati decisivi militarmente, ma qualcuno dei nostri militari ci ha lasciato la vita. E decisivi eravamo per coprire l'unilateralismo degli Usa. Questo è stato grave, e a questo ci si aspetta che il nuovo governo metta fine in modo netto.
Il ritiro italiano dall'Iraq era stato promesso da Prodi ed era la logica conseguenza del giudizio dato sulla guerra di Bush: una guerra sbagliata.
Che il ritiro fosse condizionato a tempi tecnici - manifestamente non solo l'allestimento dei camion o degli aerei - era per non somigliare a Zapatero; piccola viltà ma pazienza. Senonché il tempo passa e i "tempi tecnici" si prolungano, col governo iracheno, con gli umori della coalizione e con quelli di Bush. Non irritare Bush, invocano Prodi e D'Alema. Andarsene ma piano e in punta di piedi. Per ora la brigata Sassari è stata sostituita dalla Garibaldi a ranghi ridotti. Il resto si vedrà dopo, in agosto o a ottobre o entro la fine dell'anno. Ma anche Berlusconi prevedeva di andarsene entro l'anno. E, un giorno sì e un altro no, un ritiro lo ventila lo stesso Bush. L'ideale del nostro governo sembra, diciamo la verità, poter andarsene con la sua benedizione, invece che con l'iraconda battuta di Donald Rumsfeld: "E se ne vadano, non cambia niente". Infatti, non siamo mai stati decisivi militarmente, ma qualcuno dei nostri militari ci ha lasciato la vita. E decisivi eravamo per coprire l'unilateralismo degli Usa. Questo è stato grave, e a questo ci si aspetta che il nuovo governo metta fine in modo netto.
Afghanistan, che fare? (Sergio Baronetto)
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Tratto dal n. 1330 del 18 giugno di La nonviolenza è in cammino
Leggo dell'ipotesi di mandare più soldati in Afghanistan. Secondo il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell'aeronautica, sei aerei Amx sono pronti a partire. L'idea mi sembra non solo incoerente con il programma della coalizione politica oggi al governo ma anche del tutto controproducente proprio ai fini della lotta al terrorismo e del ripristino della democrazia.
Leggo dell'ipotesi di mandare più soldati in Afghanistan. Secondo il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell'aeronautica, sei aerei Amx sono pronti a partire. L'idea mi sembra non solo incoerente con il programma della coalizione politica oggi al governo ma anche del tutto controproducente proprio ai fini della lotta al terrorismo e del ripristino della democrazia.
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