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(Traduzione di Maria Di Rienzo e tratto da “La nonviolenza è in cammino”, n. 1363 del 20 luglio 2006)

Nella gran mole di servizi giornalistici sulla più recente crisi in Medio Oriente ce ne sono un paio scarsamente posti in rilievo, che mettono in luce le azioni di alcune donne in Israele.
Stante il fatto che si tratta di un atto di considerevole coraggio, protestare nelle strade mentre i loro concittadini sono in armi, so che i sentimenti di questa manciata di dimostranti sono condivisi da molte altre donne israeliane e palestinesi che semplicemente non possono essere lì.
Negli ultimi trent'anni, per raccontare il Medio Oriente, ho parlato con moltissime donne (israeliane, palestinesi, arabe, ricche, povere) che non hanno fatto altro che dirmi quanto soffrissero per il numero apparentemente infinito di guerre nella loro regione.
Tamara Traubman e Ruth Sinai-Heruti, entrambe croniste del quotidiano israeliano "Haaretz", hanno concluso il loro articolo del 17 luglio scorso con queste frasi: "Più di 500 donne protestano a Tel Aviv contro i raid israeliani in Libano e a Gaza. Una dimostrazione di donne si è tenuta anche domenica mattina, accanto alla stazione ferroviaria centrale di Haifa, dove un missile di Hezbollah aveva colpito nelle prime ore della giornata, uccidendo otto persone". Le donne, aggiungono le giornaliste, "hanno dichiarato di star organizzando un nuovo gruppo di donne arabe ed ebree contro la guerra".
Rory McCarthy del britannico "Guardian", in una corrispondenza dello stesso giorno da Israele nota che: "Mentre le sirene continuano ad urlare, un piccolo gruppo di donne sosta davanti all'ingresso della stazione ferroviaria protestando contro gli scontri. Yana Knoboba, venticinquenne studentessa di psicologia, siede per terra tenendo un cartello con sopra scritto in ebraico: La guerra non porterà mai la pace. "Non vogliamo la guerra in Medio Oriente", dice Knoboba, "Vogliamo che Israele negozi per riportare a casa i nostri soldati e metta fine alla rioccupazione di Gaza.
Se è una questione in cui si deve dimostrare la propria forza, io penso che la forza sia costruire la pace, non fare la guerra".

Tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006

L'operazione militare israeliana "Piogge d'estate" ha riportato la guerra nella Striscia di Gaza e in Libano; a conferma che la guerra sembra sia diventata l'unico modo di affrontare le questioni internazionali. Ci sarebbero stati altri modi di rispondere al lancio di missili degli hezbollah, senza bisogno di polverizzare il Libano. Del resto, si può scatenare l'inferno sull'intera e indifesa popolazione civile del Libano per due soldati quando Israele da anni sequestra i palestinesi a migliaia, senza che nessuno apra bocca? Ancora una volta, percio', viene premiata la forza a scapito del diritto e della legalità internazionale, e di nuovo si paralizzano le Nazioni Unite, alle quali viene consentita solamente la legittimazione della guerra e non la sua prevenzione.
In realtà è stato raggiunto un accordo tra Stati Uniti e Francia su una risoluzione dell'Onu per la fine delle ostilità, ma senza una tregua; in pratica lascia ad Israele il tempo per "completare il lavoro". Così l'invio di una eventuale e futura forza multinazionale o internazionale di pace, (quella cui l'Italia ha detto di essere pronta a partecipare), rischia di diventare come la Nato in Afghanistan, in funzione esclusivamente anti-hezbollah (e anche anti-Siria).
Come non vedere che la quarantennale occupazione israeliana della Palestina costituisce la vera aggressione che impedirà sempre un qualsiasi accordo di cessazione delle ostilità o tregua o cessate il fuoco: in una parola, una pace minimamente equa e, quella sì, duratura?
Intanto l'uccisione di dieci o venti palestinesi al giorno, e fra questi donne e bambini, non scuote nessuno. Naturalmente il ministro della difesa israeliano ha rassicurato e tranquillizzato l'opinione pubblica internazionale informando che le sue truppe aprono il fuoco solo contro i palestinesi armati.

Articolo di Brenda Gazzar, giornalista indipendente, vive a Gerusalemme ed è corrispondente per "We News", tradotto da Maria Di Rienzo, tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006

Haifa, Israele. Nelle ultime settimane, Abir Kopty e Hannah Safran hanno protestato praticamente ogni giorno contro il conflitto in Libano e a Gaza.
Persino quando le temute sirene suonano, avvisando degli attacchi missilistici di Hezbollah, Abir Kopty, un'araba israeliana, e Hannah Safran, un'ebrea israeliana, restano sulle strade di questa città del nord, non lontana dal confine libanese, per chiedere al loro governo di fermare la guerra, di intraprendere negoziati e di scambiare i prigionieri.
Fondatrici di "Donne contro la guerra", gruppo che si è formato pochi giorni dopo l'inizio del conflitto tra Israele ed Hezbollah, le due pacifiste di lunga data fanno parte delle donne che tentano di mettere fine all'ultima ondata di violenza, che minaccia di investire l'intera regione.
"Non si tratta di chi biasimare di più, si tratta di fermare questa guerra", dice Kopty, portavoce di un'ong israeliana impegnata nella tutela dei diritti umani dei cittadini arabi del paese, "Non vogliamo vedere nessun cittadino ucciso da ambo le parti per una guerra evitabile. Non c'è alcun senso in quello che sta succedendo".

Tratto dalla “Nonviolenza è in cammino”, n. 1381 del 8 agosto 2006
L'indicibile tragedia che si sta svolgendo in questa sesta guerra tra Israele e il mondo arabo dovrebbe obbligarci a focalizzare la nostra attenzione su come potrebbe essere realizzata la pace in quest'area. I punti principali sono chiari, ma sono minacciati in particolare da coloro che smettono di pensare proprio quando ve ne sarebbe più bisogno. Questi punti sono:
1. Le risoluzioni 194 e 242 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che chiedono il ritorno dei palestinesi e il ritiro di Israele ai confini del 1967 (prima della guerra del giugno di quell'anno).
2. La risoluzione del Consiglio nazionale palestinese del 15 novembre 1988, che accetta la soluzione dei due stati.
3. La proposta avanzata dall'Arabia Saudita nel 2002 che Israele si ritiri entro i confini del 1967 in cambio del riconoscimento di tutti gli stati arabi.
Applicando questi punti si otterrebbero due stati tra loro confinanti, con Gerusalemme Est e la Cisgiordania (West Bank) che ritornano alla Palestina (Israele si è già ritirata da Gaza), le alture del Golan restituite alla Siria, e qualche problema minore di confine da risolvere, talvolta attraverso aggiustamenti creativi. Nessuna grande rivoluzione, solo buon senso.
Ma ci sono anche richieste minime e massime da entrambe le parti.
La Palestina ha tre richieste minime, non negoziabili: - uno stato palestinese secondo i punti 1 e 2 precedenti, con - Gerusalemme Est capitale, e - il diritto al ritorno, inteso come diritto ma negoziabile nella quantità,.
Israele ha due richieste minime, non negoziabili: - riconoscimento dello stato ebraico di Israele - entro confini sicuri.