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(Fonte: "la nonviolenza è in cammino", n. 1317 del 5 giugno 2006)

Ci sono due desideri collettivi che caratterizzano questi anni: la voglia di impero e la voglia di comunità.
Della prima ci parla l'inizio veramente folgorante del libro di Fabio Mini (La guerra dopo la guerra). La voglia di impero, o si potrebbe dire la smania di impero, è il fenomeno che caratterizza quest'avvio del terzo millennio. Sembra quasi che l'esperimento della democrazia popolare dopo meno di un secolo stia scivolando all'indietro verso un nuovo sistema imperiale.
Almeno parallela cresce un'altra voglia, quasi una smania, di comunità, la nostalgia di una comunità che non abbiamo in verità mai conosciuto. Scrive Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità,): La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta...
La voglia di sentirsi in quella comunione profonda diventa ricerca di un legame collettivo, potremmo quasi dire un legame "purché sia", anche inventato. Il che sarebbe in sé abbastanza ridicolo se non avesse elementi preoccupanti, che emergono in luoghi non poi così lontani da noi, con esiti cruenti. È la ricerca di un'appartenenza che ci sorregga nella distinzione da chi è diverso da noi perché sta oltre un certo confine, definito per stile di vita, gruppo etnico o religioso, o semplicemente una distinzione funzionale a rivendicare il nostro privilegio.
La smania di impero e di comunità sono entrambi modi di rifiutare la politica, la democrazia, la ricerca faticosa della costruzione di una convivenza, che non è regalata.

Cari pacifisti, vi spiego perché ho approvato quell’accordo Lidia Menapace

Oggi, cari amici pacifisti, devo narrarvi cose gravi e difficili e non per scarico di coscienza o per trovare giustificazioni o condivisioni da parte vostra, dato che so che la responsabilità di quello che decido è mia e intera la tengo.
Cominciano le prime decisioni del governo e la situazione non è allegra, almeno in Senato, dove -come è noto- la maggioranza è risicatissima e le imboscate possono sempre succedere.

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Nella Ginatempo (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) è una prestigiosa intellettuale impegnata nei movimenti delle donne, contro la guerra, per la globalizzazione dei diritti; è docente di sociologia urbana e rurale all'università di Messina; ha tenuto per alcuni anni il corso di sociologia del lavoro, svolgendo ricerche sul tema del lavoro femminile; attualmente svolge ricerche nel campo della sociologia dell'ambiente e del territorio. Tra le sue pubblicazioni: La casa in Italia, 1975; La città del Sud, 1976; Marginalità e riproduzione sociale, 1983; Donne al confine, 1996; Luoghi e non luoghi nell'area dello Stretto, 1999; Un mondo di pace è possibile, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2004]

Tratto da "La nonviolenza è in cammino", n. 1351 del 8 luglio 2006

[Dalla bella mailing list femminista e pacifista "Lisistrata" (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) riprendiamo il seguente intervento di Lidia Menapace, scritto come lettera personale ad alcune persone intervenute nel dibattito assai vivace e finanche aspro su quella mailing list svoltosi in questi giorni in riferimento al rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana ed alla posizione che Lidia assumerà in occasione del voto del 17 luglio in merito]

Le mie motivazioni partono prima di tutto dalla evidente profonda attuale crisi del movimento pacifista, argomento che ho sollevato il 2 giugno e che non si può sottacere; le notizie che tutti e tutte citiamo sono vecchie di qualche anno e non hanno più il timbro evocativo che avevano, intanto la cultura guerrafondaia e tutto il contorno di una diffusa acquiescenza alla guerra cresce ovunque.
Credo che bisogna ricostruire una cultura pacifista radicale (che non c'è più) e studiare strumenti di azione differenti (numerosi da me proposti negli scorsi anni sono stati del tutto lasciati cadere e non mi sono lagnata di ciò, anche se ci ho patito abbastanza, perché per anni ho detto cose sulla neutralità, riforma delle Nazioni Unite, ecc., lasciate sempre cadere a prò di una cultura più raffazzonata e urlata): ad esempio a me ora pare molto efficace ciò che sta avvenendo a Pordenone dove un comitato di cinque cittadini ha citato in giudizio il governo Usa, non come fatto simbolico, ma realmente, e offre al movimento collegandosi al resto d'Europa uno strumento di lotta tramite il diritto internazionale, rafforzando se stesso e anche il diritto, che era stato quasi del tutto cancellato.
Insomma nelle decisioni singole bisogna partire dal fatto che vi è stata una lunga battuta di arresto molto pesante nel movimento: le persone che hanno scritto o si sono rivolte a me per implorare che non facciamo cadere il governo sono più numerose di quelle che hanno scritto per imporre la scelta secca del no [il no al rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana - ndr] senza occuparsi delle conseguenze, e io non posso dimenticare che sono stata eletta sulla parola originaria di buttare giù Berlusconi.
Quanto al ragionamento che faccio e che a mio parere si sarabbe rafforzato e avrebbe avuto più forza nella trattativa col governo se avessimo - come avevamo convenuto - continuato a discutere tra noi per migliorare l'accordo invece di sbranarci subito tra noi, è facile da esemplificare: il decreto governativo peggiora già le sue chances migliorative, se il governo vede di non avere un appoggio sia pure tiepido e condizionato, ma almeno concorde, e si predispone subito a sostituirci nell'alleanza o a trattarci sempre col metodo della maggioranza invece che con quello del consenso.
Facciamo l'ipotesi che un accordo anche già peggiorato di fronte alle nostre dispersioni, passi alla Camera con alcuni no (che là sono possibili senza produrre alcunché perché ci sono margini) e poi venga al Senato dove viene respinto, dato che il margine è di due voti e basta meno degli otto [il riferimento è agli otto senatori che si sono espressi pubblicamente contro il rifinanziamento della partecipazione italiana alla guerra afgana - ndr] per respingerlo. Torna alla Camera e il governo nanuralmente predispone i termini per poterlo far approvare, il che significa che cerca alla Camera appoggi più larghi da esportare poi al Senato. Siamo già fuori dalla maggioranza e si avvia la costruzione di una "Grande coalizione" rispetto alla quale possiamo fare delle nobili testimonianze senza alcuna possibilità di verifica.
A me sembra, e lo dico crudamente, un'azione che favorisce, stabilizza e rende "normale" la guerra più che non l'altra ipotesi, certo molto meno suggestiva: posso sbagliare, ma non inganno nè me nè altri, e quello che dico è un ragionamento politico, non un volgare machiavellismo e nemmeno la prova che ho il cervello in pappa.
Con affetto, Lidia