Questa volta non si può dire che il solo colpevole sia Israele. Il fatto è troppo enorme. Grandi responsabilità ricadono su tutti quelli che - gli Stati Uniti anzitutto, la comunità internazionale nel suo insieme e ancora più in generale un «discorso» che ha mistificato e mistifica la verità al di là di ogni ragionevolezza - hanno permesso a Israele un'impunità che l'ha convinto della bontà assoluta di una strategia che si fonda sull'intransigenza senza il minimo spiraglio e sulla forza preventiva come sola politica (in realtà una non-politica). Il leit-motiv era che Israele non poteva perdere nessuna battaglia perché ciò avrebbe comportato perdere la guerra. Israele sapeva che Gaza era una breccia nella sua costruzione reale e immaginata. La «rinuncia» alla Striscia, agli insediamenti con i coloni, alle sinagoghe e alle serre, non doveva essere scambiata in nessun modo per un cedimento o una concessione.
Quel monito valeva soprattutto per l'opinione interna, contraria a ogni ritiro. D'altra parte, Sharon non si fece scrupolo di abbandonare a se stesso un territorio già disgraziato, ignorando scientemente quell'autorità palestinese (allora a Gaza non c'era Hamas al potere) con cui in teoria era in rapporto (il famoso processo di pace che non esiste ma che consola i professionisti della diplomazia). Il mondo doveva prendere atto che il trasferimento di sovranità era fittizio.
Scattano qui le colpe parallele di chi ha subìto e accettato l'embargo, la chiusura di tutti gli accessi, un confine che è fortificato a giudizio esclusivo di una sola delle due parti. Anche i check-points attraverso il muro che divide Israele dai territori occupati sono gestiti da soldati israeliani su entrambi i lati. Fin quando può reggere l'assurdo fuori del teatro?
Il sistema internazionale conosce tante asimmetrie ma la compiacenza con cui si è avallato questo sopruso non solo denunciava un totale disprezzo per i palestinesi come «soggetti di diritto» (alla lunga anche Abu Mazen finisce per subirne conseguenze irreparabili) ma contribuiva a rendere sempre più pericoloso il gioco in cui si stava invischiando Israele.
A Gaza non si doveva dare la possibilità di vivere e tanto più, anatema, di sviluppare un'economia o una società. Nessuno si chiedeva con che diritti e con che logica. Nel copione che seguono i politici e militari israeliani, qualsiasi brandello di Palestina deve essere per principio un covo di terroristi e una base per preparare la soluzione finale. Un allarme che doveva essere colto da tutti fu l'operazione Piombo Fuso scatenata dalle forze armate israeliane alla fine del 2008 come ritorsione per i razzi sparati dalla Striscia. All'epoca le giustificazioni sembravano avere un minimo di corrispondenza nella realtà. Si può meglio apprezzarne la futilità oggi quando si osa far riferimento alla «sicurezza» anche per l'attacco alla nave dei «turchi».
Anni fa Israele mise in scena un'operazione simile contro il Libano (i missili, i prigionieri, i bombardamenti) ma a Beirut malgrado Hezbollah si riconosce una personalità: il ministro D'Alema tentò di far rientrare Israele nella legalità internazionale e passò per un eversore.
La battaglia simulata eppure cruenta contro la flotta arcobaleno impegnata in un'interposizione di pace, in mezzo al mare, lontano dai luoghi deputati che connotano la «terra» (promessa o negata), è un ultimo atto che ha in sé tutti i segni della disperazione ma che potrebbe rivelare finalmente una luce. A saperlo leggere nel suo significato più profondo, lo scandalo di Gaza ha la forza per rilanciare la politica come alternativa alla guerra.
Fonte: Il Manifesto del 2 giugno 2010